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Credimi, sto mentendo. Vent’anni di relazioni pubbliche
Il visionario Kenny Ausubel, fondatore della celebre comunità digitale di inizio secolo Bioneers, scriveva anni fa che “le relazioni pubbliche” erano state “la più devastante tecnologia del XX secolo”. Quando inciampai su questa affermazione mi strinsi nelle spalle per dirmi “boh? Chissà che cosa vuol dire un’interpretazione così negativa” di quella professione che nel lontano […]
Il visionario Kenny Ausubel, fondatore della celebre comunità digitale di inizio secolo Bioneers, scriveva anni fa che “le relazioni pubbliche” erano state “la più devastante tecnologia del XX secolo”. Quando inciampai su questa affermazione mi strinsi nelle spalle per dirmi “boh? Chissà che cosa vuol dire un’interpretazione così negativa” di quella professione che nel lontano 1960, da ventenne, avevo scelto di intraprendere.
L’episodio mi torna oggi in mente perché Senza Filtro mi chiede di scrivere che cosa non abbia funzionato nel mondo della mia professione negli ultimi dieci anni. Ebbene, non voglio apparire ultracatastrofico, ma se è vero che parecchie cose hanno funzionato, molte altre proprio no.
Diversi autorevoli commentatori anche italiani affermano – e a me appare verosimile – che la qualità delle relazioni con i pubblici influenti (stakeholder) di una organizzazione (privata, pubblica e sociale) costituisca oggi la prevalente ragione della sua esistenza. Il capitale “relazionale, immateriale e reputazionale” rappresenta la voce principale del valore che quell’organizzazione riesce a creare.
Se così è, basta un’occhiata in giro per capire che c’è poco da stare allegri.
Relazioni pubbliche: la situazione italiana
Non entro nel merito del ruolo che una nostra piccola agenzia di relazioni pubbliche (parlo della Casaleggio Associati) ha avuto, ha e avrà su tutto ciò che succede in campo economico, politico e sociale nel nostro Paese. Non per girare il dito nella piaga: mi limito solo a ricordare che il 33% dei nostri eletti dal popolo è vincolato da un contratto di fedeltà a Rousseau, e questo vincolo è davvero contrattuale, non come le paginette del programma di governo. Honni soit qui mal y pense! Neppure in Corea del Nord!
Né è mia intenzione commentare il ruolo attribuito a un già contendente del Grande Fratello (Rocco Casalino), autentico dittatore della comunicazione del primo partito italiano. Basti ricordare la bellezza del suo proclama pubblico a inizio campagna elettorale, ove suggeriva ai colleghi la ricerca di peccati, difetti e problemi degli avversari da sbugiardare in rete. Oggi, tra l’altro, è anche portavoce del Premier Carneade.
Non credo neanche sia necessario sottolineare le perlomeno quotidiane dirette Facebook dei due vicepremier: pensate, scritte, montate e trasmesse da tanti miei colleghi con l’obiettivo esplicito di prevenire, attutire e neutralizzare qualsiasi rilievo e osservazione critica sul loro operato da parte del nostro sistema dei media, criticabile quanto si vuole, ma comunque sempre architrave del sistema democratico. Alla luce dei fatti, quando quel comico diceva che con i giornalisti ci si puliva…, non scherzava.
Relazioni pubbliche: la situazione internazionale
Ma se l’Italia piange, certo il mondo non ride.
Non passa giorno senza che lo staff comunicativo della Casa Bianca non programmi pollici e cervello del robotrump per esercitare uno straordinario e mai visto prima potere di disintermediazione e definizione del discorso pubblico, che sconvolge costantemente i riti della diplomazia internazionale.
Il prossimo 5/7 Luglio a Bled (Slovenia) si incontreranno i più competenti e per ciò stesso preoccupati esponenti della comunità professionale e accademica del mondo delle relazioni pubbliche. L’obiettivo è interrogarsi e sforzarsi di capire meglio – a vent’anni dall’inizio del XXI secolo – le ragioni della drastica crescita dei Paesi che si sono dissociati dal sistema liberal democratico, generando società repressive dove masse mai viste di individui da un lato fuggono in ceca di condizioni di vita migliori e dall’altro cedono il controllo della propria vita privata a governi e conglomerati industriali privati. Luoghi in cui le disuguaglianze assurgono a livelli stratosferici, in parallelo a una sistematica devastazione ambientale del pianeta. Cose che neppure Orwell avrebbe mai immaginato.
Tutte le organizzazioni – private, sociali e pubbliche – si trovano oggi costrette, nell’illusione che serva a qualcosa, a narrare improbabili promesse attinenti a impegno, fiducia, soddisfazione ed equilibrio del potere: le variabili che condizionano la qualità della relazione.
Il successo (e l’insuccesso) nelle relazioni pubbliche
Il successo e la credibilità della mia professione nel mondo – pur sempre a sostegno di una committenza – si basano sulla creazione di senso e la comprensione delle dinamiche sociali, politiche, economiche e tecnologiche. E, come indicato, sulla qualità di governo dei sistemi di relazione con chi può influire sul raggiungimento degli obiettivi perseguiti, oltre che sulla capacità di con-vincere costoro a ridurre le resistenze, oppure contribuire all’accelerazione del raggiungimento di quegli obiettivi.
Il 7 Luglio, a Bled, presenterò la mia ultima ricerca prodotta insieme a Frank Ovaitt, presidente dell’Institute for PR, oggi in pensione ma sempre gagliardo. La ricerca stima tra un minimo di tre e un massimo di sei milioni il numero dei professionisti delle relazioni pubbliche attivi sul pianeta, e da 350 a 700 miliardi di dollari l’impatto economico annuale dei suoi investimenti. Limitandoci all’Italia, parliamo di 100 mila operatori che producono un impatto economico annuale intorno ai 25 miliardi di euro.
Sempre in Italia, dove le relazioni pubbliche si svilupparono nel secondo dopoguerra subendo l’impatto portentoso del marketing e della pubblicità provenienti da quel modello americano che ha permeato e accompagnato il nostro ingresso nella società dei consumi, la professione è stata soprattutto interpretata come “persuasione”, perlopiù a una via, come comunicazione-A. Il destinatario è un bersaglio (target) al quale sparare.
Purtroppo neppure l’ondata digitale, che pure aveva in sé premesse, ambizioni e opportunità narrative (oggi sempre meno, ma pur sempre presenti) capaci di invertire quella tendenza unilaterale (ricordate il Cluetrain?), è riuscita a cambiare le cose. Non siamo stati capaci di disimparare, e mal ce ne incoglie, perché culturalmente succubi della pubblicità. Potenza delle parole!
Occasioni perse. Con rammarico
Potenza delle parole. E nessuno lo sa meglio di noi che ci viviamo dentro, sopra e sotto. Oggi tutti facciamo lipservice (“servizio di leccata”) al termine ascolto. Personalmente parlo di asKolto, con la kappa. È verosimile pensare che se in luogo di “persuasione” fosse prevalso il termine “convincere” (da vincere cum) si sarebbe potuto innescare un pensiero dialogico con l’annessa constatazione che l’askolto è la parte essenziale di un qualsiasi processo comunicativo efficace. Come in effetti è davvero.
Così, sempre in tema di linguaggio, anche i relatori pubblici – prima frastornati e poi convertiti dal vangelo dei social media – sono stati più recentemente sconvolti dal fenomeno dell’influenzamento. Che è espressione antica, contemporanea alla persuasione, ma pur sempre esplosa all’improvviso grazie alla capacità di autorappresentazione pubblica di alcuni baldi giovanotti (gli influencer), che hanno pensato bene di sostituirsi, a pagamento, ai tradizionali leader di opinione con i quali eravamo abituati a dialogare da decenni. In cambio di un loro convinto sostegno pubblico all’idea, al partito o al prodotto, gli veniva offerta ampia visibilità, posti, onori e partecipazione a cordate di potere. Gli influencer oggi si confondono progressivamente con i testimonial prezzolati.
Comincio a credere che forse Kenny Ausubel non avesse tutti i torti. Lui pensava certamente a Goebbels e tanti altri come lui che hanno infestato di morte e distruzione il ventesimo secolo. Io, invece, penso sì a Trumputin e Casaleggio, ma anche alle tante decine di migliaia di colleghi in Italia e nel mondo (me compreso) che negli ultimi vent’anni hanno acriticamente assecondato e raccontato l’accelerazione della connettività tecnologica che ha prodotto la globalizzazione, quasi che la cancellazione di tempo e spazio fosse la cura miracolosa dei problemi del pianeta. Abbiamo però evitato accuratamente di progettare un con-vincente discorso pubblico, capace di assicurare regole e procedure sociali, finanziarie e umanitarie valide a livello globale. Forse favorendo, senza volerlo, l’inevitabile rientro in forze degli Stati-nazione, pronti ieri come oggi a seminare nazionalismo, populismo, ineguaglianza e razzismo.
Photo credits: Josh Haner, The New York Times/Redux
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