E anche Getir se ne va: la bolla del cibo a domicilio sta scoppiando.

La multinazionale turca della spesa a domicilio lascia l’Italia. Le condizioni per pensare di fare fatturati miliardari in questo settore sono due: godere di privilegi fiscali e operare nella precarietà. E finalmente, le istituzioni iniziano a svegliarsi.

Dei rider di Getir in uniforme viola.

Da pochi mesi il mercato del cibo a domicilio è in forte recessione. Che siano micragnose colazioni, pranzetti in ufficio o cene fra amici per le quali dodici paia di gambe non sono sufficienti per scendere in strada e procurarsi un civilissimo take-away, sembra che il gioco non valga più la candela. Al punto tale che prima Gorillas, poi Uber Eats e oggi Getir, multinazionale turca della spesa a domicilio, hanno tirato i remi in barca e deciso di investire in luoghi più convenienti.

C’è da chiedersi quali siano questi luoghi più convenienti, considerando che l’Italia ha steso i tappeti rossi ai vari Glovo, Deliveroo, Just Eat in primis, permettendo loro un’attività del tutto deregolamentata nonostante i continui proclami. Ricordiamo ancora una volta che dei tre operatori – i più importanti del nostro Paese – solo Just Eat ha assunto parte dei suoi collaboratori, sebbene con un contratto interno e non con quello della logistica come sarebbe corretto per la tipologia di lavoro svolto; e non a tempo pieno, costringendo di fatto i propri rider a trovarsi un lavoro aggiuntivo – spesso nelle altre aziende competitor – per sbarcare il lunario.

Forse è anche questo il motivo per cui 2.300 rider licenziati nel giro di pochi mesi non fanno scalpore più di tanto. Innanzitutto per la configurazione di una forza lavoro perlopiù silenziosa, perché caratterizzata da stranieri, spesso poco alfabetizzati, di certo poco sindacalizzati, e in ogni caso “multitasking” per quanto riguarda le collaborazioni.

Cosa è successo nel caso di Getir è abbastanza chiaro. Terminato il periodo in cui l’azienda si è potuta configurare come startup, godendo dunque di sovvenzioni e agevolazioni, sfruttando manodopera e inquadramenti al ribasso tipici di tutto il settore, al momento di sedersi al tavolo con lavoratori e sindacati ha ben pensato di riprendersi il pallone e lasciare il campo.

Ma Getir è solo l’ultimo interprete di un settore che questo giornale segue da tempo, e che non abbiamo mai esitato a definire “insostenibile”, poiché la gara dei prezzi al ribasso fra multinazionali per accaparrarsi fette di mercato portava con sé tanto la precarietà dei lavoratori quanto servizi poveri a basso valore aggiunto. E se non vogliamo parlare di leggi e tutele, aggiungerei all’appello la mancanza delle basilari regole di sicurezza non adottate nei confronti dei propri rider durante la pandemia (gel e mascherine che i fattorini hanno dovuto procurarsi da soli, in un momento in cui erano praticamente introvabili) e le norme di igiene che andrebbero riservate ai box con cui si trasportano i cibi, anche queste a carico dei rider, che Gambero Rosso ha avuto modo di analizzare con precisione – e con risultati devastanti.

Il rialzo dei tassi d’interesse è l’ultima tegola caduta sulla testa del mercato del venture capital, che ha iniziato a chiedere maggiori utili ai propri puledri, sfiancandoli e in certi casi costringendoli a ritirarsi dal tabellone di gioco. Per chi resta, il futuro che sta arrivando riserva un aumento dei prezzi e delle commissioni (oggi i ristoratori pagano fra il 18 e il 20% per il servizio) sempre meno giustificabile.

Ma soprattutto siamo pronti a scommettere che chi fino a oggi ha improntato il proprio business plan sulla “flessibilità dell’organico” è già pronto a fare le valigie. Con le nuove normative europee che riguardano i rider, infatti, sono stati individuati i termini per i quali un lavoratore non è più un autonomo, ma un dipendente a tutti gli effetti, e in un mercato che conta 28 milioni di lavoratori, e che ha visto crescere i propri fatturati da 3 a 14 miliardi in soli quattro anni, a qualcuno stanno già tremando i polsi.

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