Povero lavoro. O lavoro povero?

Non sempre lavorare dà il pane. Un numero considerevole di lavoratori, pur guadagnando, rimane al di sotto della soglia di povertà. Ne parliamo con il segretario della Camera del Lavoro di Milano Massimo Bonini.

Altro che regno dei cieli. Il capolavoro di Elio Petri, La classe operaia va in paradiso(1971), alla luce di quanto è accaduto in mezzo secolo di storia italiana, sembra un reperto archeologico di un’altra epoca, storia di altri pianeti. Quella classe operaia non esiste più. E negli anni successivi il paradiso si è trasformato in un girone dell’inferno abitato da disoccupati, da salariati pagati pochi euro (vedi i rider o i lavoratori in agricoltura), dai lavoratori a tempo determinato, quando va bene, o peggio da lavoratori stagionali che lavorano a prestazione occasionale. Insomma una frantumazione sociale, così bene analizzata dagli studi di Aldo Bonomi, di cui solo oggi vediamo le conseguenze.

Di pari passo alla “scomparsa” dell’operaio-massa dell’epoca del taylorismo è venuta meno la centralità della grande fabbrica, centro di gravità permanente della struttura produttiva italiana fino agli anni Ottanta e centro di contrattazione del salario erga omnes, e delle condizioni di lavoro. Il salario non è più la variabile indipendente, ma diventa una rarità. Come ci spiegherà il segretario della Camera del Lavoro di Milano, Massimo Bonini: “A Milano sono più i contratti a termine che quelli a tempo indeterminato. Questi ultimi hanno subito un crollo negli ultimi anni”.

Il lavoro fisso tende a scomparire, e con esso il salario per una vita.

Massimo Bonini, il segretario della Camera del Lavoro di Milano,

Il fenomeno del lavoro povero

Quell’equilibrio che è stato alla base della struttura produttiva italiana del Novecento fino agli anni Ottanta sì è rotto quando, soprattutto al Nord, è iniziato uno dei più massicci processi di deindustrializzazione europei, che ha portato alla scomparsa di giganti produttivi nei settori chiave dell’economia. Osserva Marco Revelli, professore di economia e studioso dei processi produttivi in Italia: “Vi è un dato che spesso viene sottovalutato a proposito del declino del capitalismo del Nord: i grandi processi di deindustrializzazione, che colpiscono soprattutto la Lombardia, creano una cesura insanabile con il territorio. Il tessuto di piccole e medie imprese, che dava linfa vitale alla grande impresa ma anche al territorio, o scompare o diventa più friabile, e comunque senza un punto di riferimento. Così avviene per la FIAT e così avviene in Lombardia, dove la deindustrializzazione è massiccia e la terziarizzazione non è riuscita a compensare gli effetti del declino industriale”.

È proprio da quest’ultima considerazione del professor Revelli che bisognerebbe ragionare per capire dove ha origine la frammentazione sociale e salariale che caratterizza il mercato del lavoro della nostra epoca. Se a questo si aggiunge la crisi industriale e finanziaria del 2008 e la crisi causata dalla pandemia, si può avere un quadro piuttosto drammatico del mercato del lavoro in Italia. Un mercato talmente frammentato che mette in crisi la stessa capacità dei sindacati di contrattare i livelli salariali, già bassi rispetto alla media europea.

La novità degli ultimi anni è che gli argini si sono rotti e la povertà invade anche l’area del lavoro dipendente. Non si tratta più e soltanto della proletarizzazione dei ceti medi, ma dell’impoverimento del proletariato. I dati Eurostat del 2019 ci dicono che la piaga del lavoro povero riguarda l’11% dei lavoratori. In sostanza oltre un lavoratore su dieci, pur percependo un reddito, è in una condizione di povertà, ovvero vive in una famiglia con un reddito netto inferiore al 60% rispetto alla media europea.

“Dietro Milano c’è anche la povertà. Salario minimo per combattere il lavoro povero, ma con criterio”

La percentuale dei lavoratori poveri è cresciuta in modo consistente dal 2012, quando era all’8,7%, fino al 2017, quando era al 12,2%, per poi scendere nel 2019 all’11,8%, ma il dato probabilmente con la pandemia è peggiorato. La Commissione ministeriale costituita da Orlando sottolinea che bisogna incidere sulle ragioni per le quali si ha un reddito basso, che non sono solo legate alla bassa retribuzione oraria, ma anche alla durata del lavoro (quante ore si lavora durante la settimana, quante settimane nell’anno) spesso precario, al part time involontario e alle scarse competenze sulle quali agire con la formazione. Ma bisogna guardare anche alla composizione famigliare (e in particolare a quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo) e al ruolo redistributivo dello Stato.

“Una strategia di lotta alla povertà lavorativa – afferma la Commissione – richiede quindi una molteplicità di strumenti per sostenere i redditi individuali, aumentare il numero di percettori di reddito, e assicurare un sistema redistributivo ben mirato”. Per garantire minimi salariali adeguati, secondo gli esperti, bisogna estendere i contratti collettivi principali a tutti i lavoratori oppure introdurre un salario minimo per legge.

“Il fenomeno del lavoro povero – spiega Massimo Bonini – esiste da tempo ed è una tendenza in crescita dovuta a una terziarizzazione spinta che ha come ultimo fenomeno quello dei rider. Come sosteneva lei, i processi di deindustrializzazione hanno molto influito su questo fenomeno e oggi ci troviamo ad affrontare la povertà anche per coloro che un reddito ce l’hanno. È bene che si sappia quindi che dietro la vetrina scintillante di Milano c’è anche la povertà. Un esempio? Uno studio del PIM del 2019 sosteneva che per pagare un affitto, che in genere copre un terzo del reddito, sarebbero necessari 29.000 euro l’anno. A Milano in media siamo sotto i 26.000 euro.”

Dunque il salario minimo sarebbe una delle strade possibili per tamponare la povertà, assieme al Reddito di Cittadinanza. “Sul Reddito di Cittadinanza noi siamo molto critici per come è stato costruito. Ma anche sul salario minimo bisognerebbe fare un po’ di chiarezza. Per la CGIL il salario minimo è rappresentato dai minimi contrattuali. Certo, ci sono sacche del mercato del lavoro, come quella dei rider o dei lavoratori in agricoltura, dove il salario minimo sarebbe importante, visti i livelli salariali di questi settori. Ma questo non deve essere una scorciatoia da parte delle imprese per evitare la contrattualizzazione del lavoro. Il caso dei rider è emblematico, quello è un lavoro subordinato a tutti gli effetti e quindi va regolarizzato”.

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