La denuncia di LEDHA su venti strutture residenziali lombarde: “Persone con disabilità segregate nei servizi che dovrebbero impedire che siano isolate”. L’avvocatessa Laura Abet: “Alcune direzioni sanitarie hanno agito per paura, violato l’articolo 2 della Costituzione”.
Teatro, ultimo atto. Il settore è vicino al tracollo
Oltre 300.000 lavoratori a rischio, e solo un quarto ha acceduto ai bonus: lo spettacolo boccheggia tra leggi non applicate e contratti evanescenti. E nell’attesa del legislatore c’è chi pensa al teatro in streaming.
130.201 è il numero di spettacoli teatrali svolti in Italia nel 2019, per un volume di affari pari a cinquecento milioni di euro (Annuario dello spettacolo SIAE 2019). Tre milioni e mezzo le proiezioni cinematografiche.
Bastano questi due numeri, e la volontà di sciogliere il binomio “arte e artista” per prendere in considerazione quello di “lavoro e lavoratori”, per capire la portata dello tsunami che il COVID-19 ha scaraventato verso questo mondo. Un universo, composto da oltre 300.000 professionisti che da quasi un anno versano in condizioni difficilissime: meno del 25% di loro è riuscito ad accedere alle agevolazioni e ai bonus erogati dal governo.
Giovani a cinquant’anni: i paradossi del settore spettacolo
La pandemia, nel suo inarrestabile processo di dilatazione delle differenze, ha fatto collassare un sistema trascurato da anni. I dati, in questo caso, tornano in aiuto. Sempre con riferimento al 2019, il 56% dei lavoratori impiegati nel settore dello spettacolo ha dichiarato un reddito inferiore a 10.000 euro; soltanto il 12% guadagna e lavora con continuità e il ricambio generazionale è pari al 4%.
Un settore pachidermico e ingessato: in fin dei conti a cinquant’anni si è considerati ancora dei giovani registi (dal 1946 al 2020 ne abbiamo avuto appena tre generazioni), e i quarantenni di oggi sono relegati nelle rassegne di teatro contemporaneo, una “sezione parallela” rispetto alle stagioni principali.
C’è tanta, tantissima offerta di cose da vedere e da produrre, e una domanda mal coltivata. L’Italia non è un Paese così ricco di teatri come si potrebbe erroneamente credere, ma il fermento che si nasconde – e cresce – oltre il fascio dei riflettori è innegabile.
Complice la complessità della situazione (gli attori non sono lavoratori precari o intermittenti, sono piuttosto lavoratori discontinui con una natura del lavoro atipica), la noncuranza e la trascuratezza con la quale la politica ha affrontato il tema ha generato un terreno colmo di lacune e vuoti normativi (solo a titolo esemplificativo, mancano i decreti attuativi al cosiddetto codice dello spettacolo, legge 175 del 2017) che si acuiscono in un contesto nel quale le retribuzioni sono spesso frutto di contrattazioni e compromessi.
Attori, compensi e dolori contrattuali: perché recitare non paga
Se da una parte è semplicisticamente vero che qualunque impresa vorrebbe un costo del lavoro più basso e una produttività più alta, e i lavoratori il contrario, è altrettanto evidente che, nel contesto artistico, i rapporti di forza tra il datore e il lavoratore sono impari perché il secondo è facilmente intercambiabile. “Come te posso prenderne tanti altri a minor prezzo”, è la spada di Damocle che grava sulle spalle degli attori, che si sentono poco tutelati ed esposti a una grandissima fragilità contrattuale.
C’è ovviamente un contratto collettivo nazionale che disciplina il settore, e che scade a marzo 2021, ma in questi anni ha dimostrato tutta la sua difficoltà di applicazione. Ad esempio, molte compagnie non possono permettersi di pagare agli attori ventuno giorni di prove per 72,5 € lordi al giorno. Questo perché difficilmente sono in grado di mettere in piedi una coproduzione con più enti per raggiungere un budget adeguato.
Poi c’è la questione del diritto di immagine, che in questi mesi, con la consacrazione dello streaming, è esplosa. Il CCNL prevede ovviamente una maggiorazione del compenso per la cessione dello sfruttamento ma – proprio in virtù dello sbilanciamento della capacità contrattuale – spesso viene esatta a titolo gratuito.
“Altro che semplificazione: per rilanciare il settore servono sistemi complessi”
Una situazione, quella delineata finora, che sfocia inevitabilmente in un mare di lavoro nero. O, per meglio dire, sommerso.
“Si dice che c’è bisogno di semplificazione e snellimento”, ha commentato Simone Faloppa, attore e portavoce di “Attrici e Attori e uniti”, uno dei collettivi nati a inizio 2020 per aiutare i colleghi vittima di interruzioni contrattuali, “ma la nostra è una professione complessa che quindi necessita di sistemi complessi. È terminata la fase dell’identificazione e dell’auto narrazione. Ora è il momento in cui bisogna prendere delle scelte politiche nette”.
“L’obiettivo a medio termine resta la sistematizzazione del sostegno al reddito, mentre quello a lungo termine è una riformulazione completa che coinvolga più ministeri. Sarebbe il caso di ragionare su come rilanciare il settore nel biennio 2021/22, perché sembra che ci aspetti un anno ponte e poi il triennio 2022/2024. È un atteggiamento cautelativo che in realtà cerca di rimandare il problema: mettiamo una serie di toppe e andiamo avanti, invece di affrontare le cose sistematicamente e nel profondo.”
Alcune proposte di legge sono al vaglio delle Camere in queste settimane, ma in molti concordano sul fatto che ognuna delle soluzioni a ora prospettate debba rappresentare un punto di partenza per un ripensamento complessivo.
Si è anche parlato di un registro degli attori, che ad oggi rientrano tra le professioni non organizzate, e quindi non sottoponibili ad albo. “Una professione organizzata – ha commentato Faloppa – è sottoponibile ad albo perché deve rispondere a un articolo preciso del Codice penale: l’esercizio abusivo della professione. Per contarci, perché per quello si è parlato di un registro, c’è già l’ex-Enpals, il nostro ente previdenziale. E avere un ente ‘dedicato’ è un privilegio. Il DNA della nostra identità professionale è lì. Non ha senso contarsi attraverso un registro, perché potrebbe diventare un recinto corporativista, e se facciamo corporazione ci comportiamo come quello che non dovremmo diventare”.
Teatro in streaming, si può fare?
Una teoria forse un po’ romantica, seppur supportata da numerosi indizi, sostiene che proprio mentre a Londra dilagava la peste e i teatri venivano chiusi come misura cautelativa, Shakespeare scrisse tanti dei suoi capolavori, dal Re Lear al Macbeth.
Tra il 1603 e il 1613, il Globe restò chiuso per 78 mesi. L’Italia dei teatri è chiusa da 298 giorni, e salvo un clamoroso colpo di scena non ricorderemo questo periodo per la nascita di grandi capolavori. Il digitale, ormai luogo comune, potrebbe rappresentare una rivoluzione; ma Il teatro in streaming è vero teatro?
“Assolutamente sì, ma solo se nasce per essere tale. Se facessimo del video teatro di grande qualità nessuno di noi attori direbbe di no. Il problema è che per ora facciamo sciatte riprese bidimensionali, il risultato è di una noia mortale. Se invece sfruttiamo questa occasione che ci dà la Storia per capire come entrare, in un modo interessante e con i linguaggi del digitale, nei meccanismi dello spettacolo dal vivo, potremmo ottenere dei traguardi fantastici, come rompere l’isolazionismo ed esportare davvero il Made in Italy.”
Photo credits: www.bookabook.it
Leggi anche
Yvan Sagnet, NoCap: “In tavola due prodotti su tre provengono da aziende che sfruttano. Serve una legge per rendere conveniente l’economia etica”.
L’inchiesta inedita di SenzaFiltro: il contratto di portierato lede ogni dignità. Proprio nell’ateneo in cima alla classifica italiana.