Falliti e depressi: suicidi economici e imprenditori che non reggono la crisi

Aumenta il numero di quanti si tolgono la vita e non se ne parla. La testimonianza di una giovane imprenditrice “a scadenza” e le opinioni di Nicola Ferrigni, dell’Osservatorio suicidi per motivazioni economiche, con il contraltare di Stefano Bianchi, direttore di CONFAPI Emilia.

Lo puoi immaginare così: seduto davanti al televisore con indosso una felpa o una maglia comoda, il sonoro indistinto e le immagini indifferenti, la casa silenziata dal sonno di chi la abita. In testa tante domande, varianti di una sola: sono un fallito?

È l’esemplificazione della condizione emotiva vissuta da migliaia di imprenditori e liberi professionisti, uomini o donne che siano, abituati a vivere per il proprio lavoro. Lo stesso che definisce la loro identità, anche rispetto alla famiglia e alla comunità.

“I più fragili tra loro, soprattutto se uomini, assumono il fallimento dell’impresa come fallimento personale, perdono fiducia e stima in se stessi, tendono a isolarsi per orgoglio, perdono lucidità e fanno tanta fatica a chiedere aiuto”. È la via crucis percorsa da tanti tra quelli che si rivolgono alla Fondazione antiusura Buon Samaritano di Foggia, in cerca di un aiuto economico utile a superare la crisi della loro piccola o piccolissima azienda, e che incrociano la dottoressa Annamaria Petito, docente di Psicologia clinica all’Università di Foggia e consulente della stessa Fondazione.

Chi ci arriva, chi riesce a superare “lo stigma sociale” del fallimento, che “grava particolarmente sugli imprenditori più anziani” e con una maggiore visibilità sociale, a parere di Annamaria Petito compie un enorme passo in avanti: “Comprende di aver bisogno di aiuto per salvare se stesso, di aver bisogno di aiuto per contrastare il malessere e nutrire l’autostima”.

I suicidi per motivazioni economiche e i due tipi di imprenditori in fallimento

Purtroppo, a farlo è una minoranza a fronte di una silenziosa e sofferente maggioranza in cui c’è anche chi non riesce a sfuggire al gorgo della depressione e delle sue conseguenze estreme. Lo confermano i dati, ancora in fase di elaborazione, raccolti dall’Osservatorio Suicidi per motivazioni economiche, attivato dieci anni fa dall’Università privata Link Campus University di Roma, e anticipati a SenzaFiltro dal suo direttore, Nicola Ferrigni, professore associato di Sociologia generale: “Con la ripresa post lockdown, i suicidi per motivazioni economiche sono aumentati del 15% e sono ancora gli imprenditori le vittime più numerose di questo fenomeno”, che pure si sta diffondendo in misura preoccupante tra quanti perdono il lavoro.

È bene precisare che la motivazione economica è minoritaria (mediamente il 5% nell’ultimo decennio) tra quelle che annualmente provocano una media di 4.000 suicidi in Italia; è altrettanto indubbio che se ne rileva l’incremento in presenza di crisi sistemiche come quella provocata prima dalla pandemia e poi dagli effetti della speculazione energetica, enfatizzate dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina.

A parere di Ferrigni, si possono individuare due macrocategorie di vittime tra chi gestisce un’impresa: l’imprenditore altruistico e l’imprenditore rabbioso. Il primo “non riesce a far fronte agli impegni assunti con i dipendenti e i fornitori”, si grava anche delle loro difficoltà, di cui assume la totale responsabilità, e “vive il fallimento come una vergogna così profonda da essere insopportabile”. L’altro “interpreta il suicidio come estremo gesto di denuncia” di fattori distorsivi del sistema economico, su cui non ha alcun potere e che hanno provocato il fallimento della sua azienda, com’è il caso di chi “vanta importanti crediti dalla pubblica amministrazione, non riesce a riscuoterli e non può utilizzarli per fronteggiare la crisi”.

Ma quale crisi. Gli imprenditori non credono agli allarmi della stampa

La depressione profonda, all’origine della scelta di togliersi la vita, “non è un malessere che ho riscontrato e riscontro nella mia attività”, afferma Stefano Bianchi, direttore di CONFAPI Emilia. “Anzi, i piccoli imprenditori con i quali parlo sono molto determinati a superare anche questa fase critica”.

A suo dire, le emozioni prevalenti sono incertezza e frustrazione. La prima ha segnato soprattutto la fase acuta della pandemia, ed era conseguenza del “non sapere quando sarebbe finita, quando si sarebbe potuto riprendere a lavorare” con un minimo di serenità e una prospettiva più lunga del bollettino settimanale o delle fasi stagionali. La frustrazione è quella che si vive oggi: “Il fatturato aziendale è aumentato, in molti casi anche oltre i livelli del 2019”, riprende Bianchi. “Gli ordini arrivano, gli occupati aumentano, però non si può programmare nulla, neanche a medio termine”, a causa dell’instabilità e delle speculazioni.

Le analisi e le esperienze di Nicola Ferrigni e Stefano Bianchi convergono su una valutazione: gli imprenditori non si fanno influenzare dai continui allarmi diffusi a mezzo stampa. “Qualcuno ha aperto le procedure di cassintegrazione o ha attivato forme di tutela finanziaria basandosi sull’esperienza negativa di qualche collega – testimonia il direttore di CONFAPI Emilia – ma poi non ha utilizzato né l’una né l’altra”, perché nella realtà non si sono prodotti gli effetti negativi temuti.

“Gli allarmi sono più funzionali all’orientamento delle scelte politiche che a quelle delle decisioni aziendali”, aggiunge il docente di Sociologia generale, che poi annota: “Parlare poco o per nulla dei suicidi economici, però, è un errore”. O può essere una scelta, effetto degli eccessi allarmistici che hanno segnato le cronache nel biennio 2008-2010, quando a scatenare la depressione fu la crisi finanziaria sistemica e la gran parte degli organi d’informazione smarrì la capacità di distinguere tra le motivazioni che spingono una persona a togliersi la vita, e diffuse la percezione che non passasse giorno senza il suicidio di un ‘fallito’.

Tra gli imprenditori il cui equilibrio emotivo è stato destabilizzato dalle crisi, i “più giovani hanno una maggiore consapevolezza” della distinzione tra ciò che si è e ciò che si fa, riprende Annamaria Petito; quindi, “si sentono meno soli, sono più disponibili a farsi aiutare, anche per rimettersi in gioco”, e riescono ad analizzare più compiutamente il fallimento.

“Quasi fallita, colpevolizzata, ma non depressa”. La giovane imprenditrice a due anni dalla chiusura

Silvana, nome di fantasia scelto per una giovane imprenditrice che ha deciso di vivere a Milano e di farne la base per la sua piccola impresa nel settore della moda, ci sta provando, a ripartire, eppure non riesce a fare a meno di avvertire il peso – anche personale – del fallimento: “L’azienda non l’ho chiusa, però sento di non essere stata capace di sviluppare imprenditorialmente la mia idea”.

Con alle spalle studi e stage nel settore del design, otto anni fa decise di avviare la produzione di accessori capaci di “valorizzare la mia creatività e l’abilità di piccoli artigiani che ho individuato e selezionato con cura, anche sulla base dei materiali utilizzati”. Una piccola impresa orientata alla sostenibilità ambientale e alla responsabilità produttiva, costruita “senza chiedere un euro in prestito alle banche o un sostegno pubblico”, che dalla pandemia è stata affossata: “I negozi che vendevano i miei prodotti prima hanno chiuso e poi non hanno pagato le forniture; per ottenere quanto mi dovevano ho dovuto fare ricorso ai solleciti a mezzo avvocato e ho perso i clienti”.

L’esplorazione dell’e-commerce non ha prodotto i frutti sperati, perché è diventato “lo sbocco di tantissimi, dai più piccoli ai più grandi, con l’effetto di far crescere i costi di gestione”, e così anche “l’attesa rivalutazione del Made in Italy artigianale” è diventata una chimera per chi non ha grandi risorse da investire in promozione.

Nei due anni che abbiamo alle spalle, Silvana ha dovuto fare i conti con “un contesto economico e burocratico non inclusivo e non accogliente verso chi vuole produrre rispettando i fornitori, i lavoratori, i clienti e la comunità”. Nei momenti più difficili “mi sono colpevolizzata o mi hanno colpevolizzata, ad esempio chi mi ha detto che ho sbagliato a non chiedere prestiti per avviarmi; ma ho reagito, perché credo di aver fatto tutto ciò che potevo fare”.

È la ragione per cui “non sono depressa”, piuttosto “mi sento a scadenza: la mia azienda è attiva, però non vende; opero sui social e qualcuno mi riconosce, ma non acquista. Quando sono partita mi dicevano: ‘Supera i primi due anni di attività e vedrai che andrà bene’; ora sono io a dirmi: se tra due anni non sei ripartita, liquida tutto. Quella è la mia scadenza”.

Leggi gli altri articoli a tema Crisi aziendali.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.

Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro. 

Sottoscrivi SenzaFiltro

In copertina foto di Michael Gaida da Pixabay 

CONDIVIDI

Leggi anche

L’uso della mindfulness per curare chi cura

Quando si parla di mindfulness, nella maggior parte dei casi non si pensa solo a un termine molto ricorrente nel nostro vocabolario degli ultimi anni, ma anche a una moda. In realtà le implicazioni e le sfaccettature di questa pratica meditativa di origine buddhista, la cui traduzione significa “consapevolezza”, sono molto più complesse e radicate di […]