Se il South Working resta “on mute”

Il primo lockdown ha favorito un’impennata del lavoro da remoto. Ma le condizioni per un vero sviluppo dell’occupazione al Sud sono altre.

Durante il primo lockdown abbiamo confuso lo smart working con il lavorare da casa, da un lato esaltandone i pregi – la possibilità di evitare il traffico e gli spostamenti stressanti, poter mangiare a casa anziché in mensa o al ristorante, meeting online più agili di riunioni fiume che potevano durare anche una giornata intera – e dall’altro i difetti: su tutti la frustrazione di sentirsi sempre connessi, il dover dividere gli spazi della casa con compagni, compagne, figli che fanno didattica a distanza, e la mancanza di momenti di confronto, e perché no di scontro; dal collega più esperto che insegna il lavoro all’ultimo arrivato fino ai momenti informali nei pressi della macchinetta del caffè, dove spesso nascono idee e progetti più intelligenti di quelli che vengono partoriti in una sala riunioni.

In quel periodo, datori di lavoro e dipendenti hanno costruito e alimentato le reciproche convinzioni su due tematiche importantissime che saranno al centro delle discussioni sul lavoro nel prossimo futuro: il controllo e il diritto alla disconnessione. Qualche giorno fa, una mia collega mi ha regalato una frase che mi fatto riflettere molto. Si discuteva della possibilità di lavorare o meno il giorno dell’Epifania, fino a quando lei mi ha detto: “Io lavorerò, ma in modalità non connessa”.

Come se fosse questa la nuova idea di libertà, dopo mesi di videochiamate e di mancanza di distrazioni extra-lavorative: quella di potersi permettere il lusso di restare concentrati su un progetto senza dover riempire la casella degli slot, e senza dover essere costantemente alla mercé di task da spuntare, mail da leggere, telefonate alle quali rispondere (quando va bene; poi ci sono tutte le piattaforme di collaborazione e le chat come WhatsApp o Telegram che invadono anche la sfera personale, oltre a quella lavorativa).

Lo smart working che abbiamo alimentato tra marzo e settembre del 2020 è stato principalmente questo: una continua richiesta/ dimostrazione di reperibilità a fronte dell’impossibilità di poter essere altrove (“ti chiamo verso le 19.30, tanto sei a casa”) e come risposta alla nostra assenza dal luogo di lavoro. Luogo che, nella maggior parte dei casi, era un ufficio di Milano.

Il modello Milano è alla fine. Ecco perché è un’opportunità

A difendere a spada tratta e a glorificare il lavoro da remoto sono state soprattutto persone che volevano dimostrare che gran parte del lavoro che svolgevano in un ufficio di Piazza Gae Aulenti si poteva fare anche da un paesino della Puglia o della Calabria. Anche in risposta ai deliri di onnipotenza del sindaco di Milano Giuseppe Sala, che invitava tutti a “tornare a lavorare”. Della possibilità di lavorare con lo stesso livello di produttività, e magari con un rinnovato entusiasmo, nonostante la causa scatenante sia stata una pandemia, ne abbiamo (ne ho) scritto anche in un altro articolo su SenzaFiltro, proprio dal titolo: Milano, dobbiamo parlare: c’è chi pensa di restare al Sud.

In quel pezzo si raccontava della fine di un certo modello milanese, quello della città “che non si ferma”, del lavoro come ragione principale – non unica – di vita, della pausa pranzo di cinquanta, a volte quaranta, minuti con una fetta di petto di pollo e un’insalata di plastica a 15 euro, dell’apericena come unico momento di svago (a pensarci oggi, tra zone gialle, arancioni e rosse ci prende quasi la nostalgia), prima di andare a letto e ricominciare il ciclo del mangia male, lavora, smarca il task, dormi.

Si parlava però anche di una grande opportunità da sfruttare da parte del Sud: quella di ridurre il gap a livello di know how e di capitale umano, nonché quello tecnologico. Puntare su forme di lavoro agili, flessibili, intelligenti (vera traduzione di smart). Ma soprattutto aprire un tavolo in cui cominciare a parlare di un lavoro sostenibile, e su questa parola possiamo e dobbiamo soffermarci parecchio, trasversale e praticabile da più luoghi. Non Nord contro Sud, ma Nord insieme al Sud.

Il mito bello e pericoloso del South Working

Viviamo oggi il paradosso di una generazione, come la mia, cresciuta con il mito dell’Erasmus e di un lavoro che non fosse solo locale – e per locale intendiamo italiano – ma internazionale. Un lavoro che avrebbe dovuto portarci, come l’università ci aveva portato, in Spagna, Francia, Norvegia, Inghilterra. A parlare lingue diverse e conoscere culture differenti.

Avremmo pagato oro per avere i mezzi che abbiamo a disposizione oggi e la consapevolezza che potremmo mettere in campo da domani, appena questa tremenda pandemia sarà passata. Potremmo lavorare un anno dalla Germania, creare reti di uffici nel mondo, fissare un meeting che permette a persone con fusi orari diversi di incontrarsi, magari anche consentendo a chi ha figli piccoli di godersi qualche mese di lavoro a casa. Questa sarebbe l’evoluzione dello smart working.

Invece la stessa generazione Erasmus deve digerire l’uscita del Regno Unito dalla partita per mano della Brexit, prendere atto di divisioni sempre più forti tra quegli stessi Paesi che rappresentavano il sogno e l’essenza del progetto, e addirittura ritrovarsi a partecipare a una lotta tra il Milanocentrismo e il South Working.

Mi ha sempre affascinato poco, dal primo giorno, l’idea del South Working, pur apprezzandone la genesi, la bravura di Elena Militello, palermitana e fondatrice della pagina Facebook, nonché la voglia di restituire al Sud una centralità nel mondo del lavoro e non solo. Quello che però non mi piace è lo storytelling iperbolico fatto da altri, che hanno trasformato questo progetto di aggregazione e di discussione in una dottrina, facendo passare il (pericoloso) concetto che sia praticabile per tutti, a medio lungo termine, andare a fare pausa pranzo al mare e mangiare la parmigiana della nonna mentre un’azienda del nord paga lo stipendio. Questo è poco lungimirante, e non solo a breve termine.

Sicuri di poter tornare al Sud?

Già la seconda ondata della pandemia ha riequilibrato una partita che in primavera aveva avvantaggiato le regioni del Sud a discapito di una sola regione, anche grazie all’incombere dell’estate che invitava a salutare, almeno per un po’, una Milano accaldata, stanca e privata delle sue caratteristiche principali: l’attitudine al movimento e la propensione (ossessione) al lavoro.

La verità è che non avremo fatto nessuna rivoluzione riportando a casa solo le valigie e i laptop. Allestendo postazioni di lavoro più scomode ma più “instagrammabili” nelle stanze dei ragazzi che non siamo più. Bisognerà portare a Sud, eventualmente, anche tutte le idee, il know how e soprattutto – cosa da non sottovalutare – la voglia di ridistribuire il rischio di impresa. Ripartendo proprio da ciò che nel modello Milano non funzionava e non funzionerà: il caro affitti, la difficoltà di emanciparsi (tantissime persone con ruoli importanti in azienda dividono l’appartamento con altri coinquilini o vivono fuori dalla linea metropolitana), la vita troppo difficile dei pendolari.

Per farlo ci vorrà visione, spirito imprenditoriale, coraggio e tanta dedizione. Altrimenti quella del South Working finirà per essere ricordata solo come una breve parentesi per chi ha un brand personale già affermato e può permettersi di dettare le condizioni. Parliamo di professionisti – pochi – che possono continuare a lavorare da altre città senza subire ripercussioni a livello di salario e, cosa ancora più importante, senza patire più di tanto il mancato confronto con colleghi, superiori o altri membri del team. Tema invece importantissimo per i più giovani.

Molti HR di aziende importanti sostengono che una delle maggiori difficoltà, in questo momento, è proprio quella dell’inserimento dei giovani in azienda. Se l’accelerazione digitale è stata prepotente, la decelerazione di scambio di competenze tra project leader e figure alla prima esperienza professionale rischia di esserlo altrettanto. Il problema è spiegare a ragazzi che si sono laureati su Zoom che la crescita professionale dipende da tanti fattori, non tutti acquisibili online. Almeno non per ora.

Il Sud non riparte da solo: ecco che cosa gli occorre

È opportuno ripartire dai dati: negli ultimi venti anni un milione di lavoratori si è spostato nel Centro-Nord per trovare maggiori opportunità. Un’indagine condotta qualche mese fa da Datamining per conto di Svimez (associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) su 150 grandi imprese con oltre 250 addetti, che operano nelle diverse aree del Centro Nord nei settori manifatturiero e dei servizi, afferma che sono 45.000 i lavoratori che si sono spostati negli ultimi mesi nel Mezzogiorno. Il dato arriva a 100.000 contando anche i lavoratori delle piccole e medie aziende.

“Poter offrire ai lavoratori meridionali occupati al Centro-Nord la possibilità di lavorare dai rispettivi territori di origine – afferma il portavoce dell’associazione – potrebbe costituire un inedito e quanto mai opportuno strumento per la riattivazione di quei processi di accumulazione di capitale umano da troppi anni bloccati per il Mezzogiorno e per le aree periferiche del Paese.”

In base ai dati di Svimez l’85,3% degli intervistati tornerebbe a vivere al Sud se fosse loro consentito, e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Parliamo però sempre di “mantenere” il lavoro, il che esclude i nuovi lavoratori, sempre più difficili da inserire (e questo dimostra anche perché molti neolaureati soffrono di una crisi di identità professionale con pochi precedenti e che in pochi anni potrebbe rivoltarsi contro di noi, visto che saranno loro i manager del futuro), e al tempo stesso rende il Sud ancora una volta subordinato al Nord.

L’opportunità, invece, dovrebbe essere quella di costruire qualcosa di nuovo e diverso. Di ambizioso. Talmente ambizioso che la visione dovrebbe essere, paradossalmente ma neanche troppo, quella di attrarre lavoratori del Nord, in uno scambio che gioverebbe alla competitività, all’indotto e al Paese intero. Con una ridistribuzione, anche geografica, delle opportunità.

Per far sì che questo progetto non resti un evento contingente sarà indispensabile una politica di attrazione di competenze con un pacchetto di interventi concentrato su investimenti tecnologici (fibra, Wi-Fi), sull’offerta di servizi alle famiglie (sanitari, asili nido, tempo pieno), incentivi di tipo fiscale e contributivo, creazione di spazi di coworking.

Quello sullo smart working è un tavolo di discussione aperto, che deve prima di tutto migliorare le condizioni di chi lavora offrendogli l’opportunità di fare del proprio meglio, nella migliore situazione possibile. Altrimenti tra qualche mese ci ritroveremo di nuovo a invidiare le palestre e le cucine di Google e gli orari lavorativi della Danimarca. Quando invece abbiamo una possibilità senza precedenti: mettere la tecnologia al servizio del lavoro e non viceversa.

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