Come si blocca un porto a Israele?

La geografia del dissenso passa per Genova, Livorno e Taranto, tre dei porti che hanno sbarrato la strada ai traffici di armi e di carburante diretti in Israele, con manifestazioni organizzate da USB e altre sigle sindacali. Ma è davvero possibile “bloccare tutto” attraverso il lavoro per opporsi alla politica tra Stati?

Porti bloccati: i portuali di Genova in rivolta contro le navi dirette in Israele

Quando la politica tace, parla il lavoro. È successo nei porti italiani, dove negli ultimi mesi i portuali e i lavoratori della logistica hanno trasformato i moli in barricate, opponendo l’arma dello sciopero al transito delle navi che trasportano armi e carburante diretti verso Israele.

Genova, Livorno, Taranto: tre porti, tre battaglie diverse e un’unica voce. E mentre in Italia i portuali chiudevano le banchine, un’altra forma di resistenza aveva preso il largo: la Global Sumud Flotilla, convoglio internazionale di navi cariche di aiuti per Gaza. Una spedizione umanitaria che, nei giorni successivi, è stata intercettata dalla flotta israeliana, risultando nell’arresto e nel rimpatrio di centinaia di attivisti, dopo una prigionia i cui dettagli più scabrosi continuano a emergere al momento della pubblicazione di questo articolo.

È un conflitto parallelo fatto di blocchi contrapposti, uno militare, l’altro fattuale; uno fatto coi fucili spianati, l’altro con le braccia incrociate. Letta in questo senso, la cronistoria degli ultimi mesi non è una sequenza di episodi isolati, ma una geografia del dissenso in Italia, espressa attraverso il lavoro, che dimostra una volta di più l’intransigenza del Paese reale verso qualsiasi forma di complicità con il massacro condotto da Israele.

Genova, i camalli non muovono un chiodo per Israele

Tutto è cominciato a Genova, cuore pulsante dei traffici marittimi dell’alto Mediterraneo. I camalli, lavoratori del porto che già nei mesi scorsi avevano bloccato un carico di armi destinato a Tel Aviv, hanno risposto allo sciopero immediato indetto dall’Unione Sindacale di Base all’arrivo di una nave della compagnia Zim, il colosso israeliano dei trasporti: la portacontainer New Zealand, arrivata nel capoluogo ligure la sera del 27 settembre. La mobilitazione è stata istantanea, dalle 21:30 per le dodici ore successive. Il suo slogan: non un chiodo per Israele.

Per capire la portata del gesto occorre spiegare che cosa significa attraccare una nave portacontainer. Non è un’operazione automatica. Quando un mercantile entra in porto deve essere guidato dai piloti marittimi, ormeggiato con l’assistenza dei rimorchiatori, poi collegato alle strutture a terra. Da quel momento inizia il lavoro vero e proprio: le squadre di portuali azionano le gru per sbarcare o imbarcare i container, li smistano sui piazzali, organizzando i convogli di camion e treni che li portano dentro o fuori dal porto. Ogni passaggio dipende da decine di persone che operano in modo coordinato.

A Genova quella catena si è interrotta. I portuali hanno deciso di non agganciare i container della Zim alle gru, di non movimentare le merci; in sostanza, di lasciare la nave ferma. È bastato un “no” collettivo per trasformare un gigante d’acciaio lungo centinaia di metri in un guscio sospeso tra il mare e la banchina. Lo sciopero ha reso evidente che senza il lavoro umano non esiste commercio, non esiste logistica, non esiste guerra che possa funzionare.

Fermarsi ha fatto intendere che il porto non è neutrale, ma un crocevia di scelte. Genova ha segnato il solco, mostrando che i portuali possono fare quello che i governi non osano: un embargo dal basso.

Livorno caccia la nave israeliana

L’onda partita da Genova è arrivata presto a Livorno. Quando un’altra portacontainer della Zim – la Virginia – ha fatto scalo nel maggior porto toscano, il 30 settembre, i lavoratori erano già organizzati. Anche qui la nave avrebbe dovuto seguire lo stesso, articolato rituale di carico e scarico che regge ogni scalo internazionale: i portuali riferiscono di aver individuato “alcuni contenitori da 10 piedi, contenenti materiale sospetto (militare) da imbarcare proprio sulla Zim”.

Ma a Livorno le gru sono rimaste immobili, rifiutando di imbragare i container e di mobilitare la merce, a causa di uno sciopero predisposto da giorni da USB e CGIL proprio in attesa della nave israeliana. Il blocco ha avuto un valore doppio; da un lato il danno economico immediato per Zim, costretta a riprogrammare e deviare i suoi traffici, e dall’altro il segnale politico: “Se non lo fa il Governo, lo facciamo noi”, hanno commentato gli scioperanti.

Per la loro causa Livorno è stata una vittoria piena: la Zim Virginia non ha scaricato né caricato, per poi lasciare la città. Un porto fermo può incrinare la logistica globale di una compagnia colossale e – forse – incidere sull’andamento di un intero conflitto.

Taranto blocca nave e raffineria: “ENI alimenta il conflitto”

A Taranto la mobilitazione ha preso una forma diversa. La città pugliese non ha provato a bloccare una nave portacontainer, ma l’invisibile linfa vitale delle guerre: il carburante.

Il pomo della discordia tarantino era la petroliera Seasalvia, battente bandiera maltese ma di proprietà greca, che nella giornata di mercoledì 24 settembre era attraccata nel porto di Taranto per rifornirsi di greggio destinato al porto israeliano di Ashkelon. USB e COBAS, considerando il carburante destinato all’aviazione israeliana, hanno indetto una protesta per bloccare l’accesso al porto, cosa che ha costretto la nave ad allontanarsi e sostare nel golfo di Taranto. Seasalvia ha cambiato destinazione, nei giorni successivi, da Ashkelon all’attracco egiziano di Port Said; una variazione puramente cosmetica, secondo i sindacati, che le ha permesso di riattraccare e completare il suo carico – 30.000 tonnellate di petrolio – per poi ripartire la mattina di domenica 28 settembre.

A seguito di questo depistaggio di convenienza, i sindacati e i lavoratori hanno deciso di portare la protesta alla raffineria ENI, il cuore energetico del Mediterraneo, considerata complice e responsabile dell’invio di greggio destinato ad alimentare i massacri a Gaza. Qui non si parla di gru o di piazzali; le operazioni quotidiane consistono nell’ingresso e nell’uscita di cisterne, autobotti e convogli ferroviari che trasportano carburante verso ogni parte del Mediterraneo. Per sette ore, i lavoratori hanno trasformato quell’ingranaggio colossale in un meccanismo inceppato. I cancelli della raffineria sono stati presidiati, e decine di autocisterne sono rimaste immobili, file di camion carichi di petrolio bloccati lungo la strada, i motori spenti, i conducenti fermi a guardare.

La promessa dei sindacati è di tornare in strada se dovesse ripresentarsi un’altra Seasalvia. Congiuntamente all’amministrazione comunale, hanno dichiarato che Taranto non vuole diventare un “corridoio di guerra” – perché, quando si parla di conflitto, il petrolio non è diverso dalle armi.

I porti bloccati, geografia della resistenza

Le navi cariche di armi e carburanti dirette in Israele contro le imbarcazioni civili della Global Sumud Flotilla, piene di aiuti umanitari destinati a Gaza: non flotte coinvolte in uno scontro diretto, ma rotte parallele che, sulla mappa della coscienza collettiva, tracciano i contorni della guerra e della solidarietà.

Già prima dell’arresto della Flotilla, i portuali italiani avevano dichiarato la disponibilità a bloccare i porti in caso di attacco alla spedizione umanitaria. Non erano parole dette per caso, perché le proteste più recenti, nei giorni scorsi, indicano che le rappresaglie sui moli (e non solo) sono destinate a inasprirsi. Quello che succede nei porti italiani non è folklore sindacale, e non si tratta di episodi locali. È il riflesso di un Paese in cui le coscienze non sono allineate con i palazzi.

A Genova, Livorno e Taranto si è palesato un fatto che la politica preferirebbe non vedere: il lavoro, quando si organizza, può ancora essere più potente delle cancellerie. Specie se l’Italia, oggi, si riconosce più nei portuali che nei ministri.

 

 

 

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