Quarto potere, anzi potere 4.0. Il tempo di lettura degli italiani online

Il consumo digitale di notizie degli italiani è molto basso: siamo lettori sempre più distratti e superficiali, e ne abbiamo le prove.

Questo articolo è composto da 1.753 parole, che poi corrispondono a 11.120 battute, spazi inclusi. L’utente medio impiegherebbe poco meno di 9 minuti per leggerlo; il punto è che non lo farà. Non per intero, non fino alla fine.

I tempi di lettura degli articoli sono una preoccupazione nuova nelle redazioni dei giornali, un regalo del digitale derivato dagli analytics e da tutte le micro-cabale che servono a divinare le prestazioni dei contenuti online: se un pezzo con poche visualizzazioni è un buco nell’acqua, uno con bassi tempi di consultazione è una potenziale catastrofe che adombra la capacità di autrici e autori di coinvolgere il pubblico, e quella degli editor di valorizzare i contenuti. Senza lettori è difficile fare giornalismo, del resto.

Un brutto cliente, i lettori. In fuga perenne, sempre distratti da qualche altro contenuto – consultato su schermi sempre più piccoli – e con un budget di attenzione ristretto che è difficile quantificare in minuti, decine di secondi, forse ancora meno. Ma che cosa volete, voi lettori? Volete effettivamente qualcosa, oppure aspettate solo di essere circuiti da una sfilza di accorgimenti testuali semplificativi? Insomma, è vero quel che si dice di voi? Abbiamo raccolto qualche dato per trovare delle risposte.

Per inciso, questo è più o meno il punto in cui l’utente medio smetterebbe di leggere. Arrivederci a lui.

Il tempo di lettura degli italiani. Si stava meglio quando si stava offline

I lettori di giornali stanno aumentando, pare. Da qualche tempo la stampa italiana festeggia una tenue tendenza positiva confermata dal secondo ciclo di dati Audipress 2022, che registrano un aumento della “readership su carta” dell’1,2% per i quotidiani, dello 0,9% per i settimanali e del 4% per i mensili. Questo porta il numero di italiani che consultano un titolo di stampa a 32,2 milioni su 53, pari al 60,7% della popolazione adulta; tra questi figurano 6,5 milioni di lettori digitali, in aumento del 9% sulla rilevazione precedente.

Fonte: dati Audipress 2022/II

Questo dato, tuttavia, nulla dice del tempo che quei lettori investono a consultare le pubblicazioni. Per farsene un’idea occorre incrociarlo con altre informazioni.

Il tempo trascorso sul web dall’utenza globale a ottobre 2022 ha raggiunto le 6 ore e 37 minuti pro capite al giorno, come testimonia tra gli altri l’aggregatore datareportal.com; il dato italiano è più basso, con 6 ore e 1 minuto, entrambe cifre in lieve flessione rispetto al periodo precedente.

Fonte: datareport.com su dati di GWI

Per scendere ancora più nel dettaglio occorre fare riferimento all’ultimo rapporto Audiweb relativo alle abitudini dell’utenza italiana, che sempre a ottobre ha trascorso in media 1 ora e 13 minuti al mese su siti di informazione di vario genere.

Una volta tradotto su base quotidiana il dato diventa brutale: gli italiani hanno dedicato 2 minuti e 35 secondi al giorno alla lettura di notizie online. Il tempo di leggere 470 parole, più o meno come se l’articolo si interrompesse in questo punto e non ne leggeste altri fino a domani. E c’è di peggio, perché confrontando i dati con quegli degli anni precedenti si nota una diminuzione piuttosto costante nei tempi di lettura così ricavati. Rispetto al 2019, per dirne una, abbiamo perso 1 minuto e 23 secondi di consultazione al giorno.

A onor del vero, però, il consumo di testi informativi da parte dei lettori digitali è molto più frammentario di quanto postulato nell’esempio precedente. Se ne trova conferma negli stessi dati Audiweb: i tempi di permanenza nelle homepage dei siti di informazione sono dalle tre alle quattro volte superiori rispetto a quelli nelle pagine interne, il che, con buona probabilità, è dovuto all’abitudine degli utenti di leggere i titoli senza aprire gli articoli corrispondenti – o comunque leggendone una parte esigua.

A spizzichi e bocconi: non lettura, ma skimming

La nuova pratica di lettura appena descritta ha un nome e un indirizzo: si chiama skimming e si sta ricavando uno spazio sempre più rilevante nel circuito neurale deputato alla ricezione dei testi, al punto che c’è chi sostiene stia diventando in assoluto il modo di leggere più comune, non solo sui formati digitali.

Si tratta di una strategia di decodificazione che porta a saltare da una riga all’altra a caccia di parole chiave e ancore testuali che permettano di cogliere il senso generale dello scritto, con gli occhi che disegnano tracciati a forma di F o di Z sulla pagina. La tendenza è confermata da diversi studi condotti nell’ultimo decennio con l’ausilio di dispositivi di tracciamento oculare: gli utenti dedicano fino all’80% del tempo di visualizzazione alla parte sinistra della pagina, con particolare attenzione a ciò che è collocato al di sopra dell’orizzonte di scorrimento. Un’abitudine mutuata dalla tendenza dei sistemi di scrittura occidentali a procedere nella lettura partendo in alto e a sinistra.

Il punto è che, a differenza di quanto è avvenuto per il linguaggio orale, non esiste una zona del cervello dedicata in modo specifico alla ricezione della scrittura: per leggere (e scrivere) utilizziamo aree cerebrali deputate al riconoscimento dei volti e delle forme, che poi raffineremmo al discernimento delle lettere con un meccanismo che il neuroscienziato Stanislas Dehaene ha definito “riciclaggio neuronale”. Un utilissimo strabismo dell’evoluzione, quindi, che deriva dagli stimoli dell’ambiente circostante, e a quell’ambiente si conforma.

Il formato di scrittura digitale è un contesto ambientale del tutto nuovo, con il suo tentativo incompossibile di rappresentarsi attraverso strutture derivate dai supporti cartacei, e la maggiore fatica causata dalla lettura su schermo. Lo skimming altro non sarebbe che un adattamento a condizioni di lettura differenti, con una ricchezza di stimoli informativi priva di precedenti nella storia dell’umanità.

Su questo stato di cose si innestano le recenti riflessioni della neuroscienziata Maryanne Wolf, che nel 2018 ha firmato per il Guardian un articolo intitolato Skim reading is the new normal. The effect on society is profound. Ironia della sorte, nonostante il titolo dica già molto del contenuto, è stato il pezzo più letto dell’anno tra quelli pubblicati dal giornale statunitense.

Quant’è profonda la carta, quant’è profondo il digitale

Una “nuova normalità”, quindi, con un “profondo effettocognitivo e sociale. Quanto profondo, viene da chiedersi?

Parecchio. Nel suo articolo, Wolf cita la progressiva perdita della capacità di affrontare testi complessi e della modalità di “lettura profonda”, che finora siamo stati in grado di sviluppare solo tramite la lettura su carta; uno degli strumenti basilari per l’esercizio di astrazione e pensiero critico, cruciali per comprendere l’articolazione della vita comunitaria, oltre che per darvi un apporto positivo.

Gli studiosi e le studiose che hanno analizzato il cambiamento in corso sono diversi, e giungono spesso a conclusioni di inquietante omogeneità. La linguista Naomi Baron, nel suo recente Come leggere. Carta, schermo o audio? (Cortina 2022), definisce la lettura su carta un procedimento verticale, adatto a esercitare maggiore prensione sui testi, e ritiene la lettura digitale più indicata per gestire grandi quantità di informazioni in modalità multitasking, anche a scopo di confronto – lo stesso procedimento che si attiva al momento di raffrontare prodotti su un e-commerce.

Inoltre, la ricerca che ha affrontato le differenze nell’apprendimento scolastico tra supporti cartacei e digitali (tra tutti, gli studi di Mangen e van der Weel e di Ben-Yehudah ed Eshet-Alkalai) ha evidenziato maggiori difficoltà nella comprensione dei secondi.

Se si parla di qualità della lettura, i vantaggi della carta sembrerebbero innegabili. È in questo senso che la sua decadenza a favore dei medium virtuali è una cattiva notizia per tutti, e in special modo per il mondo dell’informazione.

Non solo fake news, ma falsi lettori

Il giornalismo ha una forte influenza sui lettori, ma è vero anche il contrario, specie in quest’epoca in cui le dinamiche del rapporto sono misurabili con metriche sempre più precise. Forse in passato è stato uno scambio che ha respirato pulito; oggi no. In questo momento storico riescono più che altro a farsi danno a vicenda.

I giornalisti non hanno reagito bene a un cambiamento di medium che li avrebbe voluti in prima fila a sciogliere le briglie o a mordere il freno, ma comunque a tenere le redini. Così riescono a stare su due poli opposti, e allo stesso tempo in un limbo: o impervi al cambiamento, illeggibili alla prova del digitale, oppure così preoccupati all’idea di non essere appetibili online da inseguire una pletora di scaramanzie virtuali per assicurarsi qualche lettore e pochi minuti del suo tempo. SEO, ottimizzazioni, callide iuncture 4.0 per scoprire in anticipo le carte e mostrare tutta e subito la mercanzia agli utenti, ai motori di ricerca, agli algoritmi.

Hanno ragione? In parte sì. A terrorizzarli ci sono gli alfieri dei nuovi linguaggi, che intercedono nelle udienze con i lettori e levano i peccati dal corpo del testo, minacciandoli con lo spettro dell’estinzione se non si adattano a un mondo in cui hanno cominciato a scrivere articoli anche le intelligenze artificiali. O con grafici che rivelano come l’attenzione di chi legge abbia un crollo verticale già dopo le prime 200 parole.

Fonte: Harald Weinreich, Hartmut Obendorf, Eelco Herder e Matthias Mayer: “Not Quite the Average: An Empirical Study of Web Use”. Elaborazione di nnggroup.com.

Dall’altra parte ci sono i lettori, che per molti versi stanno dando la prova più bassa di sé da quando l’accesso alla lettura è divenuto democratico. Sempre più abulici. Attratti dai contenuti d’impatto, blanditi dalla paratassi. Via via meno capaci di distinguere i fatti dalle opinioni, i titoli dai clickbait. I giornali li inseguono con pezzi che promettono di arrivare subito al succo e addirittura riportano i tempi di lettura non come avviso, ma come promessa di non distrarli troppo dalle altre distrazioni.

SenzaFiltro è stata la prima testata a parlare di falsi lettori, non solo di fake news. Non è una dichiarazione a effetto, è un problema concreto, l’anello fortunatamente debole nel circolo vizioso che sta mandando fuori giri buona parte dell’informazione e del sistema editoriale che la tiene in piedi. In questo senso, cari lettori, chi vi vuol bene smette di inseguirvi. Il biennio appena trascorso ha mostrato il bisogno che abbiamo di un’informazione lenta e di qualità, di bocconi ruminati più che ingollati, anche solo per evitare gli alimenti poco salutari.

È la prima volta nella storia dell’evoluzione umana che a una transizione nel supporto di scrittura consegue un cambiamento simile nelle abitudini e nelle possibilità di lettura. In attesa che sviluppiamo il cervello “bi-letterato” in cui sperano le neuroscienze, c’è un’altra soluzione: adesso che abbiamo imparato a scrivere per il web, dobbiamo reimparare a leggere come facevamo prima che esistesse. Bastano pochi minuti ogni giorno. Di questi tempi sono già qualcosa di rivoluzionario.

Leggi gli altri articoli a tema Informazione.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.

Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro. 

Sottoscrivi SenzaFiltro

In copertina foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay

CONDIVIDI

Leggi anche

Lavoro di nuovo

Settembre, si ritorna. Molti non si sono mai fermati, altri stanno per riprendere il ritmo. Questo reportage di SenzaFiltro è stato affidato ad alcuni dei partecipanti al “Corso di scrittura giornalistica per non giornalisti” che abbiamo organizzato nei mesi scorsi: sono stati loro a chiedere di usare il filo rosso del rientro al lavoro per […]

Ordine dei giornalisti: è il momento di liberalizzare?

La nascita dell’Ordine professionale risale ai primi del Novecento. Si tratta di un’istituzione di autogoverno di una professione riconosciuta dalla legge che garantisce la qualità delle attività degli iscritti, subordinata al rispetto di un codice deontologico e a un’adeguata formazione. In Italia gli ordini sono enti pubblici autonomi sottoposti per legge alla vigilanza del Ministero di Grazia e […]