Nessuno ha protetto i medici di base dalla psicosi collettiva del virus

Non esiste solo la salute del corpo. Durante l’emergenza sanitaria troppi medici di base sono stati lasciati soli a gestire il virus e le loro stesse paure.

Dal Giuramento di Ippocrate, i medici si assumono un compito, che è quello “di perseguire la difesa della vita (…) e il sollievo della sofferenza”. Anni di studi, praticantati, specializzazioni attraverso cui prestare fede a quel voto.

È marzo del 2020 e scoppia una pandemia. Nessuno dei nostri medici era preparato a gestirla, né per conoscenza tecnica né per preparazione psicologica, eppure tanti medici di base hanno tentato di tener fede al giuramento, nonostante tutto.

Sovraccarichi di lavoro, ma soprattutto di paura. Senza dispositivi di protezione, hanno fatto visite domiciliari quando le telefonate non erano sufficienti per capire lo stato di salute del paziente; senza chiare informazioni scientifiche hanno tentato terapie, prima guidati dal buon senso personale, e poi guidati dalle informative che giungevano una dietro l’altra. Schiacciati nel mezzo tra le istituzioni pubbliche e l’utenza.

I medici di base e la responsabilità di gestire la “psicosi da virus”

Da psicoterapeuta a Vienna, guardando da un’altra angolatura, scrivevo a maggio che era in corso in Italia un’induzione alla psicosi da virus. I primi che hanno pagato in termini professionali gli effetti psicologici dell’amplificazione mediatica sono stati proprio i medici di base, che avevano il compito di fare diagnosi differenziale tra quelli che stavano morendo di paura, a cui sono stati prescritti perlopiù ansiolitici, e quelli che il virus lo avevano preso per davvero, e non era chiaro come fare per difendere la loro vita.

I medici più bravi, quelli che sanno accogliere le persone nella loro interezza, hanno dato conforto e ascolto, piuttosto che somministrare psicofarmaci.

In seguito all’uscita dell’articolo in tanti mi hanno scritto, raccontandomi dolori privati, preoccupazioni, difficoltà nel fronteggiare l’incerto. Tra questi un medico di base, che mi scrive: “È un momento professionalmente complicato per me, non solo perché da medico affronto un certo rischio di contagio, ma perché ho dovuto mettere in discussione la mia posizione rispetto alle istituzioni e all’utenza. Tuttora sto perdendo il sonno rispetto a quello che vorrei, che potrei o che dovrei fare, soprattutto in termini di esposizione personale”.

Chi avrebbe dovuto proteggere i medici fornendo informazioni scientifiche e i dispositivi di protezione adeguati? Le istituzioni. Chi avrebbe dovuto proteggere i cittadini dalla “psicosi da virus”? Il garante per l’informazione pubblica.

Eppure le responsabilità del diffondersi del virus, del sovraccarico di lavoro delle strutture ospedaliere e dei professionisti medici sono state attribuite ai cittadini irresponsabili, ai giovani vacanzieri, a quelli che le mascherine non volevano mettersele, a quelli che pensavano che la pandemia fosse solo un’invenzione. La guerra tra poveri.

“Proteggiamo la sanità stando a casa”, è stato ripetuto all’infinito. Chi ha protetto i medici dall’incertezza, dai tormenti personali? Chi ha protetto le persone che avevano paura, chi ha gestito l’incremento della diffidenza tra i cittadini, amplificata dall’idea che era necessario un distanziamento sociale, quando invece il distanziamento era fisico?

Sociale” è una parola troppo preziosa perché venga usata male, soprattutto in un mondo che all’improvviso è cambiato sotto i nostri occhi per cui ogni altro da noi è diventato il nemico.

Se il COVID-19 ha danneggiato la fiducia collettiva

Ecco che giunge il vaccino, che viene raccontato come soluzione per la pandemia.

Si continua a parlare, a investire e ad agire ancora solo in funzione della protezione dei corpi, senza accorgersi che dal punto di vista sociale è accaduto qualcosa di più grave: si è persa la fiducia nelle istituzioni, nella classe politica, nella medicina, nella capacità di configurare in modo adeguato i problemi perché possano essere cercate soluzioni efficaci.

Come si ricostruisce la fiducia collettiva, la fiducia nel prossimo? Tentando di comprendere le ragioni dell’altro, che non sempre sono facilmente intuibili e comprensibili.

Per questo, da psicoterapeuta, ho voluto raccontare la pandemia vista dagli occhi dei medici di base, schiacciati tra utenza e istituzioni. I rappresentanti sociali della medicina. Quelli che chiami quando senti che qualcosa nel tuo corpo non funziona. Eppure, in questa pandemia, si sono dovuti accollare anche la gestione “dell’induzione alla psicosi da virus”, visto che della gestione dei problemi psicologici emergenti nella popolazione non se ne è parlato in modo adeguato e ci si è affidati per lo più agli psicofarmaci in ambito pubblico, pur sapendo che creano dipendenza in molti casi; possiamo già anticipare che dovremo gestire i problemi legati alle complicate deprescrizioni.

Come si riacquista la fiducia nell’altro necessaria a ricostruire quello che è andato perduto? Sicuramente non con un’altra molecola psicotropa o con un vaccino, ma ricordandoci che anche noi siamo “l’altro” per qualcuno, e prima di chiedere dovremmo imparare a dare. Soprattutto comprensione.

Photo by Clay Banks on Unsplash

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