Fino a sette anni per una causa: chi ha bendato la giustizia tributaria?

Magistratura tributaria, ecco perché urge una riforma: pochi giudici (mal pagati e non professionisti), poca preparazione, troppe cause.

Il gruppo francese Kering nel 2019 ha pagato al fisco italiano 1,25 miliardi di euro per la commercializzazione dei prodotti Gucci. Una bella cifra senza dubbio, ma l’accertamento fiscale iniziale era di 1,4 miliardi su una presunta evasione fiscale di circa 14 miliardi. Quando queste notizie vengono date dal telegiornale all’ora di cena ci si ferma con la forchetta a metà strada, sentendo le cifre elevate che vengono pagate (ed evase). Sono frutto di una mediazione, che nella quasi totalità dei casi porta alle casse dello Stato una grande quantità di denaro, ma comunque inferiore a quello che i presunti grandi evasori avrebbero sottratto.

Chi invece spesso non riesce a usufruire di queste mediazioni, per una serie di fraintendimenti come le convocazioni che non arrivano, sono i piccoli contribuenti, che per chiarire la propria posizione a livello fiscale devono affidarsi alla giustizia tributaria. I tempi per avere una sentenza oscillano dai due ai sette anni, un periodo nel quale il denaro risulta come “congelato” sia per il contribuente che per lo Stato. Parafrasando il John Grisham de Il socio, è come se ci fosse una nave carica di denaro che gira in mare senza approdare mai in nessun porto.

I dati forniti dal Ministero delle finanze inerenti al 2020 dicono che «la giacenza complessiva delle liti pendenti al 31 dicembre 2020 (pari a 345.295 controversie) cresce rispetto al 31 dicembre 2019 del 2,85% (+9.566)». Dietro i numeri si nasconde un tesoretto miliardario che è fermo. La riforma della magistratura tributaria è richiesta da più parti da alcuni anni; diversi disegni di legge sono stati depositati, ma l’attuale governo a inizio aprile ha deciso di creare una commissione interministeriale di esperti che consegni entro il 30 giugno una fotografia della situazione, ma che decida anche di intervenire. Tra le proposte sul tavolo c’è anche quella di professionalizzare la magistratura tributaria, i cui giudici oggi di fatto svolgono un’altra professione. Intanto dietro ai numeri ci sono le vicende di molti cittadini, che vivono in un limbo di attesa.

Sette anni per guidare un’automobile acquistata regolarmente

La vicenda di un imprenditore del Nord Italia inizia nel 2011, quando riceve un accertamento fiscale a seguito di un’inchiesta della Guardia di Finanza, dalla quale era emersa un’attività fraudolenta da parte di un concessionario che aveva venduto un’automobile alla società dell’imprenditore. Si trattava di un giro di acquisto di auto inesistenti all’estero, le cosiddette auto carosello; ma la vettura in questione c’era, ed era stata regolarmente pagata.

Le Fiamme Gialle danno così mandato all’Agenzia delle Entrate di effettuare dei controlli. All’imprenditore in questione arriva però subito una cartella. Decide di effettuare una mediazione nei locali uffici dell’Agenzia, ma la sua richiesta (inviata con raccomandata e ricevuta di ritorno) arriva quattro giorni dopo. Per l’agenzia fa fede la data di arrivo e non quella di spedizione della lettera. La questione approda così in commissione tributaria.

Intanto l’auto non può essere utilizzata, e il suo valore (52.000 euro) non può nemmeno essere messo a bilancio e detratto dalle tasse. In commissione tributaria il difensore produce foto dell’auto, certificato d’acquisto e il PRA nella prima udienza del 2012. Nel 2013 arriva la sentenza che dà ragione al contribuente. L’Agenzia delle Entrate ricorre e nel 2015 arriva il responso in appello: l’auto è stata regolarmente acquistata. Dopo due anni di lungaggini burocratiche, nel 2017 il mezzo ritorna nel possesso dell’acquirente, che potrà usarlo e detrarlo dalle tasse. Dopo sei anni in cui l’auto è ferma e il valore, naturalmente, è sceso.

Vecchi o nuovi proprietari: chi paga per il pignoramento fantasma?

Sempre in Nord Italia c’è uno studio associato di professionisti che, in attesa di giudizio, sta pagando quello che doveva ricevere dallo Stato come contributo per l’energia pulita.

Stanno pagando a rate una rottamazione. Una di queste rate salta e arriva un pignoramento di 26.000 euro, che viene notificato al domicilio di uno dei due titolari e non allo studio. L’agenzia decide di pignorare 26.000 euro, che sono i contributi che arrivano dal GSE (Gestore dei Servizi Energetici) per i pannelli solari installati sopra la sede dello studio. Ma nel frattempo l’edificio è stato venduto ad altri, che dopo un anno si ritrovano a loro volta pignorato il contributo.

Si rivolgono quindi al GSE, che però dice di aver fatto ciò che l’agenzia ha detto loro di fare; quindi vanno dai primi proprietari che intanto hanno presentato ricorso, ma devono anticipare quei contributi che comunque risultano pignorati, in attesa di una sentenza che arriverà. Le previsioni non sono ottimistiche, anche perché si basano su dati (per nulla confortanti) che lo stesso MEF rende pubblici: nel 2019 la commissione tributaria ha gestito liti per 40 miliardi di euro e nel 45% dei casi le sentenze d’appello hanno annullato il giudizio del primo grado.

Giustizia tributaria, pochi giudici e mal pagati dal ministero che fa e disfa le cause

La magistratura tributaria è da sempre considerata anomala.

Tanto per cominciare perché i giudici non sono professionisti”, ma svolgono un’altra professione. Del resto con una retribuzione di 25 euro a seduta non potrebbero fare altrimenti; chi presiede molti processi arriva a fatturare 7.000 euro all’anno.

Vengono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Ministero dell’economia e delle finanze. Anche in questo caso qualcuno solleva un’obiezione. Il 46% dei ricorsi è presentato dall’Agenzia delle Entrate (che è parte in causa in buona parte di quelli che vengono promossi dai contribuenti), la quale a sua volta dipende dallo stesso ministero che nomina i giudici. In alcuni casi, come succede a Brescia, sono addirittura “vicini di casa”, visto che i due uffici si trovano nello stesso edificio.

Negli anni poi anche il numero di magistrati si è assottigliato. I giudici tributari oggi sono 2.943 (nel 2013 erano 4.668; nel 2019 erano 2.747). Di questi 1.547 sono giudici ordinari togati e 1.396 sono laici (giudici onorari). I giudici ordinari togati (pari al 52,6%) sono composti da: 1.339 giudici ordinari (civili, penali, pubblici ministeri e Gip, l’86,5%), 101 giudici amministrativi (il 6,5%), 87 giudici contabili (il 5,7%), 20 giudici militari (l’1,3%). Invece, i giudici onorari (non togati), pari al 47,40% del numero complessivo, sono composti da: 336 pensionati (anche della Guardia di Finanza, il 24,01%), 375 avvocati (il 26,90%), 138 commercialisti (il 9,9%), 190 vengono dal pubblico impiego (il 13,6%) e 357 da altre professioni, per esempio periti agrari, agronomi e agrotecnici (il 25,60%).

Nelle commissioni tributarie giudicano soltanto 138 commercialisti (pari al 9,9% dei giudici onorari e al 4,70% di tutti i giudici tributari). Questi ultimi non esercitano la professione. L’altra lamentela che spesso portano i commercialisti è quella di avere dall’altra parte figure che non hanno sufficiente preparazione in una materia assai complessa come il diritto tributario: la maggior parte delle cause è al di sotto dei 30.000 euro e può essere trattata da giudici onorari che spesso non hanno una formazione specifica. Questo è dovuto al fatto che quando gli importi sono molto alti al contribuente conviene quasi sempre cercare la mediazione.

L’ultimo anno, che secondo i dati del MEF ha visto un crollo delle controversie presentate (dalle 210.399 del 2018 alle 151.317 del 2020), ha visto però ulteriori rallentamenti causa COVID-19. Molti tribunali non erano attrezzati per le udienze da remoto, cosa che ha provocato il disappunto e le proteste di molti difensori. Per protesta una commercialista, come requisitoria, ha addirittura mandato un video YouTube in Cassazione, altro punto debole dal momento che rappresenta il vero collo di bottiglia dove i processi si fermano per anni.

Per questi motivi tra i primi obiettivi del governo Draghi c’è stata l’elaborazione di una riforma della magistratura tributaria. Non è la prima volta che ci si prova, ma finora tutti i tentativi si sono arenati. Del resto, di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno.

Photo credits: quora.com

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