PNRR sanità, strutture senza personale: i privati non aspettano altro

I fondi europei necessari a riportare la medicina sul territorio possono essere spesi in strutture e macchinari, ma non per reperire chi li gestisce: il Governo lascia la patata bollente alle Regioni, che rischiano di ricorrere agli appalti.

Il PNRR farà bella di strutture e macchine la nuova medicina territoriale, però a farla ballare dovranno pensarci medici, infermieri, tecnici, operatori sociosanitari, amministrativi e tutti gli altri che al momento non si sa se ci saranno, in quanti saranno e da chi saranno contrattualizzati. Migliaia di donne e uomini, almeno 40.000, che dovranno essere assunti da Regioni già in forte deficit di personale e che, al momento, non hanno spazi normativi ed economici per innesti di tale portata e costo.

Il motivo è sempre quello: con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza si può e si deve finanziare la realizzazione di infrastrutture, materiali e digitali, non si può e non si deve sostenere la spesa per la gestione dei servizi.

La “Missione 6 – Salute” non fa eccezione: 15,63 miliardi di euro destinati alla Riforma dell’assistenza territoriale e l’Innovazione del Servizio sanitario nazionale che, nelle intenzioni del Governo, promettono di ricostruire la relazione di prossimità tra cittadini e servizi per la salute dopo la tragica esperienza della pandemia da COVID-19, da cui sono emersi tutti i limiti operativi di un ecosistema sanitario fondato sulla centralità ospedaliera e la concentrazione territoriale dell’offerta.

PNRR sanità, il Governo paga le strutture, le Regioni il personale

La prima componente della Missione 6 del PNRR è la costruzione di reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza territoriale. Vale a dire la “implementazione dei nuovi modelli organizzativi di prossimità e il potenziamento, in termini di qualità e sostenibilità, dell’assistenza territoriale” (cit. Ministero della Salute – Attuazione delle misure del PNRR).

Rientra in questa componente la costruzione di almeno 1.350 Case della Comunità, “rinnovate e tecnologicamente attrezzate”, e almeno 400 Ospedali di Comunità, “rinnovati, interconnessi e tecnologicamente attrezzati”. Per le une e gli altri si prevede di investire 3 miliardi di euro. Completano il quadro l’assistenza domiciliare (almeno 800.000 over 60 presi in carico), le Centrali Operative Territoriali (almeno 600) e la telemedicina (almeno 200.000 assistiti), per cui sono appostati complessivamente 4 miliardi di euro (qui il documento con il dettaglio degli investimenti territoriali). 7 miliardi di euro investiti con l’obiettivo di rendere i servizi per la salute più accessibili, sicuri, personalizzati, uniformi e integrati con l’assistenza di carattere sociale.

A partire dal 2027. Il tempo che trascorrerà dal 1 luglio al 31 dicembre 2026 sarà dedicato alla realizzazione materiale delle strutture e all’acquisto dei macchinari e delle apparecchiature necessari all’attivazione dei servizi. Fino a oggi il cronoprogramma concordato con l’Unione europea è stato rispettato, anche perché gli obiettivi da raggiungere entro il 30 giugno erano tutti “di carta”: decreti ministeriali, documenti di programmazione, accordi istituzionali, eccetera. Ora si entra nella fase attuativa e in quella della contrattazione di dettaglio tra Governo e Regioni per individuare modalità e risorse, umane e finanziarie, da dedicare alle magnifiche sorti e progressive dell’assistenza territoriale del terzo millennio.

Case della Comunità, servono 29.411 assunzioni. Il Governo ne prevede 2.363

Prendiamo le Case della Comunità. Ciascuna struttura, che è punto di accesso al servizio sanitario e dove sono erogate le cure primarie, necessita di: 8 infermieri di famiglia; 10 medici di medicina generale; 5 amministrativi. Su base nazionale, 29.411 unità. Il Governo, però, prevede di assumere solo 2.363 infermiere e infermieri, con un costo annuo calcolato di 94,5 milioni di euro. E gli altri? “Nessun onere aggiuntivo per il Servizio sanitario nazionale a causa del risultato della riorganizzazione del personale delle cure primarie”, si legge nei documenti inviati alla Commissione UE.

Scenario assai simile si prospetta per gli Ospedali della Comunità, dove si realizzerà il ricovero breve di pazienti che necessitano di interventi a bassa/media intensità clinica: dovranno garantirsi 4.5 ore di assistenza medica al giorno per 6 giorni e la presenza di 9 infermieri e 6 operatori sociosanitari. Fatte le somme si arriva a: 534.924 ore di assistenza, 3.429 infermieri e 2.286 OSS. La provvista finanziaria necessaria annualmente ammonta a 239,268 milioni di euro. Cifra che, a parere di molti osservatori indipendenti, è sottostimata o difficilmente ottenibile dai risparmi conseguenti alla riorganizzazione del servizio.

Il contesto operativo è tutt’altro che sovradimensionato: negli ultimi dieci anni, l’organico del SSN si è ridotto del 6% a causa del blocco del turn over e dei tetti imposti alla spesa per il personale; in media vanno in pensione 20.000 tra medici e infermieri ogni anno, e solo una parte viene sostituita con nuove assunzioni. Vero è che è stato appena varato il piano di stabilizzazione del personale impiegato durante l’emergenza COVID-19, e non solo; ma sono medici, infermieri, operatori con i quali le Regioni non riusciranno a coprire i fabbisogni ordinari. Figuriamoci quelli derivanti da strutture e servizi della nuova sanità territoriale, i cui costi di gestione annuale sono stimati dal Governo 1,906 miliardi di euro.

Cifra in cui non figurano i maggiori oneri che deriveranno dall’impiego degli indispensabili medici generalisti nelle Case della Comunità. Le Regioni dovranno contrattare nuove convenzioni se vorranno convincerli a ridurre il tempo dedicato ai pazienti in ambulatorio e a intensificare il servizio da prestare nelle strutture comunitarie. E il conto si preannuncia salato se c’è chi si spinge a suggerire di assumerli invece di convenzionarli.

La riorganizzazione del personale medico passa per l’università, altrimenti sarà “una spinta alla privatizzazione della sanità territoriale”

E se l’obiettivo “su carta” della riorganizzazione del personale non diventasse reale?

“Il PNRR avrà impresso una spinta poderosa alla privatizzazione della sanità territoriale”, afferma senza mezzi termini Antonio Mazzarella, segretario regionale della CGIL Medici di Puglia, perché nessun governatore potrebbe tollerare di aver costruito o riqualificato strutture inutilizzate, e si apriranno spazi a “società e cooperative che le faranno funzionare sottopagando il personale”. Rischio enunciato anche dal segretario generale della Funzione Pubblica della CISL Puglia, Aldo Gemma: “Motivo per cui, in un recente incontro con l’assessore regionale alla Sanità, ho proposto l’estensione al settore privato del contratto collettivo applicato nel pubblico”.

In Puglia, i sindacati confederali hanno denunciato la carenza di 17.000 lavoratori del comparto sanità. “Nel confronto tra Puglia ed Emilia-Romagna – afferma Gemma – ai pugliesi mancano almeno 7.000 infermieri, e le stabilizzazioni non saranno sufficienti a colmare questo buco”. ASL e policlinici di Bari, Foggia e Lecce potranno contare sull’inserimento di 5.906 unità in pianta organica. 2.400 saranno gli infermieri e 300 i medici assunti a tempo pieno e indeterminato. Ma sempre “tutte persone che già lavorano”, sottolinea Mazzarella.

La stabilizzazione, inoltre, sarà scaglionata nel prossimo triennio per ragioni finanziarie, a riprova delle difficoltà di spesa della Regione che “non saranno risolte con le riorganizzazioni; non è mai accaduto in passato, perché dovrebbe avvenire per il futuro?”, s’interroga il segretario della CISL. “Davvero c’è qualcuno capace di far uscire servizi e personale dagli ospedali” e ricollocarli in Case e Ospedali di Comunità?

La carenza di personale medico, drammatica quella nei pronto soccorso pugliesi, ha fatto ipotizzare l’estensione della stabilizzazione a medici e specializzandi che hanno lavorato e lavorano, con contratto a tempo determinato, nei reparti COVID-19. Se anche si trovasse la norma a cui appellarsi per farlo, “guadagnerebbero la metà di quanto percepito durante la pandemia”, spiega Gemma, “quindi è probabile che il loro reclutamento non sia così efficace”. Più a monte, servirebbe “la riorganizzazione delle discipline universitarie – aggiunge Mazzarella – perché sforniamo specialisti in modo indifferenziato e senza alcun aggancio ai fabbisogni reali, e alla relazione tra università e ospedali, per evitare inutili e costosi doppioni”.

Burocrazia e costi, per il PNRR della sanità il 2026 è dietro l’angolo

Se la nuova sanità territoriale sarà sostenibile dal punto di vista finanziario e operativo, e in che modo lo sarà, lo verificheremo con mano a partire dal primo gennaio 2027. Prima di allora dovremo fare i conti con la costruzione di infrastrutture e reti. Oggi sono almeno due i motivi che preoccupano: i costi di costruzione e la burocrazia.

I primi sono schizzati a causa dell’aumento dei costi energetici e della ridotta disponibilità di materie prime, problemi aggravati e non causati dalla guerra tra Russia e Ucraina, cosa che ha obbligato le Regioni ad aggiornare i prezziari delle opere pubbliche.

La burocrazia è una costante incognita: la durata media degli appalti in Italia è di 663 giorni; in Puglia, ad esempio, è di 877 giorni. Quasi due anni e mezzo.

A pensarci bene, il 31 dicembre 2026 non è mica così lontano.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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