Pierluigi Lopalco: “Una riforma inadeguata peggiorerebbe le differenze sanitarie tra Regioni”

L’epidemiologo e consigliere regionale pugliese, in intervista esclusiva a SenzaFiltro, commenta gli stanziamenti sanitari del PNRR.

È “impossibile pensare di attivare una così vasta rete di assistenza territoriale organizzando il lavoro come si è fatto fino a ora”.

Ad affermarlo è Pierluigi Lopalco, epidemiologo di fama europea che ha indirizzato le scelte del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano durante il primo lockdown, e lo ha poi affiancato in Giunta assumendo la responsabilità dell’assessorato alla Sanità. Qualche mese fa ha restituito la delega, e ora svolge con particolare disciplina il ruolo di consigliere regionale in rappresentanza della comunità politica di Articolo 1, stabilendo così un filo diretto con il ministro della Salute Roberto Speranza.

A Pierluigi Lopalco abbiamo scelto di porre gli interrogativi suscitati dal progetto di ricostruzione della sanità territoriale post pandemia, che il Governo intende realizzare con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza di qui al 2026.

Il nuovo modello di sanità territoriale sembra essere frutto del ripensamento della pianificazione del primo decennio del 2000. Allora si diceva che la disseminazione territoriale di strutture sanitarie fosse finanziariamente insostenibile e non garantisse livelli di assistenza apprezzabili. Perché ora dovrebbe funzionare?

Questo modello “diffuso” deve necessariamente essere accompagnato da un parallelo ripensamento delle modalità di assistenza. L’assistenza degli acuti ad alta intensità è necessario sia concentrata in poche strutture ospedaliere, ma le fasi a bassa intensità devono essere gestite in strutture più agili e diffuse sul territorio.

Avendo a mente la tempistica del PNRR, considerando che la durata media di un appalto in Italia è di 633 giorni (dati Bankitalia) e aggiungendo le incognite relative ai costi delle materie prime e dell’inflazione, si riusciranno a costruire e rendere funzionali le Case di Comunità e gli Ospedali di Comunità entro la fine del 2026?

Molte di queste strutture sono già esistenti e necessitano di essere ristrutturate e rese più funzionali. La sfida maggiore sarà proprio riuscire a rispettare i tempi imposti dalla Comunità europea.

Il tema dei temi è: chi farà funzionare queste strutture? Manca personale sanitario e amministrativo: secondo alcuni osservatori, ci sono 20.000 unità in meno rispetto al 2011; secondo altri sono ben più gravi i buchi di organico nelle Regioni soggette ai piani di rientro finanziari. Come si supera questo ostacolo?

I buchi di organico sono reali e molto pesanti da gestire se pensiamo alla attuale organizzazione del lavoro. Impossibile pensare di attivare una così vasta rete di assistenza territoriale organizzando il lavoro come si è fatto fino ad ora.

A proposito del personale, è stata avanzata la proposta di superare il sistema del “tetto di spesa” rapportato al 2004 introducendo quello dello “standard di personale”. Quali sarebbero gli effetti? È un’ipotesi realizzabile?

Non so se realizzabile, ma è auspicabile. Serve riscrivere le regole di ingaggio del personale oggi in servizio e servirà comunque immettere nuova linfa, soprattutto dopo lo stress test provocato dalla pandemia.

Altra proposta è l’impiego di specializzandi e laureati in medicina nelle Case e negli Ospedali di Comunità. La ritiene praticabile?

Gli specializzandi devono associare la loro attività lavorativa a un percorso di formazione. Non devono essere considerati forza lavoro a buon prezzo. Uno specializzando in psichiatria, per fare un esempio, potrà svolgere parte del suo percorso in un Ospedale di Comunità, ma non può essere la soluzione al problema. Medici non specialisti possono essere impiegati, perché no? Potrebbe essere parte di un percorso formativo per la creazione di una generazione di medici del territorio.

La stabilizzazione del personale sanitario impiegato durante la pandemia avrà effetti positivi anche sui fabbisogni di Case e Ospedali di Comunità o servirà a colmare i buchi nelle piante organiche delle strutture esistenti? Parzialmente o totalmente?

Servirà senza dubbio; ma, ripeto, finché non sarà chiaro il funzionamento di queste strutture – mi riferisco all’organizzazione del lavoro e agli standard di personale – è impossibile fare previsioni.

Alcuni osservatori ipotizzano che la carenza di personale possa determinare l’affidamento in gestione delle nuove strutture a soggetti privati o del terzo settore, con minori garanzie contrattuali e livelli retributivi più bassi a danno del personale impiegato.

Il settore privato già oggi svolge un ruolo complementare in tanti settori, dalle RSA alle cliniche ad altissima specializzazione. Non vedo nulla di strano che possa supportare anche altri tipi di assistenza territoriale. Piuttosto, bisogna capire se quello sarà mai un settore appetibile a investitori privati.

L’attivazione di Case e Ospedali di Comunità modificherà la relazione tra sanità pubblica e privata, che chiede la rimozione del limite finanziario all’acquisto di prestazioni oggi fissato alla spesa consuntiva del 2011?

I tetti di spesa vanno sicuramente rivisti e rimodulati in maniera più flessibile rispetto a oggi. La nuova sanità territoriale, qualora funzionasse, potrebbe spostare significativamente l’asse della spesa dalle prestazioni per acuti alla prevenzione e riabilitazione. Difficile dire oggi quali dovrebbero essere i tetti di spesa di domani, se il modello ingranasse. Figuriamoci ancorarli alla spesa del 2011.

Non ci fosse stata la pandemia, il tema politico di una nuova sanità territoriale si sarebbe posto? E quello delle profonde differenze tra i Servizi sanitari regionali?

Questo tema è sul tavolo da tempo. Erano tutti consapevoli che la sanità così come oggi è organizzata sarebbe stata, a breve, insostenibile. La pandemia ha reso alcune decisioni più facili e finalmente realizzabili grazie all’afflusso di finanziamenti extra. Le differenze fra servizi sanitari regionali, purtroppo, sono ancora un problema serio. La prevista riforma dell’autonomia differenziata, se non ben calibrata, rischia di approfondire ancora di più queste differenze.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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