Il 23 febbraio 2022 la Commissione europea ha adottato una proposta di direttiva sull’adeguata verifica della sostenibilità aziendale. Secondo questa direttiva, attualmente nella fase di discussione finale con l’obiettivo di essere approvata entro la fine della legislatura, le multinazionali che desiderano vendere prodotti sul mercato europeo dovrebbero operare in modo rispettoso dei diritti umani e dell’ambiente. Tuttavia, l’attuale proposta non tiene conto del genere, come denunciato da più di ottanta organizzazioni non governative e sindacati.
Per garantire che le donne e le ragazze non vengano lasciate indietro, bisogna sostenere la promulgazione di norme di rispetto del genere nel Parlamento europeo, e si chiede che i governi nazionali trasmettano questo messaggio al Consiglio europeo.
“Senza una legislazione che tenga conto del genere, è impossibile ridurre la discriminazione, il sessismo e le molestie sessuali, le disuguaglianze salariali, o migliorare la conoscenza dei propri diritti da parte delle donne”, denuncia il Fair Trade International. “Il testo finale della direttiva deve integrare il genere in ogni fase del processo di verifica aziendale (identificazione dei rischi, monitoraggio delle misure messe in atto per prevenirli e mitigarli, disposizioni per l’accesso alla giustizia per le vittime, ecc.)”, indica la medesima fonte.
Fashion Revolution, insieme a Clean Clothes Campaign e diverse altre organizzazioni, ha avviato una campagna, “Good Clothes, Fair Pay”, raccogliendo oltre 240.000 firme nei Paesi dell’Unione Europea. Lo scopo dell’iniziativa era chiedere una legislazione UE sul salario dignitoso per i lavoratori dell’industria tessile in tutto il mondo, con un’attenzione particolare alle donne.
In attesa che la legislazione internazionale cambi in senso più inclusivo, per milioni di lavoratrici nel mondo la situazione resta critica, anche quando lasciano i Paesi di origine e arrivano in Italia.
“Sono nata in India e le donne della mia famiglia hanno sempre lavorato in casa cucendo sari per le altre donne, quelle dell’alta società. Io ho iniziato che ero ancora bambina e mi ricordo che tra le nostre mani passavano tessuti e fili costosissimi che non ci saremmo mai potute permettere”, racconta Chandani, che oggi ha diciannove anni ed è in attesa di riconoscimento dello status di rifugiata.
“Ogni settimana veniva qualcuno a ritirare i sari finiti; lavoravamo anche di notte con la luce delle candele perché non avevamo la corrente in casa. Mia madre mi ha fatta scappare quando il titolare ha cominciato a venire a casa nostra in modo molesto. In casa eravamo solo donne perché mio padre è morto quando ero bambina. Nessuno poteva dirgli niente, altrimenti ci avrebbe tolto il lavoro. Sono arrivata in Italia dopo un viaggio di mesi insieme a un cugino più grande, ma tutt’ora sono in attesa dei documenti e neanche qui posso lavorare legalmente”.