Scuola in carcere: quando il docente ti guarda negli occhi

Come si trasforma l’insegnamento quando gli studenti sono dei detenuti? L’esperienza di un docente nel carcere di Vigevano.

Quando si riceve una chiamata di lavoro da parte di una casa di reclusione, per i primi dieci minuti è difficile organizzare i pensieri in modo razionale: si viene travolti da un considerevole numero di dubbi.

Era un giorno di fine ottobre dell’anno 2018 quello in cui i cancelli del carcere di Vigevano, tranquillo comune in provincia di Pavia, si sono aperti per la prima volta davanti ai miei passi. Avrebbero continuato a farlo fino al 2020, ultimo anno della mia esperienza in carcere.

Chi sarebbero stati i miei alunni? Avrei avuto difficoltà a tenere viva la loro concentrazione? Avrei saputo farmi rispettare da persone tendenzialmente poco inclini a ricevere istruzioni? Mi ponevo queste domande guardando perplesso le inferriate della casa circondariale, in attesa di iniziare la mia prima lezione.

Il mestiere di insegnante oltre le sbarre

Dovessi definire il carcere direi che si tratta di un “non–luogo”. Immaginate un piccolo paese dove centinaia di persone vivono e portano avanti innumerevoli attività. Il tempo al suo interno è sospeso. Più che dall’orologio, lo scorrere dei giorni viene scandito dai processi, dalle udienze, dalle uscite e dai trasferimenti. Si vive in attesa di quei momenti e si cerca di ingannare le giornate come meglio si può.

Gli “utenti”, così vengono chiamati i detenuti nell’ottica di quel processo di rieducazione che oggi caratterizza il carcere, possono scegliere di svolgere diversi lavori all’interno della struttura: possono fare sport oppure possono lavorare in cucina, occuparsi del piccolo orto presente all’interno, fare pulizie nei corridoi, e possono infine iscriversi a scuola.

Svolgere un’attività permette agli utenti di distrarsi, di accumulare buona condotta e spesso anche di guadagnare qualche euro extra. Le attività sono divise fra i vari utenti seguendo un criterio meritocratico: quelle meglio retribuite, come ad esempio il lavoro in cucina, sono destinate ai detenuti che mantengono un comportamento corretto da più tempo all’interno della struttura.

Per ciò che riguarda l’istruzione carceraria, bisogna dire che è molto variegata: si può studiare secondo livelli che vanno dalle scuole medie fino all’università. Noi insegnanti ci troviamo al centro di tutte le esigenze che può avere uno studente di queste realtà: siamo chiamati a essere un po’ docenti e un po’ psicologi. Dobbiamo inoltre essere molto bravi a catturare il rispetto della classe che abbiamo davanti, dimostrandoci corretti e leali. Posso dire che è grazie al carcere che ho imparato quanto possa fare la differenza parlare con una persona guardandola negli occhi.

In mezzo a queste esigenze emergono poi anche le necessità dei nostri alunni, che spesso devono assentarsi per motivi giudiziari o vengono trasferiti in altre carceri. Il trasferimento è uno di quei momenti che ricordo con particolare tristezza: avviene all’improvviso, da un giorno all’altro un alunno letteralmente scompare lasciando il banco vuoto. Chi insegna con passione conosce bene il modo in cui ci si affeziona ai propri alunni, dunque potrà ben percepire lo stato d’animo di quei momenti.

Come funziona la scuola in prigione

La scuola, fra le varie attività che si svolgono in carcere, è in assoluto la meno ambita tra i detenuti. Dura infatti molti mesi e fa guadagnare decisamente poco: quindi ci si iscrive solo chi è realmente interessato.

Non pensiate però che per questo motivo il clima in classe sia austero. La verità è che le classi di una casa di reclusione, specialmente maschile, sono di solito ambienti divertenti: l’uditorio è composto da persone adulte che hanno sia voglia di imparare qualcosa che di farsi due risate.

Ho sempre giocato molto, da professore, su questo aspetto. Ridere, distrarsi evitando di pensare al tempo: non deve forse essere anche questo l’obbiettivo della scuola? In un ambiente dove le giornate scorrono lente non è forse produttivo riuscire a creare un gruppo classe in grado di scherzare? La scuola delle nozioni, tanto odiata anche dai ragazzi che normalmente frequentano le aule cittadine, non può esistere all’interno di una casa di reclusione: il carcere diventa dunque, per noi insegnanti, una zona franca dove sperimentare nuove forme di didattica meno nozionistiche ma più umane.

Quando parlo di didattica più umana mi riferisco a un metodo di studio dove al primo posto c’è un sereno sviluppo degli argomenti, messo in atto senza forzare le tempistiche della classe e le sue esigenze, senza necessariamente attenersi a un programma da finire correndo in modo forsennato. Questo non significa che le ore vengano trascorse lavorando poco o lavorando male: anzi, proprio in quella piccola e affollata aula ho trovato alcuni degli studenti più attenti e interessati della mia – ancora breve – carriera. Proprio questi studenti riempivano di domande, segno di un interesse reale per le lezioni e per gli argomenti trattati.

Le classi in carcere, luoghi di confronto

La classe di una casa di reclusione diventa dunque un luogo di confronto dove anche noi insegnanti impariamo tantissimo.

Si ha davanti un gruppo di circa venti persone estremamente eterogeneo sia dal punto di vista anagrafico che dal punto di vista della provenienza. Riunire in uno stesso posto una varietà umana così ampia è già di per sé fonte di grande arricchimento.

Vorrei raccontare un episodio esemplificativo dell’apprendimento di cui parlo. Ogni lezione durava due ore e, dopo la prima, c’era una pausa di quindici minuti. Durante questo intervallo, tutti gli alunni uscivano a fumare una sigaretta. Uno solo, puntualmente, restava in aula. Era un uomo sui quaranta, algerino ma in Italia da quasi vent’anni. Fumava anche lui ma gli piaceva chiacchierare e quindi restava in aula con me.

Ricordo queste conversazioni come un momento davvero edificante: mi raccontava del suo Paese, visto con gli occhi malinconici di chi ha dovuto lasciarlo per mancanza di lavoro; mi parlava della sua religione cercando dettagli in comune con la mia. L’aspetto religioso era per lui fondamentale, ma ne parlava con una genuinità incredibile mostrandomi un modo di vivere la fede semplice e spontaneo, molto lontano dagli stereotipi che, volenti o nolenti, noi europei abbiamo nei confronti degli arabi. Si trattava di conversazioni in cui entrambi imparavamo qualcosa, uno scambio culturale in piena regola.

Il timore e le speranze dei detenuti verso il mondo di fuori

In questo articolo ho provato a lasciar emergere in sintesi cosa significa, per un ragazzo normale come me, dover lavorare in un luogo come una casa di reclusione. Un luogo sicuramente conflittuale in cui però un professore può fare tantissimo: la cultura e l’umanità che portiamo lì dentro possono cambiare non solo la giornata dei detenuti, ma anche il resto della loro vita, influenzandone il carattere e quindi le scelte future.

Il carcere è il luogo dove forse, più che in ogni altro, la scuola può fare la differenza.

Per concludere questa breve analisi, vorrei provare a descrivere ciò che avviene dall’altra parte della cattedra: in che modo un carcerato percepisce il mondo del lavoro?

Anzitutto bisogna sottolineare che chi vive all’interno di un carcere sviluppa una sensibilità estrema nei confronti di tutto ciò che sta fuori. Più volte i miei studenti mi hanno chiesto in che modo i detenuti venissero percepiti, se chi stava fuori si interrogasse su chi stava dentro. Di base sono consapevoli di essere spesso visti come un qualcosa di negativo e da evitare. Non ho mai avuto cuore di entrare troppo nel merito di questa loro percezione, di questo loro sentirsi invisibili e ignorati.

Bisogna dire che la maggior parte dei detenuti ha già una qualche professione fra le mani. Chi entra in carcere magari ha lavorato come muratore, tanti sono quelli che si occupavano di meccanica, molti hanno talento nel disegno e vorrebbero lavorare facendo tatuaggi. Spesso dunque gli utenti di un carcere sanno già quali sono le loro possibilità e hanno delle ambizioni ben precise. La speranza è anche quella di venire indirizzati dal carcere stesso: spesso i detenuti vengono accompagnati in percorsi rieducativi grazie ai quali, uscendo, hanno già dei contatti lavorativi.

Infine ci sono i detenuti che entrano senza avere nessuna particolare predisposizione. Sono quelli più in difficoltà perché si tratta di persone fortemente disilluse, senza una bussola. Ho visto però proprio molti di questi trovare la capacità di reinventarsi grazie ad attività culturali parallele alla scuola, in particolare l’attività teatrale. Questa attività è molto apprezzata in carcere, molti detenuti si mettono volentieri in gioco recitando o cantando e alcuni raggiungono anche discreti livelli. Questo permette loro di migliorare la propria percezione di sé e anche di individuare nuovi orizzonti professionali. Non potrò mai dimenticare, durante uno spettacolo organizzato per la fine dell’anno scolastico, un detenuto già adulto dichiarare subito dopo la sua esibizione: “Grazie a tutti, ora so cosa voglio fare da grande”.

Photo by Damir Spanic on Unsplash

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