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Il Jobs Act? Promosso con riserva
Sono passati tre anni dall’entrata in vigore del Jobs Act, la riforma del lavoro che ha introdotto numerose novità nel mercato occupazionale. Su tutte spicca la nascita del cosiddetto contratto a tutele crescenti, una nuova tipologia contrattuale che di fatto ha superato il classico “indeterminato”, nata con l’obiettivo di creare maggiore stabilità nel mondo del […]
Sono passati tre anni dall’entrata in vigore del Jobs Act, la riforma del lavoro che ha introdotto numerose novità nel mercato occupazionale. Su tutte spicca la nascita del cosiddetto contratto a tutele crescenti, una nuova tipologia contrattuale che di fatto ha superato il classico “indeterminato”, nata con l’obiettivo di creare maggiore stabilità nel mondo del lavoro attraverso gli sgravi fiscali concessi alle aziende per le nuove assunzioni, di giovani e non solo.
In parallelo a un’assunzione più agevole si è però accompagnata, almeno sulla carta, una disposizione altrettanto agevole relativa ai criteri di licenziamento, vista l’abolizione del tanto dibattuto articolo 18, introdotto dallo Statuto dei lavoratori con l’obiettivo di tutelare dal licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio. Da qui le numerose dispute che si sono susseguite nel tempo, fino alla recente campagna elettorale, in cui il lavoro non poteva ovviamente mancare e il Jobs Act è stato più volte citato come strumento “salvifico” o come una rovina a seconda degli schieramenti politici e delle opportunità.
Il Jobs Act, tirando le somme. Parla Francesco Seghezzi
A questo punto è lecito domandarselo: al di là degli slogan e dei punti di vista, oggi il Jobs Act è promosso o bocciato?
Ne abbiamo parlato con Francesco Seghezzi, direttore di Adapt, fondazione creata da Marco Biagi specializzata sui temi del lavoro, con il quale abbiamo fatto un bilancio relativo ai punti salienti della normativa.
“Il Jobs Act è una normativa complicata ed eterogenea, i cui temi principali possono essere individuati nel contratto a tutele crescenti e nella decontribuzione che ha accompagnato le assunzioni. Dati alla mano, da metà del 2014 al 2017 la decontribuzione ha portato circa 900mila nuovi posti di lavoro”. Parallelamente, continua Seghezzi, “La disoccupazione si è abbassata di almeno 2,3 punti percentuali e un calo significativo è stato quello degli inattivi, ossia coloro che non lavorano e non sono in cerca di un’occupazione, diminuiti di circa 300mila unità”.
A un primo sguardo si tratta di numeri positivi, che fotografano una crescita in parte legata alla decontribuzione, e quindi al Jobs Act, ma riconducibile anche a fattori più ampi. Come sottolinea Seghezzi: “La fine della crisi economica ha portato le aziende a investire di nuovo”.
Tuttavia è necessario fare delle riflessioni: “Dei 900mila nuovi posti, il 55% è a tempo determinato, il 45 a tempo indeterminato. C’è quindi una maggiore prevalenza dei contratti a tempo determinato, che va di pari passo con la diminuzione degli incentivi per i contratti a tempo indeterminato”, spiega Seghezzi.
Quella degli incentivi rappresenta quindi una discriminante fondamentale: se il 2015 ha visto un boom del contratto a tutele crescenti, appena istituito, l’anno successivo si è assistito a un ridimensionamento, sia in termini di importo massimo sia di durata, dello sgravio fiscale (da tre anni a due). Parallelamente si è registrata una crescita dei contratti a tempo determinato e di altre tipologie come l’apprendistato, per il quale sempre la normativa introdotta dal Governo Renzi aveva stabilito degli incentivi per le aziende e ampliato le tipologie presenti.
Il tempo dei contratti: sempre più determinato
Le nuove disposizioni sembrano andare in una direzione ancora più restrittiva per il contratto a tutele crescenti: con l’attuale Finanziaria si è passati infatti da una decontribuzione totale a una parziale per tre anni fino a un massimo di 3mila euro l’anno, valida al momento per gli under 35 e, a partire dal prossimo anno, solo per gli under 29. Inoltre, per beneficiare dello sgravio è necessario non essere mai stati assunti con un contratto a tempo indeterminato, mentre la precedente disposizione parlava solo di un arco temporale limitato ai mesi precedenti la nuova assunzione.
“Queste evidenze ci portano a dire che sicuramente la decontribuzione ha portato a stabilizzare molti contratti, ma non possiamo dire altrettanto del fatto che il Jobs Act abbia contribuito all’inversione di tendenza, cioè far diventare il contratto a tutele crescenti la principale forma di accesso al mercato del lavoro, in quanto sono aumentati i contratti a termine, che hanno continuato a mantenere delle agevolazioni.”
“Questo elemento ci consente di dare un giudizio più ampio: il Jobs Act inizialmente rivendicava la fine del mito del posto fisso, togliendo l’articolo 18 e sperando con le politiche attive di aumentare la possibilità di trovare nuovi lavori. Successivamente è stato sottolineato come l’obiettivo fosse invece la stabilità, rappresentata dal contratto a tempo indeterminato. In realtà, appena è venuta meno la ‘droga’ degli incentivi, i numeri di questo tipo di contratto sono diminuiti, il che dimostra che l’obiettivo non è stato completamente raggiunto. Allo stesso tempo sul fronte delle politiche attive, fortemente caldeggiate dal Governo Renzi, non sono stati ottenuti i risultati sperati”, spiega Seghezzi.
Il lavoro low cost
In sostanza, il contratto a tutele crescenti ha portato all’affermazione di quello che potremmo chiamare “lavoro low cost”, simboleggiato dalla formula “ti assumo perché mi costi poco”.
Di Jobs Act in campagna elettorale si è parlato tantissimo e in vario modo: “È ovvio – continua Seghezzi – che tutti coloro che non ne hanno beneficiato (abbiamo ancora 3 milioni di disoccupati) non ne abbiano parlato bene e si siano sentiti tagliati fuori. Da qui l’appoggio a differenti forme di sostegno economico, come il reddito di cittadinanza, altro protagonista della scorsa campagna elettorale”.
Al momento non è semplicissimo tracciare gli scenari futuri, complice anche la situazione politica incerta e le tante possibili strade che potrebbero aprirsi in materia di politiche del lavoro. Fatto sta che quella del Jobs Act, al momento è una promozione con riserva: da un lato ha sicuramente contribuito a ridurre la disoccupazione, dall’altro ha dato l’impressione di essere una riforma non attuata in tutti i suoi aspetti, o quantomeno bisognosa del supporto di politiche e scelte più ampie per consolidare i suoi effetti nel tempo.
Photo by Francesco Pierantoni [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr
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