
Tod’s e Cucinelli sono solo gli ultimi due esempi di un sistema industriale che fa dei valori la cifra della sua comunicazione.
Basterebbe rispettarli, coerentemente.
Intervistiamo Giuseppe Dejan Lucido, un giovane che si occupa di una delle discipline meno frequentate e più richieste degli ultimi anni, specie dal settore del gioco d’azzardo. Ma la statistica è alla base delle tecnologie e delle ricerche più importanti in diversi settori, compresa l’intelligenza artificiale

Lavorare come statistico, a 31 anni, da Isola delle Femmine, due passi dalla Capaci che mise il punto a Giovanni Falcone. Proprio perché alla sua terra non vuole rinunciare, e perché vuole mandare il messaggio che in Sicilia ci si può vivere contribuendo col lavoro e con la presenza fisica, Giuseppe Dejan Lucido non cede a nessuna delle tentazioni che per inerzia si affibbiano ai giovani: soldi facili, fuga all’estero, scarso attaccamento ai valori, superficialità, disaffezione alle relazioni.
Nerd è nerd, ci mancherebbe, me lo conferma appena gli chiedo quante ore passa al computer. Alle spalle della scrivania è pieno di fumetti, action figure, cartoni animati e videogiochi: non li vedo ma ci credo.
«Sono poche le facoltà di Statistica in Italia e i corsi poco numerosi. Rispetto alle aule affollate e dispersive di altre università, noi eravamo dieci, massimo venti. Non so perché i giovani non la considerino come strada, forse sembra una materia di nicchia e chi vuole avere a che fare con la matematica va solo a matematica o a ingegneria, è un peccato.»
Laureato all’Università di Palermo, triennale e magistrale in Statistica e Scienze statistiche dal 2012 al 2018, ha cominciato subito a lavorare. All’inizio restando nella stessa università per fare ricerca, stava al laboratorio di ecologia, ci è rimasto un anno e mezzo: «Un’esperienza molto stimolante perché era pura ricerca scientifica, tutta sperimentazione, lavoravo insieme a biologi marini. Tra l’altro io abito in un paese di mare, sono sempre stato attaccato al mare, vivo quasi in riva al mare ».
Nel frattempo collaborava con alcuni medici in un ospedale di Palermo, sempre con un contratto di collaborazione, sempre progetti di ricerca, studiavano gli effetti collaterali delle chemioterapie su pazienti cardiologici.
«Da un lato supportavo i biologi nella ricerca, ed ero anch’io un ricercatore perché alla fine abbiamo pubblicato articoli scientifici di cui sono autore e coautore; dall’altro supportavo i medici. Poi sono tornato al dipartimento di Statistica dove mi ero laureato, diventando collega dei miei professori perché ho vinto una borsa di studio: sono passato da un dipartimento all’altro, da quello di Scienze della Terra e del Mare a quello di Statistica, ritrovandomi a lavorare su tecniche statistiche di machine learning per un progetto agronomico di tracciabilità dei prodotti lattiero-caseari in tutta la Sicilia, a fianco del professor Marcello Chiodi, presidente della Società Italiana di Statistica».
Più Giuseppe mi racconta i salti professionali con una laurea di Statistica in tasca, più rafforzo il dubbio per cui ho cercato la storia di un giovane che avesse scelto quel tipo di studi: girano poche storie, poche informazioni su certi mestieri.
«Proprio così, gli sbocchi professionali sono tanti. Infatti poi mi sono spostato in ambiente startup. Diciamo che sono sempre stato appassionato di tecnologia, fin da piccolo, e, quando unisci la statistica più classica alla tecnologia dei giorni nostri, in pratica diventa intelligenza artificiale».
Gli chiedo di tradurmi l’ultimo passaggio, che Giuseppe dà per scontato, l’Italia no: “statistica più classica e tecnologia dei giorni nostri”.
«Diciamo che la materia in quanto tale, cioè la statistica, è antichissima, affonda le origini nelle civiltà dei Sumeri e dei Romani, ma la nascita come disciplina moderna è relativamente giovane, a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Vuol dire che, quando si studia statistica o scienze statistiche all’università, si fanno cose, tra virgolette, molto classiche. Tante dimostrazioni scritte a mano, formule infinite, insomma ci siamo intesi. Oggi la materia si è evoluta grazie alla enorme potenza di calcolo che abbiamo raggiunto, e siamo sconfinati in ciò che viene chiamato machine learning, o deep learning, o intelligenza artificiale in senso lato. Perché l’intelligenza artificiale, compresi i grossi modelli di linguaggio utilizzati un po’ da tutti come ChatGPT e compagnia varia, non sono altro che statistica applicata. Meglio: statistica e probabilità applicata, e calcolo matriciale, supportati da tanta potenza dei computer. La tecnologia alla base dell’intelligenza artificiale c’era già negli anni Ottanta e Novanta, anche prima, ma non c’era la potenza di calcolo. Solo adesso si può utilizzare su grande scala. Alla fine ho fatto il salto nei settori più moderni e contemporanei rispetto a chi sceglie di fare un lavoro che lo mandi all’ISTAT, per fare l’esempio più evidente. Il mio è un mestiere che ha bisogno di competenze informatiche avanzate, quindi di programmazione informatica, e per ora mi sono spostato a essere un data scientist. Tutti gli statistici sono anche data scientist, cioè più spinti sul lato tecnologia e IA.»
Non vale il contrario: i data scientist non sono anche statistici. Il terreno su cui scivola la disinformazione e lo scarso orientamento professionale non mette radici sulla segnalazione dei mestieri che davvero drenano più offerta dalle aziende. E molti giovani perdono occasioni.
«Infatti al mestiere di data scientist si può arrivare anche con un background in fisica, in matematica, in ingegneria informatica. È un mestiere che raggruppa diverse figure professionali, ma chi proviene dal mio percorso ha un forte background statistico, quindi comprende meglio alcuni aspetti; chi proviene dall’ingegneria informatica e diventa un data scientist ha più chiara la parte di infrastruttura e programmazione informatica, di software. Trovandosi in un team è pur vero che ci si contamina a vicenda, però di me posso dire che mi sento avvantaggiato perché alla stregua di un ingegnere software, avendo anche lavorato in startup di tecnologia e quindi implementato soluzioni software che utilizzano la statistica e l’analisi di grandi quantità di dati. La metodologia classica della statistica è un’ottima base per fare analisi dei dati business driven o business intelligence».
Parlandomi appassionato, aggiunge che tutti gli algoritmi di machine learning, compresa la IA, sono un insieme di formule sparate con la forza bruta dei PC. Il problema è che sono come delle calcolatrici: qualunque calcolo gli chiedi di fare, loro te lo restituiscono in risultato, ma non è detto che quel risultato abbia senso nel contesto in cui stai lavorando.
«La statistica insegna ai giovani il contesto del dato, il recinto dentro cui analizzare, il senso da assegnare alle cose, e lo fa trasferendo la pratica con i concetti di causalità, di rapporto causa-effetto, di come le variabili interagiscono fra loro nello studio dei fenomeni. Sia il calcolo delle probabilità, sia la statistica sono materie che possono sembrare controintuitive. Un dato che sembra lampante potrebbe non esserlo quando viene interpretato. Non mi reputo migliore di un data scientist, ma conosco il mio valore.»
È davanti alla mia domanda sulle ricadute sociali del suo lavoro che scopro una deriva preoccupante.
«Le figure come la mia possono impattare molto sulla società se lavoriamo nei settori giusti, e ammalarla se lo facciamo nei settori sbagliati. Non me la sento di giudicare nessuno. Segnalo solo che un campo da cui veniamo cercati di continuo ha a che fare con società che promuovono il gioco d’azzardo, ci cercano per creare nuovi giochi che creino dipendenza, perché spingono a giocare sempre di più illudendoti sulle opportunità di vincita quando tutti i giochi sono matematicamente a perdere. Per noi è uno degli impieghi più richiesti al mondo, in questo momento. Così come non lavorerei mai con industrie di armi o di tabacco. Invito invece a farlo in campi vitali come la medicina, l’epidemiologia, la biologia.»
Al momento Giuseppe lavora da quattro anni per una startup in ambito discografico, ma è anche socio di una startup di formazione sulle discipline della IA. Parliamo di salari, intuendo che la sua storia non abbia lamentele da portare a galla.
«Il lavoro è un mercato che vive di domanda e offerta, quindi se tutto il mondo si sta spingendo sempre di più verso l’analisi dei dati da IA, ma i laureati sono pochi perché la disciplina è nuova, le aziende devono spendere di più per prendersi i giovani. Gli stipendi sono molto buoni sia come statistico classico che come data scientist. Posso dire senza problemi di che cifre si parla, non ho il tabù dei soldi. Indicativamente un neolaureato statistico, o comunque un ingegnere software in ambito analisi dei dati e machine learning, può iniziare con una RAL di 25-27.000 euro – parlo di assunzione in azienda. Oppure, come ho fatto io, si possono prendere più incarichi in vari centri di ricerca e aumentare il reddito. Dopo qualche anno di esperienza, anche solo due o tre, si può scalare facilmente arrivando a 35, 38, 39.000, e salire ancora di più. In Italia gli stipendi sono più bassi rispetto all’Europa: appena metti un piede fuori arrivi pure a 70, 80, 90.000; se vai in Svizzera anche a 120.000. Io resto nella mia Sicilia per tenere il valore dento la Regione, se no il Sud rimarrà sempre indietro, se i giovani scappano.»
Ci salutiamo parlando di politica, gli lascio il mio dubbio sul perché l’Italia non si sforzi di avere progetti e visioni lunghe nonostante si disponga ormai di dati di ogni genere da sfruttare anche in proiezione.
«I politici fanno i politici. Anche quando i dati remano contro, loro dicono sempre il contrario perché devono tirare acqua al proprio mulino. Oltre ai dati hanno anche gli statistici a disposizione; ce li hanno, ma non li usano bene, non li vogliono usare bene, o li usano per i loro scopi. E visto che scrivi in un giornale ti volevo consigliare un libro cult, degli anni Cinquanta, che si chiama Mentire con le statistiche, di Darrell Huff: vecchissimo e sempre attuale, lo dovrebbero leggere tutti.»
Giuseppe di nomi ne ha due; Dejan – l’accento è sulla e – è il secondo, che il padre gli ha messo per via di un calciatore serbo in voga qualche tempo fa. C’è chi lo chiama Giuseppe, chi Dejan, a seconda del contesto e se ci sono o meno troppi Giuseppe da chiamare in famiglia. Dopo l’intervista trovo un suo messaggio nella casella di posta, altri libri suggeriti: Armi di distruzione matematica. Come i big data aumentano la disuguaglianza e minacciano la democrazia, di Cathy O’Neil. Mi consiglia anche tutta la collana di Nassim Taleb. Chiude così la mail: «Anche se non prettamente statistico, non può mancare uno dei migliori libri in circolazione che è Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman».
Se ha rapito anche voi per la fermezza, il senso etico, la preparazione solida, un consiglio ve lo do io, soprattutto se siete giovani o se avete figli a cui indicare una via laterale: Giuseppe cura un podcast che è una perla di orientamento al mondo del lavoro per giovani statistici, Data Driven People. E non sentite la solita storia sui lavori che mancano.
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Photo credits: euroinnova.edu.es

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