Lavoro carcerario: quanto guadagnano, quanti pregiudizi

Altro che a spese nostre: i detenuti pagano il loro soggiorno in carcere e hanno un conto interno al loro istituto. E il lavoro diventa un bene a cui non tutti riescono ad accedere.

Quante sono le persone in carcere e quante di loro riescono a lavorare per pagarsi il mantenimento nell’istituto penitenziario?

Gli ultimi dati ci dicono che oggi le persone nelle carceri italiane sono 53.509 e tra queste i lavoratori sono 17.937. La stragrande maggioranza (15.746 persone) è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e svolge attività per il funzionamento dell’istituto stesso, per cui sarebbe più corretto definirli “lavoranti” (come si dice dentro) piuttosto che “lavoratori”. La figura forse più conosciuta è quella dello spesino (chi prende le ordinazioni di sopravvitto per gli altri detenuti), ma ci sono anche gli addetti alla cucina, alla lavanderia, alle pulizie, i portavitto e i magazzinieri.

Sono invece 2.191 le persone in carcere che lavorano per datori di lavori esterni.

Il lavoro carcerario, questo sconosciuto

Questi sono i dati ufficiali, forniti e pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia, a cui tutti possono accedere. Questi dati non ci dicono però che cosa significa davvero lavorare in carcere; non ci dicono quali sono le dinamiche e i rapporti che si creano in questo mondo, che per i non addetti ai lavori è totalmente sconosciuto.

Neanch’io ne sapevo nulla prima di entrare a Regina Coeli come fisioterapista a disposizione del Servizio Sanitario Nazionale. Solo dopo aver conosciuto il carcere lavorando al suo interno ho deciso di impegnarmici, e successivamente ho lasciato anche la professione. Dal 2013 presiedo “Semi di Libertà”, una onlus la cui mission è contrastare la recidiva delle persone in esecuzione penale attraverso il lavoro e la formazione. Siamo partiti con un piccolo progetto che però ha fatto molto rumore, il birrificio artigianale “Vale la pena”, e sull’onda abbiamo avviato anche il progetto di Economia Carceraria, una piattaforma che riunisce e promuove i prodotti che vengono realizzati nelle carceri di tutta Italia.

Questo mondo è sconosciuto perché è assai poco popolare, anzi è quanto di più impopolare c’è in Italia in questo momento, ma al di là di alcune affermazioni politiche e prettamente strumentali, oggi sappiamo che non è sbattendo le persone là dentro e disumanizzando la pena che si risolve il problema della criminalità.

Com’è il carcere visto dall’interno

Vivere in carcere è un’esperienza spesso violenta, al di là di ogni immaginazione, anche se la percezione che abbiamo noi italiani è di persone che passano la giornata a guardare la televisione, mangiando tre volte al giorno a spese nostre. Il carcere è una realtà misconosciuta, se ne parla per stereotipi; fa notizia soltanto la cronaca, ma nessuno sa veramente quello che succede lì dentro. Non viene comunicato, neanche quando c’è del buono da raccontare. Le notizie che i media diffondono riguardano sempre e solo il sovraffollamento e i suicidi al suo interno. In pochissimi, ad esempio, sanno che il mantenimento della struttura carceraria non è tutto a carico dello Stato: vitto e alloggio non sono gratis, anzi la permanenza in carcere si paga.

Il mantenimento della persona in carcere ha un costo di circa 150 euro al mese (dipende dalle carceri), e se si sconta una pena molto lunga, senza riuscire a essere inserito in un percorso lavorativo, il detenuto può uscire dal carcere con un debito molto alto nei confronti dello Stato.

Ci è capitato in passato di voler assumere un ex detenuto, ma nel momento di firmare il contratto lui ci ha chiesto di non essere regolarizzato. Voleva essere pagato in nero, perché una volta assunto lo Stato gli avrebbe pignorato i soldi per pagare il suo debito. Purtroppo questi sono circoli viziosi che generano altra illegalità e che si possono interrompere solo con il lavoro dentro e fuori dal carcere.

Dove vanno i soldi dei detenuti: ognuno di loro ha un conto interno al penitenziario

Anche perché il lavoro, oltre a dare dignità e far trascorrere il tempo in maniera più produttiva, permette di fare un minimo di spesa per integrare la mensa, che ha una qualità davvero troppo bassa. Basti pensare che in Italia le aziende che vincono le gare d’appalto spendono meno di 5 euro al giorno per tutti e tre i pasti.

I detenuti possono fare una spesa a parte che si chiama “sopravvitto”: passa lo spesino a prendere le ordinazioni (non si può ordinare tutto, ma si può integrare la spesa con pasta, tonno, olio, zucchero e farina) e il costo di questa spesa viene scalato dal conto del detenuto, anche perché in carcere ovviamente non è lecito far girare soldi.

Anche questo è un aspetto non conosciuto ai più: ogni detenuto (che ha la disponibilità di avere soldi) ha un conto all’interno dell’istituto penitenziario. Se il detenuto lavora per una ditta esterna gli viene pagato lo stipendio sul conto dell’istituto, e allo stesso tempo se vuole da lì può mandare soldi alla famiglia. L’evento della carcerazione in un nucleo famigliare è sempre drammatico per tutti, soprattutto per i figli, ma anche per la moglie o il marito. Le famiglie si disgregano, e mandare i soldi a casa è un modo per riconciliare e ricostruire e vivere la pena in maniera più dignitosa.

Quanto guadagna un detenuto che lavora per il penitenziario?

Come ci dicono i dati, la stragrande maggioranza dei detenuti che lavorano in carcere sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Le attività richieste permettono di guadagnare qualcosa e di pagare qualche spesa, ma non possono essere considerate attività professionali perché i lavori proposti sono semplicemente quelli che servono per far andare avanti la struttura e sono indicati con dei nomignoli ufficiali, come quello già citato dello spesino.

I detenuti vengono pagati direttamente dall’amministrazione penitenziaria, e fino a pochi anni fa queste persone guadagnavano cifre davvero irrisorie; circa 30 euro al mese. Poi c’è stata una serie di ricorsi e riforme e il compenso è aumentato, ma oggi siamo nell’ordine dei 150/200 euro al mese (anche se ci sono strutture che arrivano a 600 euro), mentre il carcere costa al detenuto circa 150 euro al mese (in media 3,5 euro al giorno, ma dipende dagli istituti carcerari).

C’è lo spesino, c’è lo scopino, c’è quello che scrive le domandine (domande da compilare) per gli analfabeti, c’è il cuciniere. Il punto è che sono professioni che al di fuori del carcere non esistono, e quindi non hanno nessuna spendibilità all’esterno. Sono attività utilissime perché rappresentano un’entrata, aiutano a far passare il tempo e incidono sulla dignità delle persone, ma hanno il limite che non offrono prospettive per il futuro.

Le esperienze di lavoro professionalizzanti e la necessità di un ponte con l’esterno

Se invece in carcere il detenuto riesce a trovare un percorso lavorativo valido con aziende esterne (cosa che non è ancora la norma, ma che grazie all’impegno di alcune persone del dipartimento di amministrazione penitenziaria oggi succede) la questione cambia molto.

Oggi i detenuti assunti da datori di lavoro esterni hanno contratti regolari e stipendi magari non perfettamente in linea con quelli del mercato, ma sicuramente più remunerativi di quelli di chi lavora per l’amministrazione penitenziaria. Le difficoltà sono tante, anche perché bisogna fare i conti con tutte le questioni di sicurezza, però quelli proposti dagli esterni sono lavori professionalizzanti che sono utili anche fuori dal carcere.

In questi casi, e anche nel caso in cui il detenuto sia a fine pena e riesca ad avere i permessi per lavorare all’esterno, la situazione è molto diversa. Però anche tutto questo percorso ha un grosso limite: si può imparare un mestiere in carcere, farlo bene, con impegno e passione, ma quando si esce si perde tutto. Magari un detenuto è diventato un pasticcere bravissimo, ma il curriculum non basta quasi mai per vincere lo stigma: la prima cosa che il datore di lavoro nota è che “è in carcere che ha imparato a fare i biscotti” e non lo assume. La diffidenza, del resto, è comprensibile.

Il ponte con l’esterno è fondamentale per creare inclusione. Sono ancora pochi i casi delle imprese che danno lavoro dentro il carcere e riescono a far proseguire il percorso anche dopo che la persona è libera, ma esistono. La legge Smuraglia defiscalizza il lavoro fino a diciotto mesi dopo la fine della pena, e questo è un grande incentivo.

Ad esempio: “Le Lazzarelle” a Napoli hanno una torrefazione dentro il carcere femminile di Pozzuoli, e ora hanno aperto un bistrot all’esterno, un luogo che può fare da ponte tra dentro e fuori, ma con possibilità limitate (si parla di due o tre persone). Poi al Malaspina, il carcere minorile di Palermo, c’è il progetto “Cotti in fragranza”: si producono biscotti all’interno del carcere, ma è stato aperto anche un bistrot all’esterno e sono state avviate anche attività di ricezione turistica. Poi, grazie all’impegno di alcune persone del dipartimento penitenziario, oggi si sta incentivando l’ingresso di grandi aziende e cooperative all’interno del carcere.

Tutti si rendono conto che insegnare e formare i detenuti è giusto, perché il lavoro abbassa enormemente il tasso di recidiva e ne guadagna tutta la società civile, ma bisogna lavorare tanto anche per dare seguito alla formazione all’esterno, perché la fedina penale rimane e rimarrà sempre un grande deterrente.

In copertina, produzione di borse nel carcere di Porto Azzurro

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