Riforma pensioni, dal PNRR sparisce il riferimento ai lavori usuranti. Alla politica non interessa?

Analizziamo la situazione della nuova normativa sui lavori onerosi con il giuslavorista Francesco Rotondi: “Non esiste panacea. E la norma non può coniugare produttività e tutela”.

“Alla mia età non è facile mantenere certi ritmi, sento il bisogno fisiologico di staccare”.

Domenico Petrin ha compiuto sessantuno anni lo scorso ventitré aprile e da ormai trenta presta servizio a ciclo continuo su tre turni, con esperienze nel mondo conciario e metalmeccanico. Una media di settanta notti annue in comparti tutt’altro che leggeri da affrontare, soprattutto per un profilo sempre alle prese con impianti complessi e pericolosi. Il traguardo della pensione, seppur in vista, dista ancora qualche curva, ma la benzina è finita da un pezzo. “Da alcuni mesi sto verificando con la direzione del personale e il sindacato la possibilità di concordare l’uscita, ma i tempi non sono ancora maturi”.

Nel frattempo, però, il tema della sicurezza incombe sulle spalle delle imprese produttive, chiamate a mantenere in equilibrio aspetti normativi, cultura interna, organizzazione e limitazioni imposte dai medici competenti. Limitazioni certificate, per lavoratori della categoria di Domenico, dai troppi anni in prima linea a svolgere mansioni logoranti. A tal proposito non aiuta di certo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di recente varato dal governo Draghi, che nell’ultima bozza ha eliminato il riferimento al superamento di Quota 100 con interventi mirati per le attività usuranti. Con buona pace di quanti speravano in una proroga della misura a stampo leghista, in scadenza a fine 2021, o quantomeno di un allargamento della platea dei lavoratori in difficoltà per ragioni d’età e d’usura.

Quella nota sui lavori usuranti cassata dal PNRR

Come mai, dunque, la nota è sparita?

L'avvocato Francesco Rotondi.

“Su questo non dobbiamo cercare risposte giuridiche né giuslavoristiche, bensì riscontri politici”, spiega l’avvocato Francesco Rotondi, esperto di diritto del lavoro, giornalista pubblicista e professore a contratto all’Università Carlo Cattaneo di Castellanza (VA). “La verità è che quando compaiono o scompaiono determinate corsie preferenziali, nel caso specifico nemmeno discrezionali perché parliamo di un dato oggettivo come il lavoro usurante, c’è sempre un tema politico dietro. A meno che non si tratti di una pura mancanza, da correggere in fase di emanazione oppure attraverso i decreti attuativi. Non dobbiamo infatti dimenticarci che, quando vengono emanati questi provvedimenti, spesso si rimanda a una serie di decreti attuativi in grado di approfondire particolari contenuti”.

E in effetti i contenuti da approfondire non sarebbero pochi, a maggior ragione se consideriamo che l’attuale normativa risale addirittura al 2011, con il decreto legislativo 67. Una norma che prevede il prepensionamento, calcolato attraverso un meccanismo basato su quote, per i soggetti addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti.

“Usurante” o “gravoso”? La priorità è aggiornare la lista dei lavori onerosi

Ma quali sono queste attività? L’elenco è stabilito dallo stesso decreto e conta, oltre ai turnisti notturni di lungo corso, alcuni lavori fonte di stress e di impegno oneroso dal punto di vista fisico; attività che per la loro gravosità determinano un invecchiamento precoce. Il vero problema è che nel leggere la lista, facilmente recuperabile dal sito dell’INPS, rimane forte il dubbio che non sia affatto completa.

Rotondi sulla questione è d’accordo. “La definizione di lavoro usurante, priva com’è di un inquadramento oggettivo, deve essere ampliata sulla base dell’esperienza reale. Per questo abbiamo il dovere di migliorare. Paradossalmente potremmo avere un lavoro non usurante anche se a ciclo continuo e, al contrario, uno usurante con caratteristiche diverse da quelle previste dall’attuale decreto. È importante creare un centro di osservazione che abbia le competenze per indicare quanto una determinata tipologia di lavoro incida in modo rilevante sulla sfera psicofisica del lavoratore. Non possiamo mantenere lo status quo, siamo chiamati a un’azione migliorativa. Soprattutto perché il 67/2011 è legge ben fatta per l’epoca, ma da ristrutturare sulla fotografia dell’odierno mondo del lavoro”.

Forse è proprio questo l’intento della Commissione tecnica che dallo scorso cinque maggio, su indicazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è incaricata di studiare la gravosità delle occupazioni, anche in relazione all’età anagrafica e alle condizioni soggettive delle lavoratrici e dei lavoratori. L’obiettivo è concludere l’analisi entro l’anno 2021, “anche se dal punto di vista linguistico si continua a girare intorno alla terminologia, passando ad esempio da usurante a gravoso. Prioritario è invece effettuare un’analisi concreta e completa sull’impatto del lavoro; dopodiché ne definiamo i confini”.

“Coniugare produttività e tutela è impossibile, non è il compito della norma”

Per iniziare a valutare l’impatto è peraltro sufficiente verificare la banca dati delle professioni alimentata dall’INAIL.

Nel 2019, ultimo anno protocollato, l’85,9% delle malattie professionali deriva da prestazioni operative, come i conduttori di impianti, gli operai specializzati, gli artigiani e le professioni non qualificate. È inoltre utile evidenziare che, nelle categorie elencate, si registra una percentuale che varia dal 74% all’82% di eventi affiorati dopo i cinquant’anni di età. Un elemento chiaro che evidenzia l’usura di specifiche attività di fabbrica, non per forza notturne. L’ovvia conseguenza è il massiccio intervento del medico competente, chiamato a tutelare la salute delle persone certificando limitazioni e prescrizioni. A discapito, oltre che del singolo, della produttività aziendale.

“Dal punto di vista normativo non si può coniugare produttività e tutela”, chiarisce Rotondi. “Potremmo aiutare le imprese creando per i lavoratori critici una tutela sanitaria totale, pur non raggiungendo determinati parametri ordinari. In tal modo la copertura garantirebbe all’imprenditore l’inserimento di altri lavoratori, a sostegno della prestazione. Penso ad esempio al concetto di coworking, che prevede più operatori sulla stessa postazione. Immaginazione a parte, è improbabile che la norma aiuti l’impresa e, in tutta onestà non è nemmeno suo compito. Sui lavori usuranti parliamo appunto di norme a tutela, non è contemplata la parte imprenditoriale e produttiva”.

Pensioni, la riforma perfetta non esiste, “ma il problema del diritto del lavoro è la politica”

Come già sottolineato, i problemi di salute e le malattie croniche a lungo termine aumentano con l’età, con particolare concentrazione su specifiche mansioni.

A supporto della tesi, l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro racconta che il 30% degli uomini e delle donne nella fascia d’età tra i 50 e i 64 anni necessita di un adeguamento urgente del posto di lavoro, allo scopo di prevenire i rischi di inabilità. Ma la promozione di un invecchiamento attivo è una questione solo culturale o il diritto del lavoro può incidere?

“Io credo sia una questione solo culturale, dal punto di vista normativo non si interviene in maniera coercitiva sulle dinamiche sociali. Il grande fraintendimento del nostro tempo è che si immagina di demandare sempre a una norma, chiamata a risolvere tutti problemi. Ritengo sia abbastanza evidente che così non è. L’obiettivo è costruire la norma sulla cultura”.

A conti fatti, non rimane che sperare in una nuova riforma delle pensioni? “È evidente e forte la necessità di un intervento in questo senso, però dobbiamo sforzarci di guardare il problema dall’alto. Oggi purtroppo non siamo più in grado di ragionare su uno specifico tema in maniera esclusiva, bensì dobbiamo coinvolgere tanti aspetti del nostro vivere. Aspetti sociali, economici e finanziari. In proposito bisogna purtroppo prendere atto che, come si dice, abbiamo asciugato il mare. Personalmente non posso immaginare che non ci sia contezza di determinati problemi, consapevolezza dell’impossibilità di garantire la panacea di tutti i mali. Gli interventi politici, perciò, mirano a modifiche parziali ogni due o tre anni, con l’obiettivo di attrarre qualche consenso in più nel breve periodo. E con la certezza di proporre azioni non risolutive”.

Torniamo sempre alla politica, dunque. “Il problema del diritto del lavoro è unicamente la politica, che crea danni quando si inserisce all’interno delle dinamiche tecniche”, chiosa l’avvocato Rotondi. “Il diritto del lavoro dovrebbe essere apartitico. I lavoratori hanno esigenze specifiche, così come le imprese. E, mi creda, sono tutte nell’interesse del Paese”.

Photo credits: well-work.it

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