Open space vs closed office

Complice la tecnologia che usiamo per svolgerlo, il nostro modo di vivere il lavoro è molto cambiato in questi ultimi anni e con esso anche l’atteggiamento con cui percepiamo gli spazi ad esso adibiti. Dall’ipertecnologico spazio ad anelli concentrici dell’Enterprise, così chiamano la redazione de “La Stampa” a Torino, alla sede di Facebook a Menlo […]

Complice la tecnologia che usiamo per svolgerlo, il nostro modo di vivere il lavoro è molto cambiato in questi ultimi anni e con esso anche l’atteggiamento con cui percepiamo gli spazi ad esso adibiti. Dall’ipertecnologico spazio ad anelli concentrici dell’Enterprise, così chiamano la redazione de “La Stampa” a Torino, alla sede di Facebook a Menlo Park, in California, sono molte le realtà che hanno scelto l’open space. Abbiamo deciso di parlarne con Roberto Paoli, designer di rilievo per Fiamitalia, Liv’it, Nemo, Artemide, Fellowes, Ligne Roset, Bonaldo e Tucano.

La tipologia dell’open space risale agli anni Cinquanta, la ritieni una concezione ormai obsoleta o è semplicemente mutato, nel tempo, il modo in cui il progettista ne genera il disegno? Quali sono le linee guida da implementare in un ambiente di lavoro?

“Lo spazio a pianta aperta è un tema progettuale che ho affrontato più volte e non lo considero antiquato. Se si verificano le condizioni per cui i componenti di un’azienda possono lavorare tutti all’interno di uno stesso spazio, perché vi è compatibilità tra le tipologie di lavoro e non vi sono impedimenti per curarne al meglio comfort acustico, illuminazione e ergonomia, allora, in questo caso, si può ideare un ambiente open. Resta però necessario affiancare ad esso tutta una serie di parti che per svolgere al meglio la loro funzione non possono esservi inglobate: sale di conversazione informale o formale (meeting room), luoghi di ricreazione, angoli di contemplazione (spazi di creazione silenziosa in cui si possa riflettere nei momenti di pausa), strutture insonorizzate per lavorare in privacy e uffici singoli per la dirigenza, oltre ovviamente a servizi accessori. Il progetto di uno spazio lavorativo non può prescindere da tali caratteristiche e se non sono già parte dell’architettonico vanno ricreate.”

Ritieni che l’open space sia il luogo ideale per stimolare la produttività? Che può fare un architetto perché chi lavora si senta a suo agio dove trascorre buona parte delle sue giornate?

“Stimolare la produttività di chi lavora è un tema complesso dibattuto su più fronti, ma credo che, al centro delle riflessioni del progettista, ci debba essere l’intento etico di migliorare la qualità della vita dei possibili fruitori in toto; l’aumento produttivo sarà semplicemente uno dei vantaggi generati. Il mosaico da comporre per realizzare ciò è fatto di molte tessere e l’open space è solo una di esse. L’area lavoro si sta orientando sempre più verso il domestico. Un tempo sceglievamo per le nostre case arredi confortevoli, che evocavano morbidezza e colori caldi, mentre in ufficio ci circondavamo di spigoli e colori freddi. Il workplace odierno mira a essere un luogo accogliente in cui ci si rechi volentieri e dove l’utente non viva la sensazione di entrare in una scatola; si lavora avendo la possibilità di scegliere come personalizzare il proprio spazio e i propri strumenti di lavoro ed esaltare la flessibilità degli oggetti che ci circondano. L’open space genera nella maggior parte dei casi ottimi risultati.”

Quali arredi e materiali consiglieresti?

“L’ufficio si ispirerà al comfort delle case, non escluderei, pertanto, di trovare complementi d’arredo per esso nei cataloghi dell’abitativo. La scelta dei materiali sarà più che mai accurata, uno spazio avvolgente dalle sedute alle scrivanie, fino ai pavimenti. Si utilizzeranno legni dalle colorazioni calde, pietre levigate, tessuti e moquette. Anche le pareti potranno ammorbidirsi grazie all’uso di carte da parati con touch particolarmente soffici o rivestimenti tessili”.

Sei un architetto, ma anche un imprenditore che gestisce spazi e persone e il tuo studio, a Milano, oltre ad avere un nome suggestivo, Seminato Mercadante (da cui è nato anche un innovativo progetto di brand legato al Design), è un ambiente molto particolare. Quale è stata la soluzione per cui hai optato?

“Appena approdato a Milano, ho sentito subito il bisogno di organizzare il mio lavoro al meglio, come sai a noi architetti non basta una scrivania. Gestiamo tavole di rappresentazione di arredi spesso in scala 1:1 e realizziamo i prototipi con le nostre mani. Quando ho trovato questo spazio nel cuore di Milano ho capito che sarebbe stato il luogo giusto: un palazzo dei primi del Novecento, con una superficie di 500 mq su due piani, da far rinascere a nuove funzioni. Lo studio prende il nome dal pavimento originale, un seminato posato in opera riportato all’antico splendore, e dalla via in cui si trova; vi ho voluto un laboratorio dove lavorare la materia e grandi tavoli per dare la possibilità ad ogni collaboratore di osservare i progetti ed esporre le proprie idee. In origine era suddiviso in piccole stanze, ma abbiamo scelto di trasformarlo in uno spazio multifunzionale, con una grande area centrale operativa e delle zone delimitate da vetri che si integrano al vano principale grazie alla trasparenza. Oggi, dopo qualche anno, posso dire che la scelta è stata azzeccata.”

Se studi di diversa matrice si schierano dunque pro o contro gli open space, perché uno spazio aperto comporta rumore, scarsa privacy e difficoltà di concentrazione, ma anche collaborazione, apprendimento condiviso e integrazione, la via progettuale che si delinea all’orizzonte è probabilmente una forma ibrida, flessibile, che permetta a chi lavora di decidere quando e quanto socializzare con i colleghi.

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