Viaggio fra gli ordini professionali: i numeri, le storie e il parere degli esperti

L’Italia è ricca di ordini e collegi professionali. In tutto sono una trentina e disciplinano le professioni note come “regolamentate”, cioè quelle il cui esercizio è consentito dalla legge solo dopo l’iscrizione in ordini e collegi, appunto.  Chi esercita una professione “regolamentata” senza l’obbligatoria abilitazione e la conseguente iscrizione all’albo rischia di essere punibile per esercizio […]

L’Italia è ricca di ordini e collegi professionali. In tutto sono una trentina e disciplinano le professioni note come “regolamentate”, cioè quelle il cui esercizio è consentito dalla legge solo dopo l’iscrizione in ordini e collegi, appunto.  Chi esercita una professione “regolamentata” senza l’obbligatoria abilitazione e la conseguente iscrizione all’albo rischia di essere punibile per esercizio abusivo della professione (articolo 348 del codice penale).

Gli ordini e i collegi professionali sono enti sottoposti alla vigilanza dei vari Ministeri e hanno il compito di vigilare sulla professionalità degli iscritti. Hanno un albo specifico, un codice deontologico, l’obbligo legislativo della formazione continua, precisi requisiti per entrare e una quota annuale di iscrizione. Le varie professioni sono suddivise per categorie e regolamentate dagli ordini territoriali competenti a loro volta organizzati nel rispettivo Ordine Nazionale.

Va anche detto che oltre agli ordini ci sono circa duecento associazioni professionali su base volontaria che si sono organizzate al fine di valorizzare la professionalità degli iscritti. Non è questa la sede per parlarne, ma è indice di come in Italia esista una forte identità delle professioni, fin dalle corporazioni medievali.

Certo, i tempi sono decisamente cambiati. Se tra Ottocento e Novecento gli ordini potevano rappresentare la forza dello Stato, oggi ribadiscono la loro mission di tutela delle professioni. Continuano però a essere forse troppo rigidi in un mercato e in una società in continua evoluzione. Il dibattito tra chi vede gli ordini come non necessari, anzi in qualche modo dannosi all’economia italiana, e chi invece li valorizza come enti atti a garantire un minimo di regolamentazione nelle professioni, è più che mai acceso.

Oltre due milioni e 200 mila di iscritti negli albi: la classifica dei più popolati

Gli iscritti nei vari albi territoriali sono oltre due milioni e 200 mila (dato che non si tiene conto di alcuni ordini per i quali non è stato possibile rilevare i dati). Una cifra da capogiro. Le professioni spaziano dalle più classiche a quelle più particolari, per esempio spedizionieri doganali o guide alpine. Va detto che il numero degli iscritti nei rispettivi Albi può essere un’indicazione del mercato del lavoro: più alto è il numero dei professionisti, più diventa difficile trovare un’occupazione.

Se volessimo stilare una classifica degli ordini più ‘popolati’ – con riferimento ai dati che abbiamo raccolto – al primo posto troveremmo l’Ordine che riunisce gli infermieri professionali, gli assistenti sanitari e gli infermieri pediatrici: 441.795 iscritti di cui ben 425.979 sono infermieri professionali. Al secondo posto compaiono i medici chirurgi e gli odontoiatri con 424.034 iscritti e al terzo posto gli ingegneri, con 239.389 iscritti. A seguire gli avvocati (oltre 234.000), gli architetti (154.179), i commercialisti (117.916), i giornalisti (112.397) e i geometri (107.011).

Bisogna precisare che non tutti i professionisti sono iscritti al rispettivo ordine: alcuni, per esempio gli ingegneri, anche se hanno superato l’Esame di Stato non risultano iscritti, limitandosi dunque a collaborazioni piuttosto che al vero e proprio esercizio della professione. Va detto poi che in alcuni casi, per esempio per quanto riguarda i giornalisti, molti esercitano la professione pur non essendo iscritti all’Albo né dei professionisti né dei pubblicisti. I requisiti sono più o meno standard (salvo qualche caso particolare): godimento dei diritti, laurea, esame di Stato. Le quote di iscrizione annuale variano in genere a seconda di regione o provincia e in molti casi ci sono agevolazioni a seconda di età o numero di anni di iscrizione. Un’ultima precisazione va fatta per i chimici: la Camera ha dato voto favorevole sul disegno di legge Lorenzin. Se passa al senato, la professione del chimico sarà riconosciuta come sanitaria e porterebbe alla nascita della Federazione degli Ordini dei Chimici e dei Fisici.

Guandalini: “Abolire gli ordini”

La linea europea nei confronti delle professioni è chiara: si va verso il riconoscimento dell’attività professionale come attività d’impresa, la liberalizzazione delle professioni e la concorrenza nei mercati. In questo contesto da una parte ci sono gli ordini – sempre più immersi nelle incertezze di una società che cambia – e dall’altra i “consumatori”, ai quali è riconosciuto il diritto di scegliere in modo libero e fra un’offerta il più possibile variegata.

Il dibattito sulla necessità o meno degli ordini nei tempi attuali è più che mai acceso.  Favorevole all’abolizione degli ordini è Maurizio Guandalini, fra i più qualificati analisti indipendenti del sistema finanziario. Docente, organizzatore di eventi internazionali per la Fondazione ISTUD, giornalista e opinionista per quotidiani e TV: dall’Unità a il Riformista, dal Maurizio Costanzo Show di Canale 5 a Omnibus di la7. Ha fondato insieme a Victor Uckmar la società che ha dato vita al quotidiano La Voce di Indro Montanelli; è editorialista di Metro e scrive per l’edizione italiana dell’Huffington Post. Ha scritto o curato da saggista oltre venti volumi.

È netta la posizione di Guandalini in risposta alle nostre domande: “È da una vita che lo propongo. Ovunque, sui giornali e in tv. Abolizione degli ordini. Concorrenza e liberalizzazione. Deve fare il mercato. Ma per far questo occorre anche cambiare la scuola, troppo imperniata su un sistema universitario che arranca e una scuola media superiore di luci e ombre. Si osservi la vicenda dell’alternanza scuola e lavoro. Vanno fatti i correttivi che servono. Però anche gli studenti devono mettersi nella testa che la prima domanda da fare non è quanto prendo. Serve gavetta, esperienza, lavoro duro, tutto mirato all’obiettivo primario, cioè quello di imparare un mestiere. Purtroppo questo è un concetto che la scuola non considera proprio. Punta sul pezzo di carta facile”.

Secondo Guandalini, ha un peso non indifferente anche l’autonomia nelle scelte dei vari ordini: “Sono delle casseforti di denaro e quindi delle lobby di potere. Distanti dai giovani, dalle professioni che vorrebbero intraprendere e dalle loro esigenze. Sono concentrati a conservare. Hai voglia i diritti, il precariato, una pensione decente. Sarebbe opportuna una generale e convinta azione di trasparenza, non solo sulla carta, e per nulla confortante”.

Una difficoltà palese riguarda la difficoltà attuale per i giovani a inserirsi nelle professioni. Vale in tutti gli ambiti e vale anche per le professioni regolamentate. Per accedere agli albi – e di conseguenza all’abilitazione nelle professioni – sono necessarie diverse tappe, fra Esame di Stato, praticantati spesso semigratuiti e l’assenza di certezze che, una volta iscritti all’albo, si riuscirà davvero a esercitare la professione con una retribuzione degna di questo nome. E la politica?

“La politica gioca di sponda, insieme agli ordini professionali. E in sottrazione”. Guandalini prende come esempio il caso dei giornalisti. “Possibile che per scrivere sui giornali è necessario essere iscritto all’Albo professionale? Tra l’altro, caso unico quello italiano. Nel mondo c’è tutt’altro. Eppure sono tutti degli step che frenano l’accesso ai più capaci. Gli ordini, che sono quasi esclusivamente associazioni di natura sindacale, dicono che senza albo i giovani giornalisti sarebbero sfruttati dagli editori. Ma come mai in questa fase con l’Ordine in pianta stabile, bello e robusto, ci sono bizzeffe di casi, montanti giorno dopo giorno, di giovani precari sottopagati che lavorano nei giornali? Suvvia. Amiamo farci del male. Creiamo sovrastrutture utili allo scopo di controllare, di tenere tra le mani le leve del controllo di chi entra e di chi esce”.

La direzione da seguire dopo i vari tentativi di riforma? “Ora, il solo passaggio da fare è quello di togliere il valore legale del titolo di studio. Queste sono riforme liberali che nessun partito osa fare. Perché? Quali paure? Caste, baronati, lobby sono lì in agguato, paurosi di perdere la pagnotta? Togliere il valore legale del titolo di studio aprirebbe una diga. Dall’Università alla pubblica amministrazione. Ma in un Paese bisognoso di riforme come l’Italia si è persa, ormai, la cognizione del tempo”.

Gianotti: “Garantiscono una certa professionalizzazione”

I punti di forza, pur con delle criticità da superare, li vede Massimiliano Gianotti, presidente del dipartimento Lombardia dell’Associazione Nazionale Sociologi, dottore in Sociologia, in Psicologia, sociologo specializzato in Sociologia della Comunicazione, giornalista professionista e scrittore. “Noi come sociologi non abbiamo un ordine, però abbiamo un’iscrizione al Ministero della Giustizia come associazione di professionisti in modo da garantire una certa deontologia professionale. Stiamo procedendo anche a una certificazione UNI, in collaborazione con i docenti universitari”.

“Oggi gli Ordini si sono adeguati ai tempi, sono diventati più tutelativi e più severi in caso di abusivismo. Forse a volte manca un vero controllo da parte dell’ordine. Ci sono tante professioni abusive che non vengono scoperte dagli ordini, ma a seguito delle denunce alle forze dell’ordine da parte degli stessi pazienti o clienti, o dai controlli incrociati della Guardia di Finanza. Noi non siamo né pro né contro. Non avendo un Ordine, siamo molto più snelli nelle scelte e quindi siamo più avvantaggiati da questo punto di vista; dall’altra parte però le società o le associazioni di professionisti come potrebbero essere gli ordini a livello europeo devono essere in grado di mettere ordine; quindi devono garantire una deontologia, una trasparenza e un aggiornamento professionale. Allora può esserci quella zona in cui le associazioni di professionisti sono meno ingessate rispetto agli ordini ma garantiscono la professionalità: altrimenti poi diventerebbe una giungla. Sotto questo punto di vista l’ordine riesce a garantire una certa professionalizzazione, e non è poco.”

La storia annosa di compensi e tariffe

Secondo le direttive europee, i tentativi di riforma degli ordini in materia di libera concorrenza e competitività sono stati tanti, da Bersani a Tremonti fino alle riforme sulle quali si sta discutendo in questi giorni: da una parte il disegno di legge Lorenzin e dall’altra tutta la discussione in merito all’equo compenso. Se il disegno di legge Lorenzin, per il quale manca il passaggio al Senato, è volto per lo più a un riordino in materia sanitaria, la discussione che sta ruotando attorno all’equo compenso interessa un po’ tutti gli ordini.

Compensi e tariffe hanno una storia annosa. Con il decreto legge del 4 luglio 2006, numero 233 (convertito con modificazioni nella legge 248 del 4 agosto 2006), in linea con il principio comunitario di libera concorrenza e con il diritto del consumatore di scegliere liberamente sul mercato, è stata abrogata l’obbligatorietà di tariffe minime per i professionisti. Con il decreto legge del 24/01/ 2012 (convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27) le tariffe delle professioni sono definitivamente abrogate.  In sostanza professionista e cliente concordano liberamente il compenso della prestazione, fermo restando che il professionista deve rendere conto al cliente del grado di complessità dell’incarico e di tutti gli oneri che dovrebbe sostenere.

Libera concorrenza o penalizzazione per i professionisti? Il dibattito è quanto mai attuale, anche perché a fine settembre al Senato è stato presentato il nuovo DDL “Riforma della disciplina in materia di equo compenso dei professionisti” su iniziativa dei senatori Serenella Fucksia e Gaetano Quagliariello (cofirmatario) del Gruppo Federazione della Libertà (Id-PL, PLI), che in buona sostanza prevede l’indicazione del grado di complessità della prestazione, le voci di costo complete per ogni singola prestazione e la nullità di ogni patto che preveda compensi sproporzionati rispetto all’opera prestata.

Non solo. Sta facendo discutere la recente sentenza del Consiglio di Stato pubblicata il 3 ottobre 2017 che legittima gli enti, partendo dal caso specifico del bando del Comune di Catanzaro, a predisporre bandi con la sola previsione del rimborso spese. In pratica, le motivazioni alla base della sentenza sono il giovamento all’esigenza di contenimento della spesa pubblica e la mancanza di divieti in merito alle prestazioni a titolo gratuito.

Equo compenso: prevista una manifestazione

La discussione è quanto mai accesa tra chi vede l’equo compenso come una sorta di reintroduzione dei tariffari minimi e gli ordini, che invece annunciano battaglia. Infatti il 30 novembre è prevista a Roma una manifestazione di CUP (Comitato Unitario delle Professioni) e RPT (Rete Professioni Tecniche).

Angelo Deiana, Presidente di Confassociazioni ha recentemente dichiarato in una nota pubblica la contrarietà alle tariffe minime: “Il lavoro va pagato, sia che lo compri il pubblico sia il privato ed è un principio irrinunciabile per la nostra Confederazione; ma il professionista non è un dipendente e, pertanto, deve esser libero di poter scegliere sempre quando realizzarlo, anche gratuitamente, come investimento professionale nell’ambito della ricerca ad esempio, ovvero svolgerlo a titolo oneroso. Il rischio, reintroducendo le tariffe minime sotto la forma ‘velata’ di equo compenso, è che la PA compri da domani al prezzo più basso e questo con un riflesso conseguente sul settore privato che difficilmente sarà evitabile. Occorre alzare l’asticella, far valere le attività di ricerca e le competenze e portare il mondo professionale alla tutela del giusto compenso, capace di riconoscere al professionista il suo livello di professionalità non nel minimo ma in un processo giusto e non iniquo di valutazione tra le parti”.

Non ci stanno gli ordini, che al contrario sono pronti a scendere in piazza. Il disegno di legge all’esame “non prevede affatto tariffe minime obbligatorie ma, molto più semplicemente, una presunzione giuridica per cui i compensi inferiori a quelli fissati dai parametri ministeriali sono appunto iniqui”, fanno sapere in una nota stampa dal CUP presieduto da Marina Calderone. “La determinazione e la regolamentazione del principio dell’equo compenso sono, infatti, presupposto fondamentale per garantire una concorrenza che abbia come riferimento primario la qualità della prestazione a garanzia di un’attività professionale, in tutti i settori, adeguata e proporzionata alle sempre più complesse problematiche che la riguardano”, sottolinea invece la RPT coordinata da Armando Zambrano.

La parola agli ordini

La questione dei compensi e della concorrenza – per alcune professioni – da parte di chi non è iscritto all’ordine è molto dibattuta. Quando poi si va a toccare alcune professioni in ambito sanitario, tutto assume un peso ancora maggiore.

Netta la presa di posizione del presidente della Commissione Albo Odontoiatri, Giuseppe Renzo: “Il tariffario minimo rappresentava una tutela in primo luogo in termini di prestazione della salute del cittadino”. Secondo Renzo, l’abolizione delle tariffe minime e l’ingresso dei capitali nella professione avrebbe conseguenze gravi: “Si può veicolare un messaggio pubblicitario che riguarda la prestazione iniziale dell’igiene orale in forma gratuita oppure – addirittura ancora più grave – gli accertamenti radiografici. Questo, che viene interpretato come favorevole nei confronti del cittadino, è tutto a danno della salute del cittadino stesso”.

“L’ingresso dei capitali nelle prestazioni o nell’esercizio della professione odontoiatrica ha prodotto come primo risultato una corsa ad accaparrarsi la clientela, come se si trattasse di clienti commerciali. Ma stiamo parlando di salute: non è un prodotto, è un principio che va salvaguardato. Il fenomeno si sta sempre di più incrementando proprio perché l’ingresso dei capitali è finalizzato al risultato ultimo di avere un ritorno economico. Il professionista singolo, in quanto iscritto all’albo, è sotto il controllo dell’ordine provinciale e della federazione; invece le società di capitali non hanno l’obbligo di iscrizione all’albo. Quindi si possono muovere autonomamente all’interno della dinamica del commercio e della concorrenza. Si tratta di una concorrenza sleale: chiunque può aprire una struttura mettendoci dentro dei capitali e iniziare a fare concorrenza al ribasso.”

“Dovrebbe sembrare strano che, se si accede a una struttura complessa, dopo la visita il professionista passa il paziente al commerciale; se poi lo stesso professionista dopo una settimana non si presenta più e se ne presenta un altro, e poi un altro ancora, senza avere quel rapporto fiduciario tra medico e paziente, è evidente che c’è qualcosa che non va. Le società di capitali non hanno il codice etico e noi non abbiamo alcuna potestà di intervento: non possiamo neanche fare verifiche”. Insomma, il punto è chiaro: “La salute nella concorrenza e nel mercato non c’entra assolutamente nulla”. E aggiunge: “Non siamo una corporazione, siamo a tutela della salute del cittadino”.

A dire la sua è anche Nausicaa Orlandipresidente del Consiglio Nazionale dei Chimici: “Il CNC crede fortemente nella validità del provvedimento sull’equo compenso; è necessario, infatti, dare il giusto riconoscimento alla prestazione libero professionale al fine di garantire un’adeguata remunerazione a tutela dei consumatori, e allo stesso tempo garantire la dignità del lavoro dei chimici.  Penso che annullare i provvedimenti che, in nome del mercato e della logica della concorrenza, condizionano fortemente le prestazioni fornite ai clienti, permetta ai professionisti livelli minimi inderogabili della remunerazione. Allo stesso modo, la sola logica della concorrenza non garantisce adeguate tutele della qualità della prestazione al consumatore.  Per noi questo intervento normativo è un importante passo avanti perché tempera l’eccesso di competitività tra professionisti basata solo sul prezzo, promuove il riconoscimento del valore delle attività professionali ed è a garanzia della collettività”.

Gli Agrotecnici: un esempio di ordine in salute

L’aumento della concorrenza a basso costo, la crisi economica e la conseguente riduzione dei fatturati, in un mercato dove per molte professioni l’offerta supera la domanda, sono le principali criticità di ordini e collegi. In tutto questo però, vale la pena di citare un ordine decisamente in salute, che pare essersi scrollato di dosso la formalità e l’istituzionalità che ingessano molti ordini a favore di un’evoluzione al passo con i tempi: si tratta degli Agrotecnici.

Dati alla mano, il fatturato medio degli iscritti è in crescita. Ne parliamo con il presidente, Roberto Orlandi: “Il successo della professione degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati si basa sostanzialmente su tre elementi: il basso costo di iscrizione all’albo, che è al massimo di 120 euro (quota nazionale e provinciale comprese), i bassi costi e gli alti rendimenti della Cassa di previdenza, e le molte iniziative che l’albo mette in atto per favorire l’avvio all’attività professionale”.

La vicenda della Cassa di previdenza degli Agrotecnici è stata sotto i riflettori. Anche il rinomato Sole 24 Ore ne ha parlato in un articolo a firma di Vitaliano D’Angerio. “A partire dal 2011 – commenta Orlandi – la Cassa previdenziale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati rivaluta i contributi previdenziali degli iscritti in misura superiore dal 50% al 300% (secondo gli anni) rispetto alla rivalutazione applicata dalle altre Casse previdenziali che applicano gli indici di legge”. In pratica, parte degli utili sono utilizzati per la rivalutazione dei contributi degli iscritti.

L’altra iniziativa riguarda la creazione di una sorta di incubatore professionale per i neo iscritti. “Sono state infatti costituite strutture collettive (associazioni, fondazioni, società e cooperative di professionisti) tramite le quali avviare i nuovi professionisti al lavoro, in un ambiente protetto e organizzato che funziona come incubatore di lavoro professionale – continua Orlandi. Infine con le principali cooperative italiane (Lega Coop e Confcooperative) sono state stipulate specifiche convenzioni per favorire la costituzione di nuove cooperative di professionisti, con priorità a quelle formate da giovani e da donne. Questa attenzione alle problematiche del lavoro risulta essere molto apprezzata dai giovani laureati, che spesso preferiscono l’Albo degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati ad altri albi (rispetto a quelli in cui è possibile iscriversi mediante la stessa classe di laurea, N.d.R.)”.

I risultati sono decisamente positivi: dal 2012 al 2016 è stato registrato l’incremento del saldo netto del numero delle Partite IVA (cioè la differenza tra le nuove aperte e quelle cessate), arrivando a crescere nel 2016 di +8,88% rispetto all’anno precedente. In parallelo è cresciuto il fatturato medio, “salito dai 13.866 euro del 2012 ai 15.692 euro del 2015, cioè del 13,16% nel quadriennio e del 3,30% all’anno; un risultato significativo in particolare in relazione alla generalizzata crisi economica e al calo dei redditi di altre professioni”.

La testimonianza di Ludovica, veterinaria negli Stati Uniti d’America

In America il problema principale sembra essere il riconoscimento dell’abilitazione professionale conseguita in Italia, il più delle volte non valida negli Stati Uniti. Senza addentrarsi troppo nel sistema professionale americano, complesso e variegato anche a causa dell’autonomia dei singoli Stati, è da sottolineare però come sia perlopiù basato sulle organizzazioni e le associazioni professionali volontarie, senza che l’iscrizione sia vincolante per esercitare la professione.

Ci sono però molti altri parametri da rispettare, che pongono non poche difficoltà agli italiani che vogliono esercitare negli Stati Uniti una professione regolamentata. Il nodo da sciogliere è capire come debba muoversi un professionista italiano che voglia lavorare all’estero. Non è semplice: ci sono esami da superare e costi da sostenere. Ne parliamo con Ludovica Chiavaccini, veterinaria che ora lavora a Philadelphia e che ci ha raccontato la sua esperienza, simile a quella di altri colleghi italiani che lavorano nel suo settore.

“Io sono medico veterinario, laureata all’Università di Pisa nel 2003. Dopo aver lavorato in Belgio e Francia, sono venuta negli States originariamente per un Master alla Colorado State University, seguito da internship in Canada, specializzazione in Mississippi, postdoc in California (University of California, Davis) e finalmente professorship a Philadelphia. Qui la nostra laurea in medicina veterinaria non permette di accedere all’Esame di Stato e consequenzialmente di praticare, fatta eccezione per le strutture universitarie. Per vedere la propria laurea equiparata, un medico veterinario italiano deve prima superare una serie di esami. Oggi ci sono principalmente due enti che danno accesso a questa equiparazione: ECFVG (Educational Commission for Foreign Veterinary Graduates) gestito da AVMA o PAVE (Program for the Assessment of Veterinary Education Equivalent), gestito da AAVSB. Io ho più esperienza con il primo processo, di cui descriverò i vari step:

  • Step 1: provare che si è effettivamente laureati, quindi provvedere a inviare il libretto e i transcripts dell’università italiana dove ci si è laureati, tradotti in inglese (1000$).
  • Step 2: prova di conoscenza della lingua inglese tramite esame TOEFL o IELT (circa 200$).
  • Step 3: passare un esame teorico, il Basic and Clinical Sciences Examination (BCSE). L’esame consiste in 225 domande a risposta multipla. Si può svolgere in un Prometric Center. Il costo si aggira sui 90$ con l’aggiunta del costo dei libri per studiare (300$ circa).
  • Step 4: esame pratico. Consiste in un esame che si svolge in 3 giorni (6am to 6pm) in uno dei centri assegnati (al momento solo Mississippi State University o Las Vegas). Il candidato dovrà superare una serie di prove pratiche, esami clinici e procedure sia sugli animali da compagnia sia su quelli da reddito e cavalli. L’ultimo giorno dovrà effettuare un’anestesia e una sterilizzazione su una cagna. Per noi italiani, che abbiamo una formazione più teorica che pratica, questa è la parte più difficile. Costo 7000$, più lo spostamento aereo alla sede di esaminazione e costo dell’albergo per 4-5 notti.

A questo punto la laurea italiana viene equiparata a quella americana. Il candidato dovrà quindi passare il NAVLE (Esame di Stato Federale), con un costo di circa 1000$ oltre a quello dei libri e programmi di preparazione (altri 300-400$); il candidato dovrà anche superare l’Esame dello Stato degli US dove intende praticare. La difficoltà e il costo di questo variano molto da Stato a Stato”.

Insomma, oltre alla serie di esami che rendono praticamente nulli gli sforzi in Italia per iscriversi all’albo ed esercitare la professione, c’è anche un costo non indifferente, con le relative difficoltà: “È molto improbabile che una clinica privata sostenga le spese e le trafile legali per poter fare un visto di lavoro a uno straniero (quando un americano di pari formazione le costa zero), soprattutto con la situazione politica di adesso”.

“Ci sono delle vie di fuga da questo sistema. La prima: il lavoro illegale, molto diffuso anche qui! I veterinari italiani vengono assunti come tecnici di laboratorio o infermieri e come tali pagati. In questo modo vengono sfruttate le loro conoscenze (superiori a un infermiere) ma costano alla clinica la metà o meno rispetto a un laureato americano. Ovviamente non ci sono benefit o assicurazione sanitaria. Se succede qualcosa nessuno se ne prende le responsabilità. L’altra possibilità è il lavoro in una clinica universitaria. Le università (non tutte) accettano veterinari stranieri per fare corsi di formazione, internship o residency (l’equivalente della scuola di specializzazione italiana). Ovviamente per un italiano è molto più difficile entrare rispetto a un americano, ma questo garantisce un salario equo, assicurazione sanitaria e un visto. Al giorno d’oggi è forse la maniera più comune per poter lavorare negli US”.

Un’associazione per l’integrazione: la PI-Philly

Philadelphia, metropoli della East Coast nota per il suo spirito di accoglienza e integrazione culturale, è meta di molti giovani italiani che cercano all’estero un’opportunità lavorativa. Qui esiste una bella associazione nata nel 2012, la PI-Philly (Professionisti Italiani a Philadelphia), che facilita i contatti fra i professionisti che lavorano nell’area di Philadelphia, ma anche quelli con le aziende, le università o gli enti che si trovano in territorio italiano.

La parola d’ordine è integrazione culturale. Infatti, l’associazione organizza vari eventi culturali di un certo rilievo che permettono agli italiani di sentirsi a casa e agli americani di conoscere la cultura italiana. La PI-Philly salvaguarda anche le tradizioni italiane grazie all’organizzazione di feste legate a ricorrenze tipiche dell’Italia che permettono l’aggregazione fra le persone, in linea con lo spirito di collaborazione e integrazione che caratterizza l’associazione.

La storia di un ingegnere civile in America

La difficoltà di ottenere il riconoscimento del titolo di studio è comune agli italiani che si trasferiscono negli Stati Uniti: l’albo italiano non è riconosciuto, e di conseguenza bisogna ripartire dall’inizio. A raccontare la sua esperienza è anche Roberto Caiaro, un ingegnere civile che dopo dieci anni di libera professione in Italia, a fine 2012 si è trasferito negli Stati Uniti. Ora Caiaro ha un suo business di consulenza, la Caiaro Consulting LLC, ma durante il percorso ha incontrato non poche difficoltà.

“Purtroppo l’iscrizione all’albo professionale in Italia non è riconosciuta negli Usa; quindi, mi sono trovato a ripartire da zero. Negli Stati Uniti bisogna che lo Stato nel quale vuoi lavorare faccia la comparazione della tua laurea con una laurea in una università americana. Nonostante avessi quasi 80 crediti in più rispetto a una laurea in Ingegneria Civile Americana, mi hanno chiesto di fare 16 crediti di General Education – quindi esami di Storia, Geografia, Filosofia etc. – prima di accedere all’esame di Stato.”

“Le università italiane devono entrare in contatto con le università estere e fare in modo che i piani di studio siano compatibili. La linea americana è molto più semplice e lineare della nostra, ma questo significa che quando sei in una condizione come la mia, nel senso di una procedura diversa dal solito, è facile che vadano nel pallone, e i tempi si allungano.”

Le difficoltà che un professionista italiano deve affrontare sono tante, come specifica Caiaro: “Le più grosse difficoltà sono state in primo luogo la lingua, secondariamente l’equiparazione della mia laurea, e poi capire il sistema in generale. Si tratta di un altro modo di pensare e di impostare tutto”. È proprio in questo contesto che gli ordini italiani dovrebbero intervenire: “Mi sembra che gli ordini professionali in Italia siano diventati esclusivamente enti di formazione per distribuire crediti formativi a pagamento; sfido qualsiasi ordine italiano a fornire un’esatta procedura affinché un suo iscritto possa esercitare all’estero”.

“A mio avviso gli ordini dovrebbero essere più presenti nel mondo del lavoro, facendo rispettare la rotazione dei tecnici presso gli enti pubblici e – insieme alle università – prendendo contatto con gli stessi organismi all’estero, siglando accordi e protocolli in modo che gli iscritti siano facilitati a lavorare oltre confine. Ai neo colleghi consiglio intanto di imparare bene la lingua e poi di scegliere di studiare in università che abbiano contatti, collaborazioni e protocolli con università estere. Per il resto ritengo che un professionista italiano abbia molto da insegnare a un professionista estero.”

La differenza la fanno i professionisti

Fondamentalmente più che parlare di “ordini sì” o “ordini no”, bisogna sempre ricordare che la differenza la fanno i professionisti, al di là di ordini e albi. Come sottolinea Massimiliano Gianotti: “Per essere un professionista esperto e serio non basta avere un nome scritto in un elenco: devono esserci sempre l’esperienza, il lavoro sul campo, la passione. Queste sono le vere onorificenze che valorizzano un professionista o meno, non tanto l’iscrizione all’albo piuttosto che a un’associazione di professionisti”.

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