Delocalizzazioni, vince chi fugge: il Governo obbedisce a Confindustria, insorgono CGIL e UIL

I desiderata di Confindustria sul Decreto Dignità (cancellazione di black list e sanzioni ai delocalizzatori) fanno breccia nell’agenda del governo; in più Carlo Bonomi chiede altro denaro per gli imprenditori. CGIL e UIL, orfane della CISL, hanno indetto uno sciopero generale.

C’è sempre una prima volta. E a questo giro la prima volta del presidente del Consiglio Mario Draghi si chiama sciopero generale indetto da CGIL e UIL. Un sindacato in parte menomato, visto che la CISL è contraria alla mobilitazione, ma resta il fatto che l’annuncio dello sciopero generale contro alcuni punti della legge di bilancio decisa dall’esecutivo è sicuramente un primo macigno su Palazzo Chigi in una materia – quella della politica economica, con fisco, delocalizzazioni e pensioni – che doveva essere l’asso nella manica del capo del governo.

A Palazzo Chigi c’è stupore. “Non ce l’aspettavamo”, commentano i collaboratori di Draghi e del ministro del Lavoro Andrea Orlando, convinti di aver messo in campo politiche sociali a favore dei lavoratori.

Forse Mario Draghi, dicono i più critici, piuttosto che stupirsi per l’inattesa decisione dello sciopero, avrebbe dovuto prevedere il giochino al rialzo di Confindustria e del suo presidente Carlo Bonomi, che ad esempio in materia di delocalizzazione, dopo essere riuscito a cancellare dalla legge di bilancio la black list delle imprese in fuga e le sanzioni nei confronti delle aziende che da un giorno all’altro decidono di sparire dal territorio italiano dopo aver utilizzato a man bassa fondi pubblici, ha cominciato a chiedere altri quattrini.

Inoltre Mario Draghi dovrebbe sapere che dietro i processi di delocalizzazione o chiusura delle aziende, magari per riaprire in altri Paesi, ci sono potenti fondi d’investimento inglesi o americani, come ad esempio il fondo Melrose, che si muovono sui mercati internazionali con grande cinismo.

Carlo Bonomi santo patrono dei delocalizzatori: via black list e sanzioni. E il Governo obbedisce

Una delle proposte in campo per arginare la delocalizzazione, il Decreto Dignità, poneva la questione in una giusta dimensione: i benefici fiscali e legislativi di cui godono molte imprese non si applicano ai progetti di quelle che, investendo all’estero, non prevedano il mantenimento nel territorio nazionale delle attività di ricerca, sviluppo e direzione commerciale, assicurando la salvaguardia dei medesimi livelli occupazionali e la protezione sociale dei lavoratori. Come ad esempio avviene in Germania.

Ed ecco uno dei punti incriminati da Confindustria: qualora le imprese che hanno ottenuto benefici delocalizzassero, le somme corrispondenti ai benefici ottenuti verrebbero recuperate attraverso meccanismi fiscali. Per facilitare l’attuazione di questa forma di controllo incrociato, esponenti del governo proponevano una black list per individuare le imprese con delocalizzazioni in corso o pronte alla fuga, e vere e proprie sanzioni. Questa proposta, rielaborata e depurata di elementi che non piacevano a Confindustria, è finita nel decreto Orlando-Todde.

Non appena il presidente della Confindustria ha finito di leggere la bozza del decreto firmato dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e dalla viceministra Alessandra Todde, ha aperto le ostilità gridando allo scandalo per “la propaganda anti-impresa” introdotta dal governo. Al presidente di Confindustria non è bastato chiedere e ottenere ancor prima di questo decreto l’eliminazione della black list e delle sanzioni, ma ha voluto anche sminuire la gravità di quell’impresa che ha licenziato via WhatsApp i lavoratori.

Non basta il veto: la Confindustria di Bonomi vuole altri finanziamenti

Che cosa propone in alternativa il presidente Carlo Bonomi? Udite udite: incentivi alle imprese per convincerle a non delocalizzare. Tradotto, altri quattrini che dovrebbero ingrossare il malloppo di 115 miliardi stanziati per le imprese italiane dai governi Conte 2 e Draghi. Naturalmente, incentivi senza condizioni e senza controlli che verrebbero affidati alla buona volontà degli imprenditori o dei fondi d’investimento, che com’è noto sono guidati da una forte etica degli affari e hanno a cuore il destino dei lavoratori, che in tutte le delocalizzazioni restano senza lavoro.

Avendo tuttavia ceduto alle pressioni della Confindustria sul terreno delle delocalizzazioni, ora il governo presieduto da Mario Draghi è in mezzo al guado, accusato dai sindacati che gli rimproverano l’iniquità di alcune scelte governative e la debolezza verso gli imprenditori e la Confindustria, che alza sempre di più l’asticella delle richieste perché ha capito che il Governo Draghi è disposto a mediare.

Prima di raccontare la case history di un imprenditore che è stato capace di dire no alla delocalizzazione, pur criticando l’assenza di servizi alle imprese, vale la pena fare il punto su questa piaga presente in Italia da decenni.

Nell’impresa vince chi fugge? In Italia sì, da decenni

Nel nostro Paese il fenomeno delle delocalizzazioni c’è da sempre, e tocca le multinazionali come i grandi gruppi industriali, così come le piccole e medie imprese – cioè l’intero tessuto industriale italiano.

Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la frammentazione socioeconomica dei Paesi dell’Est il fenomeno si è fatto più intenso. Quell’area dell’Europa è diventata la zona più ambita dai delocalizzatori. Non a caso il luogo dove alcune aziende fuggono senza nessuno scrupolo sono molto spesso gli ex Paesi comunisti: Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria e come vedremo nel racconto di un imprenditore brianzolo anche l’Austria.

Le ragioni della fuga sono note: il divario enorme tra il costo del lavoro in Italia e in quei Paesi e i disservizi dei governi italiani per le imprese, che spingono molti imprenditori ad accettare i ponti d’oro offerti da quegli Stati esteri (come ci racconterà l’imprenditore Alberto Croci).

Cento miliardi alle imprese (e ai delocalizzatori)

L’elenco delle aziende che delocalizzano è lunghissimo. Le più note alla cronaca recente sono la Whirlpool, la GKN, la Giannetti o la Timken, ma se si dovesse fare una ricostruzione nell’ultimo decennio delle delocalizzazioni in Italia si scoprirebbero le maggiori griffe della nostra industria: dalla Fiat alla Bialetti, dai Benetton alla Ducati, da Calzedonia alla Stefanel, solo per citare alcune imprese che in questo decennio hanno utilizzato a man bassa la delocalizzazione.

Il drammatico fenomeno, che ha depauperato il tessuto produttivo italiano per decenni, è tornato come un fantasma sui tavoli degli ultimi governi – e in particolare del governo Draghi – a causa dell’esplosione delle crisi aziendali, causate a loro volta dalla crisi finanziaria internazionale del 2008. Crisi che, a causa della pandemia, sono rimaste sottotraccia per due anni, ma che non potevano non riemergere nel momento in cui il Governo ha messo mano alla ricostruzione post pandemica, e dunque ai finanziamenti alle imprese che dovrebbero contribuire alla ripresa.

Stiamo parlando di una torta da un centinaio di miliardi alle sole imprese, che in queste condizioni vengono affidati alla libera coscienza degli imprenditori. Tra di essi, tuttavia, c’è anche chi rifiuta di ricorrere alla delocalizzazione, e sono voci da ascoltare per inquadrare del tutto il fenomeno e lo stato di salute del tessuto produttivo italiano.

Photo credits: giornaleradio.fm

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