“Il Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare (TUOM) prevede che ciascun militare è tenuto a preservare la sua idoneità psicologica”, afferma Alessandra D’Alessio, psicoterapeuta e psicologa forense, attualmente responsabile dell’area di psicologia militare del CIS.Mil (Centro Interforze Studi Militari), “ma questo viene poi lasciato a sé stesso perché non esiste un protocollo da seguire. Ogni corpo ha le sue regole, ma tutti sono accomunati dal fatto che i professionisti messi a disposizione dei militari hanno le stellette, ovvero sono degli ufficiali, spesso loro superiori, che hanno l’obbligo di relazione sullo stato di salute del paziente, e quindi devono informare l’Amministrazione, laddove dovrebbe invece esserci l’anonimato”.
Uno degli articoli più discussi del regolamento di servizio della Polizia di Stato è l’art. 48 del dPR 782/85, che prevede il ritiro all’operatore di manette, tesserino e pistola, da poco modificato con l’aggiunta dell’art. 48-bis, in vigore dal 24 giugno scorso, che definisce le modalità di impiego in servizio del personale che versi in condizioni di malessere psico-sociale. Con l’introduzione della nuova fattispecie, il personale interessato potrà essere impiegato, per un periodo circoscritto di tempo, in servizi interni e non operativi, che non presuppongano l’impiego di armi, in modo da svolgere attività lavorative compatibili con la propria condizione, evitando l’applicazione della misura più gravosa dell’art. 48.
“Togliere l’arma e il tesserino a queste persone significa privarle della loro identità. Quello già di per sé costituisce un trauma e dà un esito patologico, anche se di natura non reattiva”, sostiene D’Alessio.
“Gli operatori sono lasciati spesso soli. Ciascuno fa da sé. Chi riesce a superare dei traumi lo fa in autonomia e se ha le risorse economiche per rivolgersi in privato a un professionista lo fa, altrimenti finisce in un vero e proprio girone infernale”. Per D’Alessio, come sostiene anche Fornaro, “la spedizione in infermeria di un militare rappresenta oggi una sorta di punizione disciplinare, soprattutto nell’Arma dei Carabinieri.
Sempre a conferma di quanto detto da Fornaro e da altre testimonianze che abbiamo raccolto in questi mesi, la psicologa sottolinea come “Le relazioni di tipo gerarchico contribuiscano a creare un ambiente di lavoro ostile. Non a caso in questo ambiente la sofferenza si trova ai livelli più bassi delle gerarchie, mentre nel mondo civile lo troviamo spesso nella dirigenza. Quelli che si suicidano sono effettivamente i soggetti più soli, privi di un contesto che li possa sostenere. I continui trasferimenti e le turnazioni estenuanti non aiutano poi a instaurare relazioni sociali al di fuori del lavoro. Le sole realtà che si stanno battendo per loro al momento sono i sindacati di categoria, che rappresentano la loro unica ancora di salvezza”.
Anche per D’Alessio, come per Montalbano, la soluzione a questa situazione drammatica potrebbe essere nell’ideazione di “un pacchetto annuo con psicologi convenzionati che garantiscano la privacy agli operatori. Solo così si può fare vera prevenzione”.
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