Lorenzo Armando, The Publishing Fair: “L’editoria è un’industria prima ancora che un libro”

Che cosa deve fare l’editoria per crescere come industria? Servono nuove figure oppure bisogna recuperare vecchi mestieri ormai finiti nel dimenticatoio? La rivoluzione digitale ha spazzato via certe professioni oppure le ha solo ridisegnate? Queste domande, nel caso dell’editoria italiana, non sono per nulla scontate, anche perché nel nostro Paese cultura e business sembrano sempre […]

Che cosa deve fare l’editoria per crescere come industria? Servono nuove figure oppure bisogna recuperare vecchi mestieri ormai finiti nel dimenticatoio? La rivoluzione digitale ha spazzato via certe professioni oppure le ha solo ridisegnate?

Queste domande, nel caso dell’editoria italiana, non sono per nulla scontate, anche perché nel nostro Paese cultura e business sembrano sempre due linee parallele che oltre a non incontrarsi mai viaggiano a velocità diverse. O meglio: diciamo che non siamo ancora riusciti a fare della cultura un’industria che segue logiche imbevute di professionalità imprenditoriale.

“È vero che quello dell’editoria è un settore a cui è facile appassionarsi, però non c’è ancora un equilibrio tra questo sentimento e le ragioni di sostenibilità economica”. È la prima cosa che mi dice Lorenzo Armando quando lo raggiungo telefonicamente. Diversamente non è possibile: la prima edizione di The Publishing Fair incombe (22-23-24 novembre) e il tempo a disposizione è risicato. Quello che lui e Marzia Camarda hanno in mente e che stanno finendo di costruire è un luogo dove ragioni e sentimenti editoriali possono incrociarsi: l’evento di Torino è infatti stato concepito come uno spazio in cui tutti coloro che lavorano nel settore dell’editoria avranno la possibilità di incontrarsi per ragionare sul proprio mestiere. Uno spazio in cui ci si ritrova senza l’esigenza e l’ansia di vendere libri, ma sapendo che ci saranno persone con cui confrontarsi e momenti formativi importanti. Per far capire anche la portata internazionale dell’appuntamento, la conferenza stampa di lancio è stata organizzata lo scorso 17 ottobre alla Buchmesse di Francoforte, senza dubbio la Mecca del comparto.

 

 

Nel mondo dell’editoria uno spazio così non esisteva.

Questa è l’idea che mi scalda di più: quella di poter dare al settore uno spazio che non c’era, un momento per parlare di certi temi con un taglio francamente professionale.

Perché dici francamente?

Perché quando fai un lavoro che è legato alla cultura parlare di soldi sembra sempre un di più. Questo è un limite che va superato, soprattutto dal comparto medio-piccolo che di fatto è spesso un tutt’uno con quello dei freelance.

Quindi c’è un deficit importante a livello imprenditoriale.

Indubbiamente. Anche perché nell’editoria parlare di business in maniera esplicita sembra più difficile rispetto ad altri settori, e di conseguenza le aziende medio-piccole, che si sono spesso sviluppate a livello famigliare, fanno fatica a evolversi e a crescere. Ad esempio, in questi mesi si discute della legge sul libro e il focus principale è sempre sulla lettura, sul fatto che sia un bene per la società che la gente legga, e di conseguenza sulle politiche di prezzo e sugli sconti. Un’analisi più ampia e approfondita su come si regge il settore rimane sempre in secondo piano. Con questo evento vogliamo fornire una serie di strumenti di formazione che possano allargare gli orizzonti di queste imprese.

Che tipo di formazione mettete in campo?

Parto da un esempio: in questo momento il tema di cui tutti parlano è l’audiolibro. Preso atto del boom commerciale, a noi interessa capire come si realizzano, quali professionalità servono, quanto ci si guadagna e che tipo di editori ha senso che si mettano a produrli. Affrontare questi temi con le persone giuste, avendo la possibilità di confrontarsi tra colleghi con tempi e modalità adeguati (non frettolosamente come spesso succede nelle fiere commerciali, dove ovviamente lo scopo principale per tutti noi è la vendita, e il resto è contorno) è la filosofia di fondo dell’iniziativa.

Quindi non un salone, ma un salotto.

Purché “salotto” non faccia pensare a intellettuali snob, che nell’editoria certo non mancano. The Publishing Fair vuole essere il posto in cui facciamo comunità come settore e in cui coinvolgiamo tutti, dai liberi professionisti ai dirigenti delle multinazionali.

Fare comunità è una bella espressione, molto più forte di quel “fare rete” che siamo abituati a sentire.

Vogliamo riconoscerci, cercando di ragionare in modo non episodico sulle criticità e le opportunità dell’intero settore.

Quali sono i mestieri che hanno una prospettiva più ampia di crescita nell’immediato futuro?

La prima edizione di The Publishing Fair è incentrata sul comparto non fiction, e sicuramente è qui che il digitale si è ritagliato uno spazio maggiore rispetto al cartaceo. L’editoria non ha ancora fatto veramente i conti con il web. Non abbiamo ancora capito fino in fondo che essere digitali non vuol dire semplicemente mettere online il prodotto da far scaricare e acquistare, ma curare i contenuti portandosi dietro la competenza dei prodotti cartacei ripensata per il web. Questo passaggio è ancora in gran parte da fare.

Quali sono queste competenze ancora inesplorate?

Ad esempio: se mettiamo online un pdf sfogliabile stiamo semplicemente riproducendo un modello cartaceo adattandolo a uno strumento diverso, ma non stiamo pensando niente di nuovo. Bisogna andare oltre, a partire dal design del prodotto. In questo settore ci sono grandi opportunità, ma il designer e il progettista di contenuti editoriali online sono figure che ancora quasi non esistono, in Italia. A The Publishing Fair interverranno diversi esperti, anche dall’estero, per spiegare come stanno lavorando, per esempio sulla manualistica professionale, o nel settore scientifico. Ci saranno anche tavole rotonde sui nuovi modelli di distribuzione e di business, e workshop sia tecnologici che creativi.

Ci sono altri settori dove le potenzialità del digitale non si sono ancora espresse compiutamente?

Sicuramente quello della scolastica. D’altronde non è scontato che il digitale sia la modalità più adatta all’apprendimento e alle sue tempistiche, anzi. Durante la giornata del sabato ragioneremo anche su queste specificità.

Finora abbiamo parlato di professioni mancanti oggi e necessarie nell’immediato futuro. Ma c’è anche qualcosa che manca perché è andato perso rispetto al passato, e che andrebbe recuperato?

Ci sono nozioni che una volta si apprendevano in casa editrice, per esempio quelle di ambito tipografico: fin dai primi giorni di lavoro si sentiva parlare della cucitura a filo refe di un libro o della grammatura e dei tipi di carta. Oggi in gran parte si sono perse, così come si potrebbe dire di varie competenze di tipo redazionale. Ma chi lavora in questo settore, chi progetta una pubblicazione, oggi a maggior ragione non può non avere competenze su tutta la filiera. Tornando alla stampa, è un comparto in cui si sta facendo innovazione, le tecnologie sono in evoluzione, e per questo abbiamo inserito nel programma dei workshop specifici con gli addetti ai lavori. Abbiamo l’obiettivo di aggiornare un know how che dovrebbe essere già presente, ma che appunto in molti casi si è perso. Ed è anche un modo per non perdere il fascino artigianale e materiale della professione, che noi crediamo resisterà anche in futuro.

Ci sono mestieri che non sono spariti, ma che rispetto al passato hanno subito un’evoluzione magari imprevedibile?

Chi conosce più la figura del lessicografo? Lavorava sui dizionari ed è stata una professione fondamentale nella storia dell’editoria; spesso serviva ai redattori per farsi le ossa. Anche chi non è del mestiere può immaginare che dietro la voce di un’enciclopedia c’erano una o più persone che facevano continue verifiche manuali, quando ancora non c’erano i computer e i sistemi di archiviazione erano molto diversi. Tutto quel mondo è sparito nel giro di pochi anni, ma oggi un tipo di competenza paragonabile (inimmaginabile 20 anni fa) è quella richiesta da chi lavora con le tecnologie del linguaggio: si studiano i termini usati e gli argomenti trattati dalle persone, soprattutto sul web, elaborando grandi quantità di dati. I linguisti oggi non ordinano voci su un’enciclopedia, ma lavorano con le aziende che utilizzano la ricerca semantica. Anche questo per noi è editoria, e sarà uno degli argomenti della prima edizione di The Publishing Fair, accanto alle possibili applicazioni dell’intelligenza artificiale e della blockchain, per citare due temi oggi sotto i riflettori.

E il rapporto tra piccoli e grandi gruppi editoriali come si è evoluto in questi ultimi anni?

Fino a più o meno quindici anni fa, a mio avviso, c’era una sorta di continuità. Tra le piccole e le grandi case editrici c’era essenzialmente una differenza di scala, ma le modalità operative erano simili. C’erano gli stessi canali di promozione e vendita e anche le professionalità impiegate erano sostanzialmente identiche, ovviamente con numeri diversi. Invece progressivamente il sistema si è polarizzato: i grandi gruppi si sono ristrutturati secondo logiche aziendali che prevedono il controllo dell’intera filiera fino alla vendita, perché come sappiamo si sono creati anche le loro catene di librerie. Questo approccio non è affatto da demonizzare per principio, dal mio punto di vista, ma oggettivamente rende più difficile ragionare in maniera coesa. Oggi la distanza tra i grandi gruppi e l’editoria indipendente e medio piccola si sta approfondendo. Prima i grandi e piccoli erano in qualche modo complici; ora lo sono molto meno, e questo non ritengo faccia bene al comparto. Ad esempio nel settore giuridico, medico o universitario l’Italia sconta un ritardo rispetto ai grandi gruppi internazionali, e le piccole realtà (ma non solo quelle piccole) ne hanno sofferto (si pensi a quello che è successo a Torino nel settore dell’editoria medica).

Comunque a Torino ci saranno tutti, sia grandi che piccoli.

Ci saranno quasi tutti, ma sia chiaro: non c’è nessuna pretesa di influenzare queste dinamiche. Vorremmo semplicemente che la comunità editoriale respirasse aria di casa. Si potrà ragionare insieme sul fatto che non si smetterà di leggere, ma che si leggerà (soprattutto le nuove generazioni, ovviamente) in maniera diversa. La fruizione dei contenuti editoriali continuerà a evolvere, e lo farà sempre più in fretta, ma non sparirà. E l’editoria dovrà essere capace di intercettare i cambiamenti, meglio di come è riuscita a fare finora, se non vuole vedere drasticamente ridimensionata la sua funzione di mediazione tra produttori e fruitori di contenuti; una prospettiva che ormai non appare del tutto implausibile.

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