Lavorare con il nemico

A parlare di nemico si prende sempre la via più corta, la più diretta per iniziare a schierarsi di qua o di là e dare il via alle trincee pericolose della politica e dell’informazione. Le stesse scorciatoie con cui l’informazione racconta le guerre e i conflitti in giro per il mondo, rimandando solo le scene […]

A parlare di nemico si prende sempre la via più corta, la più diretta per iniziare a schierarsi di qua o di là e dare il via alle trincee pericolose della politica e dell’informazione. Le stesse scorciatoie con cui l’informazione racconta le guerre e i conflitti in giro per il mondo, rimandando solo le scene strazianti o la disperazione colta nel vivo di un bombardamento o i corpi che saltano in aria come le speranze.

Non che non serva documentare la crudeltà, ci mancherebbe. Si dimentica però la dignità del giorno per giorno di chi continua a tirare avanti i Paesi quando le telecamere si voltano dall’altra parte del mondo perché ogni guerra è una moda e come tutte le mode passa di stagione in stagione; fino a tornare, ma spesso è tardi per rimediare all’indifferenza.

Il giornalismo italiano punta a fare il suo bottino di guerra dentro le emozioni dei lettori o degli spettatori ormai in bilico tra l’apatia e l’anestesia da social network: SenzaFiltro dedica questo reportage alla vita che va avanti nei Paesi dilaniati dalla follia delle guerre, a chi lavora ogni giorno dell’anno nelle proprie città distrutte e lontane dalle attenzioni del resto del mondo, a chi resta nell’ombra semplicemente perché la tenacia e la voglia di ricostruire non attirano il grande pubblico quanto un videogame di guerra spacciato per vita reale.

Leggi il reportage “Lavorare con il nemico“, e il mensile 111, “Non chiamateli borghi“.


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In copertina: Ajdabya, Libia, frontline, un insorgente si prepara alla battaglia.

Foto di Ugo Lucio Borga/Sixdegrees

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