
Educarne uno per salvarli tutti: la sicurezza sul lavoro è anche una questione di cultura – e di formazione. Parliamo di safety leadership con l’avvocato e mediatore Andrea Buti e Stefano Pancari di Rock’n’Safe.
I dati dei rapporti Censis-UGL e INAPP fotografano un quadro non lusinghiero: troppo poche lauree STEM. Ma non è l’università il tipo di formazione che si incrocia meglio con il lavoro
L’analisi di Eurostat risuona ormai dal 2021 come un lugubre monito alle ambizioni culturali italiane: penultimo posto nella classifica dei laureati, con una percentuale complessiva inferiore al 30%; un gradino sopra la Romania e parecchio distanti da altre realtà ex sovietiche come Ungheria, Bulgaria e Repubblica Ceca. Facile intuire, quindi, che una delle cause del problema evolutivo insito nel mercato del lavoro italiano sia da indagare nella carenza di volenterosi studenti universitari.
E invece no, la realtà è un’altra.
È quel che emerge in proposito dal rapporto Censis-UGL, Tra nuove disuguaglianze e lavoro che cambia: quel che attende i lavoratori, presentato in occasione della festa del Primo maggio.
La differenza tra il livello di studi raggiunto e il lavoro svolto, infatti, in Italia riguarda un lavoratore su quattro, e coinvolge il 37,5% della fascia tra i 25-34 anni e il 44,3% tra chi ha meno di 25 anni. A questo si aggiunge il tasso di disoccupazione giovanile del 14,4%, che si accentua al 23,7% se si concentra solo sugli under 25. Dati ingloriosi considerato che il tasso medio gravita oggi intorno all’8%.
Forse è proprio questo uno dei motivi per cui l’85,9% degli italiani è convinto che la proverbiale distanza tra scuola e lavoro sia un grave e strutturale problema: pochi laureati, troppi in materie umanistiche. Di certo una buona notizia per i sostenitori della scuola come esclusiva culla del pensiero critico; meno per chi cerca nel mercato professionalità tecniche, tra cui includiamo medici, economisti e STEM in genere.
Molto netto e sintetico è, a tal proposito, il pensiero del presidente Censis, Giuseppe De Rita: “Il destino del Paese è quello dei giovani con talenti e competenze, che devono essere utilizzati e valorizzati nel nostro mercato del lavoro”.
A completare il ragionamento l’analisi di INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, che spiega come al contrario gli studenti che frequentano i percorsi IeFP (Istruzione e Formazione Professionale) siano quasi certi dell’ingresso nel mondo del lavoro al termine del percorso di studi. Le percentuali lo confermano: a tre anni dal titolo di studio lavora il 71% dei diplomati e il 68% dei qualificati. Con buona pace del liceo made in Italy.
“Da questo punto di vista, i percorsi dell’IeFP rappresentano probabilmente il luogo di incontro più promettente tra mondo della formazione e mondo del lavoro. Lo dimostrano anche i dati sul livello di coerenza tra lavoro svolto e iter formativo e quelli sul grado di soddisfazione degli stessi occupati”, sostiene il presidente INAPP Sebastiano Fadda. Non solo. Anche tra i non occupati si registra un effetto legato all’occupabilità. Solo l’1% di questi, infatti, rientra tra gli inattivi, i tanto discussi NEET. Da evidenziare anche che tra i diplomati la quota di contratti a tempo indeterminato raggiunge il 64,5%.
Forse un’ulteriore riprova della grande necessità per le imprese di inserire tecnici specializzati, soprattutto in una fase di cambiamento tecnologico molto forte. O forse solo l’ennesima conferma, in generale, della mancanza di sinergia tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro.
In ogni caso, non si preoccupino troppo gli umanisti: del pensiero critico abbiamo ancora un gran bisogno.
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