Abusi e divario di genere non passano di moda

Nei Paesi dov’è più frequente lo sfruttamento nel settore tessile, le donne percepiscono il 18,5% in meno di stipendi già miseri, e subiscono abusi di ogni tipo: “Insulti e aggressioni sono così comuni da essere visti come normali”. Le testimonianze dal Bangladesh e dall’India

Divario di genere in azione nel settore tessile: una stanza piena di lavoratrici alla macchina da cucire, in Cambogia

L’industria della moda fattura, secondo Fair Trade International, oltre 1,53 trilioni di dollari l’anno, ma i suoi lavoratori, in particolare le donne, vivono per la maggioranza in condizioni di estrema povertà. Pur costituendo la maggior parte della forza lavoro nel settore con l’85% delle lavoratrici di sesso femminile, queste continuano a subire discriminazioni, sfruttamento e abusi, e solo in rari casi ricoprono ruoli decisionali.

Che cosa muove l’ago della bilancia sulla parità di genere nel settore dell’abbigliamento? è il titolo di un report pubblicato dall’International Labour Organization (ILO) a marzo 2022, che esamina le sfide che ancora oggi devono affrontare le lavoratrici nel settore tessile, in particolare in Asia.

I problemi del settore creano le basi per abusi e discriminazioni sul lavoro. I proprietari di fabbriche, ad esempio, licenziano le donne incinte o negano loro il congedo di maternità, soprattutto quando non hanno i documenti in regola. Secondo il documento dell’ILO sono quattro le strategie per sconfiggere la disparità e la violenza di genere in questo ambito: il dialogo, il coinvolgimento degli uomini, una buona legislazione e il tempo.

Anche Gianni Rosas, presidente di ILO, ci conferma chepur costituendo la stragrande maggioranza della forza lavoro, in generale le donne ricoprono occupazioni a bassa qualifica e con i salari inferiori, mentre i ruoli di supervisione e di maggiore importanza vengono offerti agli uomini. Sulle donne poi grava anche il lavoro di accudimento familiare, ma a fronte di tutto questo carico sono discriminate anche nei compensi e nella tutela dei loro diritti. Proprio per questo è necessario attivare metodi di supervisione contro la segregazione di genere, che in questo caso è proprio di tipo verticale, nel senso che le donne ricoprono le qualifiche più basse, non hanno potere decisionale e sono spesso vittime di molestie sessuali e violenze. Rispetto ad altri settori economici la questione di genere nel tessile è molto sentita, soprattutto nei Paesi dove le donne sono la quasi totalità delle occupate del settore. Il cammino per la parità è ancora tutto in salita”.

Sfruttate perché asiatiche e perché donne. I soprusi del tessile

Dal report realizzato da Laurel Anderson per l’ILO (Decent Work in Garment Supply Chain in Asia, con il sostegno economico della Swedish Development Agency) emerge che, nonostante l’industria del tessile offra circa 42 milioni di posti di lavoro alle donne asiatiche, persiste un divario di genere che la recente pandemia ha ulteriormente aggravato.

L’ILO ha riscontrato un divario retributivo medio di genere pari a circa il 18,5% nei settori dell’abbigliamento, tessile e calzaturiero in Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Repubblica Democratica Popolare del Laos, Pakistan, Filippine, Tailandia e Vietnam (Pillay 2018).

“Mentre il 4% di questo divario può essere spiegato, circa il 14,5% non lo è, il che significa che il divario nella retribuzione è in gran parte dovuto a differenze che potrebbero essere il risultato di una discriminazione salariale basata proprio sul genere. Inoltre, i lavori tradizionalmente etichettati come femminili o che rientrano in settori altamente femminilizzati, come il settore dell’abbigliamento appunto, tendono a essere sottovalutati”, si legge nel rapporto.

Oggi oltre il 90% degli Stati membri dell’ILO ha ratificato la Convenzione numero 100 del 1951 dell’ILO stessa sulla parità di retribuzione, ma in pratica l’applicazione del principio per un lavoro di pari valore rimane una sfida.

“Insulti e aggressioni sono così comuni da essere normali”

I dati sono confermati dalla la Clean Clothes Campaign, la quale denuncia che, pur lavorando almeno dodici ore al giorno, sei giorni su sette, le lavoratrici vengono pagate da due a cinque volte meno di quello di cui hanno bisogno per sostenere se stesse e le proprie famiglie. Nell’Asia meridionale milioni di donne lavorano a casa nell’industria tessile e, oltre a dover produrre, sulle loro spalle grava anche il peso dell’accudimento familiare. Secondo la stessa fonte, “le condizioni di lavoro in cui versano le operaie tessili nei Paesi di produzione sono precarie, con contratti a breve termine (il cui potere di rinnovo è in mano ai proprietari delle fabbriche) oppure addirittura a cottimo. È molto difficile far emergere il clima di violenza attorno al lavoro nelle fabbriche tessili: le donne non ammettono di subire violenze (fisiche, verbali, psicologiche) proprio perché dipendono dal proprio lavoro in modo vitale. Se chi ti molesta sessualmente è il tuo capo, e temi di essere licenziata se resisti, o se quel salario irrisorio ti serve a nutrire i tuoi figli, di certo non denuncerai lo stato di violenza in cui vivi”.

Unità produttiva in Bangladesh. Foto@CCC
Unità produttiva in Bangladesh. Foto@CCC

Nel rapporto sulla violenza di genere di “Abiti puliti”, redatto da Sina Marx, la situazione del Bangladesh è esposta con chiarezza dall’attivista per i diritti dei lavoratori Kalpona Akter: “Le donne in Bangladesh non parlano di violenza e molestie, questi sono argomenti tabù. Ecco perché ci sono così tanti casi non documentati sul posto di lavoro. Gli insulti e le aggressioni sessuali sono così comuni nelle fabbriche che spesso né i lavoratori né la direzione li vedono come un problema”.

“In Bangladesh lavoravo in una fabbrica di jeans per tre dollari a settimana. Ero minorenne e non avevo né un contratto, né alcuna forma di tutela”, racconta Nusrat, che vive in Italia da circa otto anni. “In una stanza piccola e con solo un lucernario, lavoravamo in venticinque. Non potevamo fare pause se non per andare in bagno e bere, e molte delle altre erano minorenni come me. Se provavamo a chiedere di lasciare la porta aperta ci minacciavano di mandarci via. Vivevamo come fantasmi e nessuno doveva vederci”.

Oggi Nusrat lavora in Italia nello stesso settore, ma le sue sorelle, tra cui una minorenne, lavorano ancora nella stessa fabbrica. “Mi fa impressione, quando vado in un negozio di abbigliamento e guardo l’etichetta, leggere made in Bangladesh. Mi chiedo sempre in che condizioni lavori e viva la donna che ha confezionato quel capo”.

Rispetto del genere nel settore tessile: molto dipende da una direttiva europea

Il 23 febbraio 2022 la Commissione europea ha adottato una proposta di direttiva sull’adeguata verifica della sostenibilità aziendale. Secondo questa direttiva, attualmente nella fase di discussione finale con l’obiettivo di essere approvata entro la fine della legislatura, le multinazionali che desiderano vendere prodotti sul mercato europeo dovrebbero operare in modo rispettoso dei diritti umani e dell’ambiente. Tuttavia, l’attuale proposta non tiene conto del genere, come denunciato da più di ottanta organizzazioni non governative e sindacati.

Per garantire che le donne e le ragazze non vengano lasciate indietro, bisogna sostenere la promulgazione di norme di rispetto del genere nel Parlamento europeo, e si chiede che i governi nazionali trasmettano questo messaggio al Consiglio europeo.

“Senza una legislazione che tenga conto del genere, è impossibile ridurre la discriminazione, il sessismo e le molestie sessuali, le disuguaglianze salariali, o migliorare la conoscenza dei propri diritti da parte delle donne”, denuncia il Fair Trade International. “Il testo finale della direttiva deve integrare il genere in ogni fase del processo di verifica aziendale (identificazione dei rischi, monitoraggio delle misure messe in atto per prevenirli e mitigarli, disposizioni per l’accesso alla giustizia per le vittime, ecc.)”, indica la medesima fonte.

Fashion Revolution, insieme a Clean Clothes Campaign e diverse altre organizzazioni, ha avviato una campagna, “Good Clothes, Fair Pay”, raccogliendo oltre 240.000 firme nei Paesi dell’Unione Europea. Lo scopo dell’iniziativa era chiedere una legislazione UE sul salario dignitoso per i lavoratori dell’industria tessile in tutto il mondo, con un’attenzione particolare alle donne.

In attesa che la legislazione internazionale cambi in senso più inclusivo, per milioni di lavoratrici nel mondo la situazione resta critica, anche quando lasciano i Paesi di origine e arrivano in Italia.

“Sono nata in India e le donne della mia famiglia hanno sempre lavorato in casa cucendo sari per le altre donne, quelle dell’alta società. Io ho iniziato che ero ancora bambina e mi ricordo che tra le nostre mani passavano tessuti e fili costosissimi che non ci saremmo mai potute permettere”, racconta Chandani, che oggi ha diciannove anni ed è in attesa di riconoscimento dello status di rifugiata.

“Ogni settimana veniva qualcuno a ritirare i sari finiti; lavoravamo anche di notte con la luce delle candele perché non avevamo la corrente in casa. Mia madre mi ha fatta scappare quando il titolare ha cominciato a venire a casa nostra in modo molesto. In casa eravamo solo donne perché mio padre è morto quando ero bambina. Nessuno poteva dirgli niente, altrimenti ci avrebbe tolto il lavoro. Sono arrivata in Italia dopo un viaggio di mesi insieme a un cugino più grande, ma tutt’ora sono in attesa dei documenti e neanche qui posso lavorare legalmente”.

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