“Visite mediche usate come punizioni”: forze dell’ordine in crisi sulla salute mentale

Gli operatori della sicurezza sono esposti a numerosi traumi, ma faticano a trovare aiuto psicologico: spesso gli psicologi interni alle forze dell’ordine sono colleghi e superiori, e le dinamiche negative sono molteplici. L’esperienza di alcuni militari e di chi si occupa del loro benessere mentale

17.01.2024
La salute mentale delle forze dell'ordine è in crisi: un carabiniere in penombra

Nelle scorse puntate di questo filone abbiamo parlato della piaga dei suicidi che colpisce le forze armate, dell’ordine e della sicurezza italiane, una tragedia che vede numeri preoccupanti e un trend in crescita negli ultimi anni. Tante sono le associazioni, le sigle sindacali e i singoli operatori che in questi anni si sono esposti per chiedere l’istituzione di una Commissione parlamentare apposita per indagare il fenomeno – richiesta che è stata di recente accolta e presentata alla Camera dalla deputata Stefania Ascari del Movimento Cinque Stelle – e maggiore attenzione al tema della salute mentale degli uomini e delle donne in divisa, troppo spesso sottovalutato o dimenticato.

La delicata complessità del lavoro svolto dalle forze armate e dell’ordine pone infatti spesso la persona di fronte a momenti di forte stress emotivo. Eventi come il rilevamento di un incidente stradale mortale, l’intervento per TSO, il suicidio di un collega, l’intervento di soccorso in una maxi-emergenza possono essere vissuti come traumi, anche dal personale più esperto. In questi casi, esiste la possibilità di attivare un intervento post evento critico di servizio o, se l’operatore lo ritiene necessario, un percorso di psicoterapia.

CerchioBlu APS e la tutela della salute mentale delle forze dell'ordine

Esistono associazioni che offrono questi servizi a prezzi calmierati o con modalità favorevoli per i propri soci. CerchioBlu APS è una di queste: si tratta di un’associazione che si occupa di gestione delle situazioni critiche in emergenza, di comunicazione durante la crisi, di gestione dello stress degli operatori e del loro supporto psicologico, dell’assistenza delle vittime di eventi traumatici, di etica di polizia, della formazione di team di peer supporter in polizia, di etica della polizia, di programmi di supporto e prevenzione del suicidio.

CerchioBlu mette inoltre a disposizione dei corpi di polizia la sua rete nazionale di psicologi, che copre buona parte delle Regioni italiane e può rispondere alla richieste di sostegno psicologico dei singoli operatori, delle amministrazioni di polizia e dei famigliari delle vittime di eventi traumatici.

“I nostri psicologi e psicoterapeuti sono disponibili ad attivare percorsi di psicoterapia o sostegno psicologico individuale o di coppia a operatori dell’ordine, dell’emergenza o della sicurezza (Polizia di Stato e Polizia locale, Carabinieri, Polizia penitenziaria, Guardia di Finanza), ai loro famigliari o ai parenti delle vittime di incidenti stradali mortali o gravi. Il percorso di psicoterapia è offerto a prezzi agevolati ai soci dell’Associazione, mentre i primi tre incontri sono gratis”, spiega Roberto Dosio, membro del direttivo di CerchioBlu.

“Questa tipologia di soggetti ha un filo rosso che li collega tutti quanti”, dice Dosio. “Il suicidio è il fenomeno più lampante, ma ci sono molti problemi. Il benessere di tutti i lavoratori, soprattutto di chi lavora in emergenza e in strutture fortemente gerarchizzate dove ci sono dinamiche più ferree, necessita di essere messo in luce”.

Suicidi in divisa, i dati dell'osservatorio indipendente

CerchioBlu ha attivato anche l’Osservatorio Nazionale dei Suicidi nelle Forze dell’Ordine, noto come ONSFO, un progetto che si propone di raccogliere informazioni sui casi di suicidio tra gli appartenenti alle forze di polizia italiane attraverso un team di ricerca e fonti aperte, segnalazioni e dati ufficiali. Vengono esclusi i casi di personale in congedo o in pensione, nonché gli appartenenti alle forze armate tradizionali e ad altre organizzazioni pubbliche o private, come vigili del fuoco o guardie giurate. L’Osservatorio ONSFO di CerchioBlu APS ha raccolto, elaborato e interpretato i dati riferibili ai suicidi nelle forze di polizia italiane dal 2014 al 2022.

In questo arco di tempo, l’ONSFO ha registrato un totale di 406 casi di suicidio tra gli appartenenti alle forze di polizia italiane. Il numero più alto di suicidi si è verificato nei Carabinieri con 125 casi (il 30% del totale, quasi uno su tre), seguiti dalla Polizia di Stato con 117 casi, dalla Polizia Penitenziaria con 57 casi, dalla Polizia Locale con 55 casi e dalla Guardia di Finanza con 52 casi. Inoltre, sono stati registrati 20 casi di omicidio-suicidio, quasi tutti per mano maschile (19 su 20).

A partire dal 2019, il trend dei suicidi ha iniziato ad aumentare. Nel 2014 sono stati registrati 45 casi di suicidio, un numero che è rimasto relativamente stabile negli anni successivi, con 34 casi nel 2015, 43 nel 2016, 41 nel 2017 e 37 nel 2018. Tuttavia, a partire dal 2019, i tassi di suicidio tra le forze di polizia italiane hanno iniziato a salire, raggiungendo 59 casi nel 2019, 45 nel 2020, 53 nel 2021 e 49 nel 2022.

Nel 77,8% dei casi il suicidio è stato compiuto utilizzando un’arma d’ordinanza. Le elaborazioni statistiche mostrano che gli uomini delle forze di polizia sono più propensi a utilizzare le armi d’ordinanza per suicidarsi rispetto alle donne: l’82,5% dei primi contro il 65,5% delle seconde. È importante poi notare che nel 13,8% dei casi di suicidio tra le donne delle forze di polizia, la causa è stata la precipitazione.

Il suicidio tra le donne appartenenti alle forze di polizia è un fenomeno preoccupante che merita attenzione. Questo può essere causato da diversi fattori tra cui lo stress lavorativo, i problemi di salute mentale o relazionali e le difficoltà economiche, ma anche da fenomeni peculiari come la discriminazione di genere e le molestie sessuali sul posto di lavoro.

Per quanto riguarda il luogo in cui si sono verificati i casi di suicidio, il 32,8% è stato commesso in un luogo di lavoro, il 29,4% in abitazione, il 13,1% in luogo pubblico e l’11% in auto privata. Questi dati mostrano che il suicidio tra gli appartenenti alle forze dell’ordine può verificarsi in diversi luoghi e in diversi momenti, e che quindi è importante avere un sistema adeguato di supporto alla salute mentale e di prevenzione al suicidio, sia sul posto di lavoro che fuori.

Parlando invece dell’età, la maggior parte degli operatori di polizia che si sono suicidati erano nella fascia d’età dai 45 ai 64 anni, con una percentuale del 57,3%. Segue la fascia 25-44 anni (29,4%). Il fenomeno è meno diffuso tra i più giovani (18-24 anni), che registrano una percentuale dell’1,5%. I dati mostrano inoltre che, all’aumentare dell’età, corrisponde un aumento dei casi di suicidio.

Le età dei suicidi in divisa (fonte: Osservatorio Nazionale dei Suicidi nelle Forze dell'Ordine.

La maggior parte dei suicidi si consuma nel Nord Italia (39,3%); seguono il Centro (23,7%), il Sud (18,8%) e le isole (12,3%). Le province con il numero più alto di casi di suicidio sono quelle del Lazio e della Lombardia, con 49 e 44 casi rispettivamente.

L’arma d'ordinanza come strumento di potere e come peso

“Il fenomeno è molto complesso. I fattori in gioco sono tanti, sia individuali che sociali, e non esistendo un archivio pubblico ufficiale i dati variano in base alle fonti”, dice Stefania Bartoli, psicologa, psicoterapeuta, vicepresidente dell’Associazione CerchioBlu APS e coordinatrice della rete nazionale dell’Associazione degli psicologi CerchioBlu.

“Le problematiche più frequenti che riscontriamo sono il mancato riconoscimento da parte dei cittadini della pericolosità e dell’importanza di chi svolge questo lavoro, il non sentirsi abbastanza ascoltati, valorizzati e gratificati dai superiori. Si tratta di una professione particolare, in cui viene richiesto al soggetto un livello di attenzione molto alto, un sistema di allerta sempre elevato e uno sforzo di resistenza più grande rispetto ad altri lavori. In un contesto così difficile e stressante, l’arma d’ordinanza rappresenta quindi un potere e un peso allo stesso tempo. Averla a portata di mano rende più semplice compiere il gesto estremo verso se stessi o altri soggetti, in caso di disagio psichico grave. L’aspetto che mi colpisce di più – sottolinea Bartoli – è che gli operatori che soffrono di più sono quelli che tengono di più al loro lavoro.”

“Come associazione siamo chiamati abbastanza di frequente dalle forze di polizia per attuare un debriefing psicologico, ossia un intervento di decompressione che viene attivato a seguito di un evento critico come la morte di un collega o un incidente con minori feriti o morti, per cercare di ridurre l’insorgere di disturbi post traumatici. Offriamo inoltre ai soci la possibilità di rivolgersi a uno psicoterapeuta esperto per colloqui privati o la creazione di gruppi di peer supporter (supporto tra pari, N.d.R.): insegniamo, cioè, agli agenti di polizia a riconoscere i segnali di un certo disagio emotivo in se stessi o nei colleghi, sempre sotto la supervisione di nostri esperti della salute mentale. Anche se con fatica, la psicologia sta entrando in questo ambito, perché ci si sta finalmente rendendo conto della sua importanza. Di sicuro rispetto a dieci anni fa le cose sono migliorate, ma la strada è ancora lunga”, conclude Bartoli.

“Destituito senza diritto alla pensione. Anch’io ho pensato al suicidio”: il caso di Giuseppe Fornaro

Giuseppe Fornaro è stato maresciallo capo per trentadue anni. Nel 2007 è finito sotto inchiesta per una denuncia a suo carico ed è stato giudicato colpevole dal Tribunale. Da quel momento ha smesso di lavorare: “Sono stato abbassato di grado e destituito senza diritto alla pensione. Vivo con la pensione di mamma novantunenne, invalida permanente, perché se no non saprei come campare a 57 anni”, racconta.

“In alcuni momenti è passato anche a me per la testa il pensiero di compiere un gesto estremo.

Quello che mi fa rabbia è che fino a oggi nessuno si è mai interessato nel concreto a questi tristi episodi. Sono molto deluso dal nostro apparato amministrativo e giudiziario. Sono stato denigrato e buttato in mezzo a una strada come una scarpa rotta. Trovo giusto che nel nostro lavoro esista una certa disciplina militare, il problema è il modo in cui questa viene utilizzata da molti superiori, che la applicano solo come arma per fare carriera e distruggere quella degli altri. Io, ad esempio, sono stato punito per dei fatti che non avevo commesso. Questo perché chi ha proceduto in tal senso aveva la necessità di trovare per forza un colpevole. Non importava chi fosse.”

Lo stress in ambito lavorativo è molto alto e per Fornaro il sostegno che ricevono gli operatori è inadeguato. “Quando ho avuto un momento di debolezza, durante il quale non sono riuscito a operare, mi hanno mandato in visita psichiatrica e mi hanno tolto anche la pistola, se non che la commissione medica ha dato poi parere negativo, sostenendo che il comandante non avesse capito nulla. In seguito, però, ho dovuto affrontare altri test psicoattitudinali, che hanno confermato la mia stabilità mentale, mentre l’ufficiale che mi ha causato tutto questo ha fatto carriera”.

Per Fornaro il problema è costituito anche da chi svolge questi esami psicologici. L’ordinamento militare prevede infatti che i medici e gli psicologi presenti all’interno delle forze dell’ordine appartengano a questi corpi: “In pratica sono dei superiori che fanno gli interessi della categoria. Non esiste privacy su quello che gli viene riferito. Per questo motivo col tempo ho imparato a contare solo sulle mie capacità, perché nessuno ti aiuta nel nostro ambiente”.

Alfonso Montalbano, USMIA: “Ci insegnano come aiutare gli altri, quasi mai come chiedere aiuto”

Per Alfonso Montalbano, segretario nazionale di USMIA (Unione Sindacale Militari Interforze Associati), la paura degli operatori a chiedere un supporto psicologico era un problema che esisteva fino a qualche anno fa: “Prima queste valutazioni non venivano fatte da personale altamente qualificato e specializzato. Oggi, invece, si tratta di psicologi professionisti che riescono da subito a cogliere il disagio degli operatori. Solo in pochi casi si procede con il ritiro del tesserino e la messa in malattia del soggetto. In parte, però, è vero che resiste ancora un retaggio culturale in merito ai problemi di salute mentale, che dobbiamo assolutamente sconfiggere”.

Ogni comando di corpo ha dei professionisti in sede a cui i colleghi si possono rivolgere, ma questo non basta per Montalbano. “Come USMIA Carabinieri chiediamo che questi professionisti diventino itineranti: ad esempio, se io presto servizio a Ragusa, il primo psicologo disponibile è a Palermo, che è a tre ore di distanza, e per questo difficilmente ne usufruirò. Noi auspichiamo una collaborazione tra le AUSL (Aziende Unità Sanitarie Locali) e gli psicologi dell’arma dei Carabinieri, grazie alla quale i nostri psicologi possono appoggiarsi alle AUSL locali, così da evitare ai carabinieri di affrontare spostamenti troppo lunghi e impegnativi”.

Secondo Montalbano, l’appartenente alle forze dell’ordine ha spesso timore a chiudere aiuto perché “a noi insegnano come aiutare le altre persone, ma quasi mai come chiedere aiuto per noi stessi. Purtroppo il nostro lavoro quotidiano ci può portare a vedere la parte più brutta della società, che in parte finiamo per assorbire. È giusto riversarlo su qualcuno; spesso, però, nessuno di noi riceve le modalità giuste per farlo. L’amministrazione ha fatto tantissimo negli ultimi anni, per esempio facendo arruolare professionisti psicologici e attivando convenzioni con l’Università degli Studi di Tor Vergata di Roma per un servizio health disponibile h24, ma il problema ancora esiste. Noi come sigla sindacale abbiamo una accordo con degli psicologi convenzionati, secondo il quale i primi incontri sono gratuiti e i successivi a tariffe agevolate. Si tratta di un servizio di cui possono usufruire sia i nostri associati sia i loro famigliari”.

Le visite mediche usate come punizione disciplinare

“Il Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare (TUOM) prevede che ciascun militare è tenuto a preservare la sua idoneità psicologica”, afferma Alessandra D’Alessio, psicoterapeuta e psicologa forense, attualmente responsabile dell’area di psicologia militare del CIS.Mil (Centro Interforze Studi Militari), “ma questo viene poi lasciato a sé stesso perché non esiste un protocollo da seguire. Ogni corpo ha le sue regole, ma tutti sono accomunati dal fatto che i professionisti messi a disposizione dei militari hanno le stellette, ovvero sono degli ufficiali, spesso loro superiori, che hanno l’obbligo di relazione sullo stato di salute del paziente, e quindi devono informare l’Amministrazione, laddove dovrebbe invece esserci l’anonimato”.

Uno degli articoli più discussi del regolamento di servizio della Polizia di Stato è l’art. 48 del dPR 782/85, che prevede il ritiro all’operatore di manette, tesserino e pistola, da poco modificato con l’aggiunta dell’art. 48-bis, in vigore dal 24 giugno scorso, che definisce le modalità di impiego in servizio del personale che versi in condizioni di malessere psico-sociale. Con l’introduzione della nuova fattispecie, il personale interessato potrà essere impiegato, per un periodo circoscritto di tempo, in servizi interni e non operativi, che non presuppongano l’impiego di armi, in modo da svolgere attività lavorative compatibili con la propria condizione, evitando l’applicazione della misura più gravosa dell’art. 48.

“Togliere l’arma e il tesserino a queste persone significa privarle della loro identità. Quello già di per sé costituisce un trauma e dà un esito patologico, anche se di natura non reattiva”, sostiene D’Alessio.

“Gli operatori sono lasciati spesso soli. Ciascuno fa da sé. Chi riesce a superare dei traumi lo fa in autonomia e se ha le risorse economiche per rivolgersi in privato a un professionista lo fa, altrimenti finisce in un vero e proprio girone infernale”. Per D’Alessio, come sostiene anche Fornaro, “la spedizione in infermeria di un militare rappresenta oggi una sorta di punizione disciplinare, soprattutto nell’Arma dei Carabinieri.

Sempre a conferma di quanto detto da Fornaro e da altre testimonianze che abbiamo raccolto in questi mesi, la psicologa sottolinea come “Le relazioni di tipo gerarchico contribuiscano a creare un ambiente di lavoro ostile. Non a caso in questo ambiente la sofferenza si trova ai livelli più bassi delle gerarchie, mentre nel mondo civile lo troviamo spesso nella dirigenza. Quelli che si suicidano sono effettivamente i soggetti più soli, privi di un contesto che li possa sostenere. I continui trasferimenti e le turnazioni estenuanti non aiutano poi a instaurare relazioni sociali al di fuori del lavoro. Le sole realtà che si stanno battendo per loro al momento sono i sindacati di categoria, che rappresentano la loro unica ancora di salvezza”.

Anche per D’Alessio, come per Montalbano, la soluzione a questa situazione drammatica potrebbe essere nell’ideazione di “un pacchetto annuo con psicologi convenzionati che garantiscano la privacy agli operatori. Solo così si può fare vera prevenzione”.

 

 

 

Photo credits: lacnews24.it

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