Autori televisivi: chi li tutela con 14 associazioni di categoria?

I diritti d’autore non sono più quelli di una volta: chi scrive i programmi tv in Italia vive senza tutele e con il miraggio della pensione, nonostante il settore sia in crescita. La loro situazione inquadrata da Linda Brunetta, autrice e presidente ANART.

Il finale della terza stagione di Bones, la serie televisiva americana incentrata sulla vita di un’algida antropologa criminale, di fatto cambiò in corsa, lasciando perplessi molti spettatori. Nella penultima puntata sparavano al protagonista Booth; nell’ultima non si fa cenno all’episodio. La prima stagione di Breaking Bad ha solo sette episodi invece di tredici, e lo stesso vale anche per un cult come How I met your mother o per la serie più pagata di sempre, Big Bang Theory.

Tutto questo è dovuto allo sciopero degli sceneggiatori televisivi del 2007. Furono cento giorni di astensione dal lavoro negli USA, con tanto di manifestazioni con cartelli e striscioni. Non c’è nulla di strano perché negli anni Sessanta si arrivò addirittura a 140 giorni, sempre organizzati dal sindacato, al quale ci si deve iscrivere tassativamente per lavorare.

In Italia questo non potrebbe mai accadere, perché non solo non esiste un sindacato vero e proprio né un contratto nazionale, ma la categoria degli autori televisivi è pochissimo rappresentata, se non dalle quattordici associazioni di categoria, che in questi giorni stanno facendo fronte comune per chiedere maggiori diritti e hanno deciso di adottare la sigla UNA (Unione Nazionale Autori). Non è a rischio nessuna puntata di Made in Italy, quindi, ma in tempi di pandemia sono a rischio le carriere e la stabilità di molti lavoratori dello spettacolo.

Per gli autori televisivi cresce il lavoro, ma non i lavoratori

Nell’ultimo anno, complici i mesi di lockdown e le chiusure soprattutto serali, si è registrato un incremento dell’utilizzo delle piattaforme online dedicate a film e serie tv. Amazon ha incrementato l’offerta e in Italia è approdato anche il canale Disney+, che in questi giorni ha aggiunto la piattaforma Star.

Sia su Infinity che su Amazon, in particolare, non mancano le produzioni italiane. La prima si è focalizzata in modo particolare sui documentari di giovani registi, spesso finanziati con il sempre più diffuso metodo del crowdfunding, che si appoggia a piattaforme come Produzioni dal Basso. Il colosso americano invece ha iniziato anche a produrre serie in prima visione: Made in Italy e Tutta colpa di Freud, al debutto il 26 febbraio.

Tradotto in termini occupazionali si tratta di nuove possibilità di lavoro per giovani autori e sceneggiatori, che fino a non più tardi di dieci anni fa dovevano rivolgersi ai soli colossi Mediaset e Rai, con l’unica novità consistente nel mercato della tv generalista del gruppo Discovery. I numeri del settore sono decisamente in crescita, come testimonia l’ultimo report fornito dall’osservatorio dell’APA, che vede un incremento del 14% nella produzione di audiovisivi. Il settore trainante è quello delle fiction, dei telefilm e delle serie tv.

Riguardo ai mezzi di trasmissione, pur crescendo in modo esponenziale internet, l’80% del mercato è ancora occupato dalla televisione. Nel 2018 grandi nomi come Disney non erano ancora entrati a pieno titolo nel mercato, mentre il cinema aveva registrato un significativo incremento. Dal 2013 al 2020 i ricavi hanno avuto un balzo del 10%. Nel 2019 il settore vantava 50.219 occupati, che hanno registrato un piccolo calo nel 2020 passando a 50.148.

Autori, ma senza diritti. E con meno soldi

«Chi lo fa fare a un giovane di mettersi a fare l’autore televisivo?»

A porre la domanda retorica è Linda Brunetta, autrice Rai di lungo corso, che in passato inventò la trasmissione televisiva La TV delle ragazze, in cui esordirono tra le altre Serena Dandini e Sabrina Guzzanti. Erano gli anni della Rai 3 di Angelo Guglielmi, nella quale si scommetteva su giovani autori che arrivavano magari dal teatro, come Susy Blady o Lella Costa. Oggi è un altro mondo.

«Gli autori – racconta Linda, che è presidente dell’Associazione Nazionale Autori Radiotelevisivi – ormai sono diventati in buona parte adattatori di format che vengono comprati all’estero. Le produzioni di format italiani non sono mai decollate davvero, a differenza di altri Paesi europei, tant’è vero che in campo internazionale l’Italia viene definita the sleeping giant».

Anche il trattamento economico è cambiato nel tempo. La cessione del diritto è scomparsa qualche anno fa. I diritti d’autore venivano infatti riconosciuti nel tempo: significa che ogni volta che un programma veniva replicato l’autore percepiva un riconoscimento. «Questa – continua Linda – è una battaglia che stiamo conducendo. I programmi ormai vengono replicati senza più dare nulla a chi li ha inventati». Da parte delle televisioni e delle case di produzione è un atteggiamento per certi versi incomprensibile, in un momento in cui per ovvi motivi il tempo di ore trascorse davanti a uno schermo è aumentato nel corso dell’ultimo anno.

«Gli sceneggiatori e gli autori sono il motore di questo sistema. Sono coloro che danno le idee, che fisicamente danno vita alla televisione, eppure sono poco considerati all’interno del mondo televisivo. È un problema tutto italiano. Negli USA esiste un sindacato molto radicato, anche perché se non ti iscrivi non puoi lavorare. In Francia gli autori sono tutelati dalle società di collecting, c’è una politica generale di tutela del prodotto culturale francese. In Italia ci sono quattordici associazioni di categoria che ora sono riuscite a far quadrato tra loro.»

«So che non vedrò mai la pensione»: il disegno di legge proposto dagli autori televisivi

Un laureato o uno studente da poco uscito da una scuola di scrittura tenga ben presente che per lui la pensione sarà un miraggio.

Al contrario di quanto accade in molte professioni le cui casse previdenziali hanno vissuto di sperperi, chiedendo poi a vario titolo di rientrare sotto l’ombrello protettivo dell’Inps per ripianare i debiti, per scrittori, artisti, musicisti e gente di spettacolo è stato il contrario. Hanno portato il tesoretto dell’allora Enpals, ente ormai disciolto, all’interno dell’Inps, che ne ha assorbito gli utili. Così è stato sfatato il luogo comune che vuole gli artisti più cicale che formiche.

«L’Enpals – continua Linda Brunetta – era in attivo ed è stata accorpata all’Inps. Il problema però sta nel versamento dei contributi. Per scrivere una puntata di una fiction ci puoi mettere anche un mese, ma non vengono mai riconosciuti i giorni effettivi di lavoro. Per 23 puntate mi hanno riconosciuto 28 giorni di lavoro, ma io ci ho messo un anno. Il calcolo delle giornate lavorative è fatto sui lavoratori dello spettacolo, che hanno contratti a tempo, ma un autore spesso lavora da casa e non si può circoscrivere al tempo.»

Anche per questo le associazioni di categoria da tempo stanno lavorando a una proposta di legge da presentare al governo. «Noi proponiamo una contribuzione sul reddito complessivo», continua Brunetta. «Chiediamo inoltre di riconoscere a livello giuridico la figura professionale dell’autore, che ci dà un maggiore potere contrattuale. Oggi sono consulente, autore testi, esperto e altri titoli diversi; così non ottengo mai la stessa paga né le stesse giornate di lavoro. A volte ho la contribuzione ex Enpals e a volte la gestione separata. I due tipi di contribuzione non si sommano e non andrò mai in pensione».

«Paradossalmente c’è anche un tetto. A Mediaset il regista-autore non poteva raggiungere la stessa pensione del cameraman. Stiamo parlando di una persona strapagata che versava milioni, ma di pensione riceveva poco. Nello spettacolo ci sono più addetti del campo alimentare, rappresentiamo il 4% del Pil. Non possiamo essere una categoria di serie B. Noi autori non siamo riusciti a prendere nemmeno i contributi COVID-19, per svariate ragioni; ci sono sempre motivi per i quali non riusciamo ad avere dei ristori. Con altre associazioni di categoria, stiamo lavorando a un disegno di legge che riformi il mondo dei lavoratori dello spettacolo per avere anche indennità di disoccupazione e congedi famigliari, come tutti gli altri lavoratori».

Foto di Anete Lusina da Pexels

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