I dati dell’Osservatorio JobPricing sulle retribuzioni e le differenze salariali in Italia: chi guadagna di più e chi di meno, e perché? Un confronto tra lavoratori, settori e Paesi.
Perché l’Italia è low salary
La società italiana fino agli anni Ottanta ha vissuto una crescita dei salari a cui ha corrisposto una crescita della produttività. A quel punto il salario, anziché proseguire la sua ascesa, ha subito una serie di smottamenti tali da creare nel Paese ampi differenziali. Siamo entrati nell’epoca del low salary. La crescita salariale si è […]
La società italiana fino agli anni Ottanta ha vissuto una crescita dei salari a cui ha corrisposto una crescita della produttività. A quel punto il salario, anziché proseguire la sua ascesa, ha subito una serie di smottamenti tali da creare nel Paese ampi differenziali. Siamo entrati nell’epoca del low salary. La crescita salariale si è interrotta, e quindi è tornata indietro, per tre motivi principali: globalizzazione, outsourcing e Sud.
Globalizzazione
Lo spostamento delle fabbriche in altre parti del mondo ha rotto il sistema chiuso in cui viveva l’azienda. Il salario si autoalimentava perché contenuto in uno spazio definito. La dinamica intrinseca del capitalismo, la ricerca costante dell’abbassamento dei costi di produzione e quindi del costo del lavoro, ha determinato un nuovo spazio vitale dove affermarsi. La contemporanea apertura di paesi come la Cina e l’India, in grado di offrire miliardi di persone a basso prezzo, ha fatto il resto.
La diga si è rotta e l’acqua ha tracimato su altri terreni. Questo depauperamento del lavoro per l’Italia si è rivelato più forte rispetto ad altri Paesi. È una storia che tutti conosciamo: quando l’offerta dei prodotti si amplia indistintamente, il valore del prodotto stesso diminuisce. È una legge di mercato. Allo stesso modo il prezzo del lavoro di un’area specifica tende a scendere fino a incrociare il valore del prezzo di un’altra area.
In questi ultimi trent’anni alcuni Paesi hanno evitato questa morsa naturale applicando quello che l’economista David Ricardo ha chiamato il “vantaggio comparato”: specializzarsi in un prodotto o in un servizio permette di tirarsi fuori dal gioco del prezzo. La specializzazione o distintività la si può creare sia attraverso migliori tecnologie sia perché i fattori produttivi classici – capitale, lavoro e materie prime – rendono più conveniente o non riproducibile in altro luogo il prodotto/servizio. È quello che ha fatto la Germania sfruttando la sua capacità di specializzarsi nell’automotive.
In realtà anche l’Italia ha avviato questo processo: il mondo del tessile ne è stato un esempio. Con la chiusura di migliaia di lanifici, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, quelli che sono rimasti si sono alzati nella gamma di prodotto introitando il valore aggiunto del made in Italy e dell’heritage. L’Italia, in questo caso, ha saputo sfruttare le sue competenze tecniche e di design.
Anche dopo la crisi del 2008 si è assistito a un’ulteriore scrematura del nostro tessuto industriale e, contemporaneamente, a una capacità di riqualificazione di migliaia di piccole e medie aziende che hanno fatto della specializzazione il loro principale driver per resistere e crescere. Essere più bravi degli altri – sia chiaro: non meno costosi – e trovarsi in un territorio da cui trarre ispirazione sembrano due chiavi di lettura per reggere la competizione globale e uscire dalla sindrome del low salary. Mentre il primo fattore, le competenze, offre un vantaggio competitivo a tempo limitato – gli altri cresceranno e sfideranno costantemente le nostre competenze – il territorio genera un vantaggio competitivo a rilascio più lungo: per gli altri Paesi è difficile riprodurre la nostra storia e la nostra cultura.
Se la formula fosse applicabile a tutto il sistema produttivo italiano, il problema del salario adeguato e della sua dinamica sarebbe risolto. Peccato che le aziende che sono riuscite a rigenerarsi grazie al vantaggio comparato, secondo alcune analisi, sono solo il 20%, il che impedisce all’intero sistema di evolvere.
Outsourcing
Una competizione fatta solo sul costo del lavoro ne ha provocato la “balcanizzazione”. Spostare alcune aree non strategiche dell’azienda fuori dal suo perimetro, anche se non in un altro Paese, ha generato un sistema di forte precarizzazione e di minore remunerazione rispetto ai lavoratori che entrano in fabbrica dal cancello principale.
Il caso tipico che stiamo vivendo, testimoniato da molte indagini giornalistiche, è quello della logistica (Piacenza docet). La povertà intrinseca della mansione – spostare unità di carico – e la deregulation contrattuale hanno creato una vasta area del paese in cui il controllo è una mera parola presente sul vocabolario, priva di qualunque applicazione.
L’outsourcing ha però un’origine tutta italiana, fatta di regole mancate o non applicate. I controlli delle autorità statali preposte sono praticamente assenti; la presenza di un dumping contrattuale del mondo cooperativistico e la mancata applicazione dell’art. 39 della Costituzione hanno generato il caos. In particolare, gran parte dei problemi è causata dalla non applicazione della norma costituzionale che statuisce che solo i sindacati registrati (e quindi dotati di personalità giuridica) possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli operatori alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
In sostanza, la non validità erga omnes del CCNL e l’ostinazione sindacale – testimoniata dal recentissimo “Patto della fabbrica” di CGIL-CISL-UIL con Confindustria – a non volere in Italia il salario minimo legale, hanno consentito una giungla contrattuale dove ognuno si fa à la carte il proprio CCNL e il proprio costo del lavoro orario. Fissare un minimo salariale adeguato significherebbe fermare questa deriva e manterrebbe al sindacato la sua agibilità. Anche qui la Germania lo dimostra: esiste il salario legale e allo stesso tempo uno dei più forti sindacati al mondo, l’IG Metal.
Dall’altro lato, rimane incomprensibile come gli imprenditori, anche di importanti gruppi multinazionali, accettino questa situazione nella gestione dei loro magazzini. Oggi il servizio, inteso come capacità di arrivare nei tempi giusti al cliente finale, è una delle chiavi del successo per un’azienda. Non occuparsi di un bubbone è destinato a scoppiare in una fase cruciale della propria supply chain è irragionevole e contraddittorio. Il progressivo outsourcing è anche un problema manageriale: i confini dell’azienda sono labili e la gestione delle persone al suo interno diventa parzialmente utile. Governare un’azienda solo nel suo nocciolo duro, dimenticando tutto ciò che le sta fuori e intorno, rischia di essere un esercizio poco produttivo che crea diseguaglianze ancora più elevate.
Sud
La decisione di abbandonare una parte rilevante del nostro Paese, creando una consistente fascia di persone sottoccupata o disoccupata, è un esercizio che rischiamo di pagare in un conto finale. Anziché procedere come la Germania post-unificata con le aree dell’Est, l’Italia negli ultimi trent’anni ha deciso che metà del suo territorio dovesse essere lasciato andare a se stesso.
Certamente le colpe non sono solo legate al Governo e alle sue mancate politiche di industrializzazione. Esiste una responsabilità collettiva che va dal sistema della giustizia a quello delle élite di quei territori. L’indice Nic, l’indice nazionale dei prezzi al consumo, e l’Ipca, quello che misura l’inflazione al fine di adeguare gli aumenti da applicare ai CCNL, sono sostanzialmente fermi da molti anni. I fattori che determinano il ribasso della dinamica dei prezzi è il sottoutilizzo dell’offerta di lavoro e il basso livello delle retribuzioni.
Il sottoutilizzo dei lavoratori è un dato che sfugge spesso alle statistiche ufficiali del tasso di disoccupazione. Secondo l’Inps e l’ufficio parlamentare di Bilancio, il sottoutilizzo, con quello legato alla disoccupazione, vale il 24,5%: un dato che vale più del doppio dell’indice stesso di disoccupazione. L’ultimo bollettino offerto dall’Istat segnala che mentre al Nord il tasso di disoccupazione è pari al 6,9% (cioè quasi alla disoccupazione fisiologica), al Centro è al 10% e al Sud è al 19,3%. Se applichiamo a questo indice quello della sottoccupazione, vuol dire che più della metà della popolazione al Sud o è disoccupata o è sottoccupata, con punte che superano il 70% per i giovani tra i 15 e i 34 anni. Sono numeri che fanno rabbrividire e che dimostrano perché la dinamica salariale in Italia non può che rimanere ferma, se non arretrare.
Gli effetti salariali della tecnologia
Queste tre dinamiche non sono le uniche a determinare nel nostro Paese un costo del lavoro che ha reso la società più povera e, soprattutto, più diseguale. Una quarta dinamica ha colpito – in parte – l’Italia. La tecnologia da noi ha avuto un impatto minore, proprio per la nostra struttura produttiva fatta da piccole aziende a basso valore aggiunto in termini di innovazione. Questo non significa che non l’avrà in futuro: se le previsioni si realizzeranno, la tecnologia sconvolgerà il nostro modo di lavorare, e a quel punto produrrà un ulteriore compressione del costo del lavoro.
Sono rivoluzioni che in alcuni casi si realizzeranno tra venti o trent’anni, in altri tra sei mesi. L’obbligatorietà della digitalizzazione delle fatture passive e attive che si concretizzerà nel 2019 comporterà una drastica diminuzione dell’occupazione nelle aree contabili delle aziende, quindi un’ulteriore offerta di lavoro che deve essere affrontata con la riqualificazione, per non produrre altra disoccupazione.
Sappiamo tutti che nel nostro Paese la strada della formazione e delle politiche attive è ancora tutta da esplorare (secondo una ricerca del Centro studi dei consulenti del lavoro, valgono solo il 2% di tutta la spesa per l’occupabilità). Qualcuno sostiene che in futuro il costo del lavoro sarà agganciato al mero costo orario di un robot. A quel punto o si gestiranno i robot, con le competenze elevate che il compito richiede, o sarà necessario che il proprio costo del lavoro sia inferiore al loro.
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