Fare il prete è un lavoro? Se sì, mancano lavoratori

Nel 2012 i preti in Italia erano 48.000; oggi sono 38.051, e uno su dieci è straniero. Con l’evangelizzatore freelance Paolo Curtaz capiamo dinamiche e retribuzioni di una “professione” che vede alzarsi sempre più l’età media dei suoi rappresentanti

Fare il prete è un lavoro? Un religioso anziano cammina per strada, da solo

Nella cronaca italiana si annidano i termometri sociali.

A febbraio scorso è comparso l’allarme sulla carenza di preti dalle pagine online del giornale Il Monferrato. Un pezzo d’Italia che parla per tutti. Titolo: “Sempre meno preti: situazione drammatica”. A lanciarlo Davide Mussone, cancelliere del vescovo che, nel redigere la reportistica annuale sulla situazione della diocesi di Casale Monferrato, si è messo a fare bene i conti.

Tra Comune e comprensorio, 48.000 abitanti per cinquanta sacerdoti. A occhio, per noi comuni cittadini, è difficile capire se siano pochi o tanti, ma ci fidiamo del richiamo all’emergenza perché è in linea con i dati nazionali.

In quel Monferrato, dei cinquanta sacerdoti (di cui sei stranieri) nessuno ha meno di trent’anni. Quelli operativi nella diocesi sono 47: che quattro di loro abbiano più di novant’anni è il dato più eclatante. Da lì in giù: cinque stanno fra gli ottanta e i novanta, nove fra i settanta e gli ottanta, cinque fra i sessanta e i settanta, quattordici fra i cinquanta e i sessanta, sei fra i quaranta e i cinquanta, e quattro sotto i quaranta. Impressionante. Si potrebbe fare ironia facile e amara rispetto alla situazione degli over 50 che faticano a collocarsi in Italia una volta usciti dal mercato. Usciti o espulsi, fate voi.

La Chiesa, come le fabbriche, si è dovuta rimboccare le tonache e mettersi a lavorare su turni: la manovalanza è scarsa e il servizio va coperto. Ha imparato a smistare i preti per coprire i territori, soprattutto quelli ai bordi, le periferie, i paesi spopolati dove una messa porta almeno uno scambio, se non sempre un conforto.

Colpisce che il cronista del Monferrato rimarchi non tanto la preoccupazione per l’età media del clero in aumento costante, quanto la totale assenza di nuove ordinazioni negli ultimi anni. “Fortunatamente abbiamo tre seminaristi che sono giunti dal Togo e stanno compiendo il loro percorso formativo per il servizio alla Chiesa di Casale: Joseph, Marc e Crépin”.

Li chiamano già per nome, forse a sentirli più vicini.

I dati CEI sul calo vertiginoso dei numeri del clero

Nel 2021 la CEI aveva diffuso numeri che parlavano chiaro: in trent’anni i sacerdoti erano già scesi di 6.500 unità (-16,5%, di cui -11% solo dal 2011, e l’accelerazione al ribasso continua). Uno su dieci era straniero e il dato permane.

Per capirci qualcosa di più, la CEI ha da poco diramato l’Annuario Pontificio 2023: le parrocchie in Italia sono 25.294 e i sacerdoti (tra regolari e secolari) sono 38.051. Erano circa 48.000 nel 2012.

 

 

Ad aver la pazienza di andare indietro nel tempo, è evidente che il calo di fatto ha iniziato a strutturarsi progressivamente dalla Seconda guerra mondiale in poi, all’inizio in modo impercettibile. E non si può analizzare seriamente la carenza di sacerdoti in Italia se non si mette a confronto il quanti sono con quanti anni hanno: l’età media dei nostri sacerdoti è di 61,8 anni, ed è aumentata del 4,1% dal 2000 al 2020.

Infine una nota curiosa: il rifiuto dell’incarico a diventare vescovi, metaforicamente gli amministratori delegati, quelli che stanno in alto quanto a carica e carriera. Oramai la crisi professionale tocca tutti, parola di Dio: dati 2021 dicono che a rifiutare l’offerta per essere ordinati come vescovi, tra i sacerdoti che Papa Francesco sceglie ogni anno, è ben il 30% di loro, cifra tre volte superiore a dieci anni fa.

Anche nel mondo ecclesiastico è crisi nera quanto a motivazione nell’assumersi responsabilità. Che sia in arrivo anche lì la voglia di Great Resignation di cui Ratzinger è stato pioniere assoluto?

Ma fare il prete è un lavoro?

Abbastanza” è la risposta di Paolo Curtaz, evangelizzatore freelance – l’unico in Italia a farlo, e di questo vive – nonché ex prete. Sulla carta d’identità, alla voce professione, c’è “scrittore”, e infatti pubblica da anni per Mondadori, Piemme, Paoline, Claudiana editrice, San Paolo. Vive ad Aosta, dove è nato. Di studi alle spalle ne ha incamerati tanti: partendo dalla coda, ha un dottorato di ricerca presso la facoltà teologica di Lugano e, prima, studi alla Pontificia facoltà teologica di Torino e all’Università pontificia Salesiana. Totale: undici anni a formarsi. Ci sentiamo al telefono di sabato sera, prepara la cena mentre mi risponde, ci tiene a spiegare con cura certi messaggi.

Non a caso mi soffermo con lui sul percorso di formazione perché, più parla e più ascolto, più mi è chiaro che per diventare preti c’è da studiare parecchio, e non è scontato arrivare in fondo e farsi dire di sì dal sistema.

“Andiamo per gradi. Se per lavoro si intende una professionalità retribuita, dico che lo è abbastanza. Sappiamo tutti che la Chiesa non dà certo un salario o uno stipendio, quello che riconosce è una forma di sostentamento al clero più la copertura delle spese di alloggio. Ma non è nemmeno così ovunque; al Sud ad esempio non c’è la tradizione di abitare in parrocchia perché mancano spesso le case parrocchiali: vuol dire che molti preti dormono ancora a casa con le famiglie di origine o in modo autonomo, a proprie spese. Ci tengo anche a dire che nessuno diventa prete per trovarsi un lavoro, la leva è ben diversa, è interiore. È invece un lavoro vero e proprio se lo guardiamo come un percorso che richiede scelte ben precise: dalla laurea richiesta al celibato. Fare il prete è diventata un’attività impegnativa, complessa, piena di responsabilità, chi lo fa sul serio lavora come un pazzo. Non si sente dire, ma sono tantissimi i casi di burnout per cui alcuni lasciano, e il tornare sui passi spesso non ha niente a vedere con la banalizzazione del celibato: spesso chi lascia lo fa per insostenibilità psicofisica del ruolo”.

Proprio per queste stesse ragioni c’è chi non inizia più il percorso, contribuendo al crollo drammatico di risorse che, non si può tacerlo, ha subito negli ultimi decenni anche il peso di tutta la deriva immorale di fette torbide dentro la Chiesa.

“Ho partecipato all’ultimo Sinodo europeo e dovreste sentire cosa dicono i preti irlandesi della pedofilia a casa loro, con tanto di cardinale imbrigliato. Questo anche per dire che non c’è più, in Italia come nel mondo, quel valore sociale che una volta attribuivamo alle figure della Chiesa, è caduto il velo, abbiamo visto cose che hanno fatto riflettere e, purtroppo, allontanare”.

Penso agli insegnanti e allo stesso filo sottile su cui salgono ogni giorno, spesso sguarniti, per andare incontro alla società: in molti casi sguarniti per assenza di competenze, per disinteresse a formarsi di più dato che nessuno o quasi li controlla; sguarniti per attitudini e carattere, per formazione inadeguata o insufficiente lungo la vita professionale. Chissà se il parallelo vale anche per i preti.

“Tra i preti e il vescovo c’è un rapporto di fiducia piena, e salta qualsiasi parallelismo tra il mondo della Chiesa e quello del lavoro tradizionalmente inteso, coi suoi obblighi contrattuali, i sindacati, la formazione professionale, le sanzioni, il controllo. Nelle scuole c’è una spinta obbligatoria ben diversa, e altre logiche”.

Le chiese come le aziende: immobilismo, diffidenza, resistenze. La giusta polemica dagli stranieri in Italia

Tenetevi forte. A dicembre 2022 si è tenuto al CUM di Verona un percorso di aggiornamento per gli operatori pastorali stranieri che lavorano nelle diocesi italiane: provengono dall’Africa, dall’Europa, dall’Asia e dall’America e per l’occasione hanno voluto scrivere una lettera senza peli sulla lingua.

Eccone alcuni stralci.

“Ci troviamo in Italia, a servizio delle diocesi, da almeno un anno.

La nostra prima parola è di ringraziamento per le chiese che ci hanno accolto e ci permettono di stare qui. Per quanto riguarda il nostro inserimento nelle comunità parrocchiali, soprattutto all’inizio, abbiamo notato una diffidenza e talvolta anche freddezza da parte della gente. Tuttavia dobbiamo riconoscere e ringraziare chi si è dimostrato aperto verso noi preti stranieri e paziente nell’accettare la nostra difficoltà con la lingua. D’altra parte, nelle chiese che ci accolgono riscontriamo anche dei limiti, come l’invecchiamento dei partecipanti, la poca presenza dei giovani, un certo senso di superiorità, una certa stanchezza e monotonia, si vedano ad esempio i canti, il clero anziano che tende a conservare e ha paura delle novità, o ad accomodarsi, senza più slancio o coraggio nell’affrontare temi decisivi”.

Prendete e ragionateci tutti.

Preti, suore e frati: quanto guadagnano e chi li paga?

Suore e frati, diciamolo subito, non percepiscono reddito.

Gli unici sono i parroci. Essere sacerdoti non basta per avere un ritorno economico, né certo si sceglie di diventare preti per avere uno stipendio; tanto meno basta l’essere diaconi (detti anche “preti laici”, un bell’ossimoro per intendere il livello base nella “carriera” ecclesiastica, coloro cioè che non hanno preso i voti e possono avere una vita privata al di là delle attività di supporto alla parrocchia).

Dal Medioevo alla riforma del Concordato nel 1984, il sostentamento del clero si basava sul sistema beneficiale che poi è stato del tutto abbandonato. A occuparsi degli stipendi è l’ICSC (Istituto Centrale di Sostentamento del Clero), ente connesso alla CEI. Ricordiamo che alla Chiesa Cattolica va il due per mille dell’IRPEF – le ultime cifre fiscali disponibili parlano di circa 450 milioni di euro annui – e di circa 1 miliardo e 100 milioni di IRPEF dall’otto per mille.

I parroci vengono pagati attraverso un sistema a punti un po’ complesso che pesca principalmente dall’otto per mille – che contribuisce per un 80% – e a cui aggiunge offerte liberali e rendite integrate degli istituti diocesani.

Un parroco guadagna circa 1.200-1.300 euro al mese, salario da operaio, ma a inizio carriera parte da appena 700-800, e in busta paga conta anche l’anzianità.

Una volta la Chiesa era la vigna del Signore, adesso ricorda più la fabbrica.

 

 

 

Photo credits: vinonuovo.it

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