
La pandemia ha devastato il tessuto economico e sociale dei centri cittadini: in futuro meno imprese e turismo. Basterà un PNRR per invertire la tendenza?
Dopo la mannaia trumpiana sulla ricerca, l’UE risponde con fondi limitati e l’Italia con provincialismo, come nel caso dell’assessore al Welfare della Lombardia. Eppure il ritorno degli expat, oltre che sul denaro, si gioca sul welfare, dove l’Europa sarebbe avvantaggiata. Le testimonianze di due ricercatori emigrati
Fermare la cosiddetta fuga dei cervelli è tornato a essere un tema dibattuto, complici le decisioni di Donald Trump, al suo secondo mandato come Presidente degli USA, di ridurre in modo considerevole i fondi a disposizione di diverse Università ed Enti di ricerca. Chiamarli tagli è fuori luogo rispetto all’enormità di ciò che sta accadendo dall’altra parte dell’oceano per milioni di persone; il termine più corretto è amputazioni, che stanno trasformando uno dei settori fiore all’occhiello degli States (la ricerca) in un corpo monco.
Chi anni fa ha lasciato tutto per realizzare i propri progetti, decidendo di rimettersi in gioco e navigare la burocrazia estera, fra la conversione del proprio titolo di studio e i vari permessi di lavoro e di soggiorno, ora si trova di nuovo a dover preparare valigia e passaporto, cercando un altro sogno “americano” da perseguire.
Testate internazionali hanno dedicato diverse pagine e approfondimenti alle decisioni di Trump di tagliare del 50% i fondi destinati alla ricerca “con fini diversi da quelli militari”. Il termine ricorrente è grant, che indica i finanziamenti a fondo perduto concessi da enti pubblici o privati – in questo caso il Governo americano – per sostenere specifici progetti nel campo accademico, tecnologico, sociale e sanitario.
Dall’inizio dell’anno il tycoon ha calato la ghigliottina su diverse Università (Harvard è il caso più emblematico), ed enti come l’NIH (National Institutes of Health, promotore della ricerca nella cura e diagnosi precoce di diverse malattie), l’NSF (National Sanitation Foundation, l’ente che certifica la salubrità dell’acqua e dei prodotti di consumo) e anche la NASA, forse la più iconica fra le agenzie americane.
I tagli hanno riguardato spesso il 50% del budget annuale, arrivando anche al 52%; per le Università sono diminuiti anche i finanziamenti per i costi indiretti. In altre parole, per esempio, le bollette legate alle attività di ricerca, di cui l’ente che elargisce il grant si fa carico, aggiungendo alla somma stanziata un ulteriore importo compreso fra il 30 e il 70% del budget: a fronte di un milione di dollari di grant, il laboratorio può ricevere da 300.000 a 700.000 dollari per coprire i costi indiretti. Ora questa percentuale è stata portata al 17%.
ScienceInsider ha pubblicato un’analisi complessiva non solo dei tagli, ma anche delle loro conseguenze a medio-lungo termine sul PIL statunitense. Secondo i dati, l’NSF ha perso 4,9 miliardi di dollari rispetto al budget 2024, che ammontava a 9 miliardi di dollari. L’NIH passa invece da 45 miliardi a 27 miliardi di dollari disponibili; oltre 130 college e università passeranno da 100 milioni di dollari l’anno a 50 milioni, probabilmente per tutta la durata del mandato di Trump. Alcuni economisti, riporta ScienceInsider, prevedono come diretta conseguenza di questi tagli, inseriti nel “big beautiful bill” del Presidente in carica, perdite economiche paragonabili al calo del prodotto interno lordo durante la Grande Recessione del 2009.
Il 27 marzo Guido Bertolaso, Assessore al Welfare della Regione Lombardia, ha annunciato il suo viaggio negli USA, anzi la sua “missione negli Stati Uniti” per promuovere il ritorno di ricercatori e professionisti italiani, puntando sui tagli dell’amministrazione Trump a Università e centri di ricerca. Le dichiarazioni, forse un po’ naif, dell’ex capo della Protezione Civile hanno di nuovo acceso i riflettori sul fenomeno degli expat (che SenzaFiltro ha trattato nel dettaglio nella rivista “Italia che vieni, Italia che vai”), i molti italiani che cercano all’estero opportunità lavorative che difficilmente potrebbero trovare in patria. L’argomento torna in modo ciclico, pur senza essere affiancato da piani strutturati per attrarre (più che riportare a casa) giovani talenti, non necessariamente italiani.
Persino lo stesso Bertolaso, al netto delle buone intenzioni, non è riuscito a mettere da parte un certo provincialismo: se infatti il problema della “fuga dei cervelli” riguarda l’Italia intera, la soluzione proposta dall’assessore al Welfare si concentra solo sulla Lombardia come polo di attrazione.
Secondo il report presentato da Fondazione Nord Est lo scorso ottobre al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), in tredici anni (2011-2023) circa 550.000 giovani italiani tra i 18 e 34 anni sono emigrati. A questo si aggiungono i dati diffusi dall’ISTAT per il biennio 2023-24, che ha registrato 270.000 espatri (+39,3% rispetto al biennio precedente); questi numeri coprono oltre un decennio di storia che non lascia dubbi circa l’entità del problema, economico (si stima una perdita di circa 143 miliardi di euro) ma soprattutto sociale, che l’Italia sta tentando di arginare.
Il caso di Bertolaso non è isolato, ma piuttosto indicativo di una profonda incapacità della politica, italiana ed europea, di comprendere appieno il fenomeno; solo dopo si può pensare di mettere in campo soluzioni adeguate. Pensare che bastino i soldi per riportare indietro chi è andato avanti (non “all’estero”) significa guardare dal buco della serratura un problema stratificato, credendo che basti un’unica soluzione per risolvere, invece di un approccio articolato.
Ho avuto l’occasione di parlare con due dei tanti expat che l’Italia (ma anche l’Europa) cercano di attrarre di nuovo. Le loro interviste offrono uno spaccato reale di quale sia lo stato d’animo di chi decide di costruire la propria vita oltre confine, e che a volte non vuole più tornare, perché all’estero hanno fatto quello che in Italia non si fa più: si sono costruiti una vita, a volte anche una famiglia.
E qui salta al pettine uno dei tanti nodi delle politiche nostrane: pensare a un eventuale rientro sulla sola base numerica di chi è partito, quasi a voler escludere che ora a tornare sarebbero in due (cervello e partner) e che quindi oltre ai posti di lavoro (in rapporto 2:1) servono posti anche all’asilo nido, e così via.
Sergio delle Piane, MD, PhD e Medical Director in Early Clinical Development presso la Visterra Inc, è uno di quegli espatriati che alla sua vita estera (Stati Uniti) non intende rinunciare, e non per i soldi che il suo lavoro gli offre, ma per le opportunità che l’Italia del 2025 non può dargli.
“La prima esperienza all’estero, con l’Erasmus in Francia, mi ha fatto scoprire una realtà universitaria lontanissima dalla baroneria nostrana, ma è stato l’ultimo anno di specializzazione, che mi ha portato a Boston, che mi ha davvero aperto gli occhi. Negli States ho trovato la mia dimensione, mi sento realizzato nella stessa misura in cui, in Italia, mi sentivo un pesce fuori dall’acqua.”
Il secondo expat con cui mi sono confrontata è Giulio Chiesa, Research Associate in Synthetic Biology all’Università di Toronto; dopo laurea e specializzazione a Pavia (Biologia e Biotecnologie) e un dottorato a Barcellona (Biomedicina) ha fatto il grande salto, approdando a Boston. In seguito alla mannaia trumpiana si è trasferito in Canada, assieme alla compagna; la sua vicenda è quella che racconta in modo più completo cosa significa avere un cuore migrante.
“La mia esperienza all’estero è iniziata senza il cordone ombelicale dell’Erasmus, che ti permette di capire senza rischi se preferisci restare in Italia o meno. Io mi sono lanciato fuori, il cuore oltre l’ostacolo, per quanto la Spagna, e Barcellona in particolare, siano molto vicine alla realtà italiana. Sono uscito dai confini perché quello che volevo fare in Italia non c’era, biologia sintetica. E quindi il mio progetto era molto semplice: vado, apprendo, torno e insegno. Volevo creare le opportunità che dieci anni fa, fresco di laurea non avevo trovato.”
Quello che emerge e accomuna due percorsi molto diversi fra loro è la scarsa attrattiva della strategia europea/italiana per il rientro; Ursula von der Leyen ha messo sul piatto il piano Choose Europe Initiative, che prevede, per i ricercatori, fondi pari a 500 milioni di euro per il biennio 2025-2027. Basta tornare indietro di qualche riga per rendersi conto dell’abisso fra i fondi tagliati negli USA e quelli stanziati in Europa, al fine di intercettare proprio quell’élite che ora cerca un altro posto in cui mettere radici.
La presidente dell’UE ha anche menzionato un aumento della percentuale del PIL destinata alla ricerca, passando dal 2% al 3% nei prossimi cinque anni, da oggi fino al 2030. Per raffronto, secondo i dati raccolti e diffusi dalla Banca Mondiale, nel 2022 gli Stati Uniti hanno speso in ricerca e sviluppo una somma pari al 3,59% del loro PIL, superando di buona misura “l’ambizioso” obbiettivo a medio-lungo termine europeo.
Come spiega Sergio Delle Piane: “Il problema non sono i soldi; non è quello che guadagno qui che mi impedisce di tornare in Italia, ma quello che il denaro non potrebbe mai darmi; il confronto costante con mille culture diverse, che fanno sistematicamente a pezzi i miei pregiudizi. Ora lavoro per ‘Big Pharma’, ho una moglie sudafricana e due figlie a cui voglio dare quello che ho avuto io, nulla di meno. La nostra storia ci ha visto grandi due volte, la prima nell’impero romano e la seconda volta nel Rinascimento. Due momenti in cui l’Italia si è aperta al mondo, ma continuiamo a dimenticarlo. Fino a che l’Italia resterà chiusa non vedo motivi per tornare, perché per me è un gioco a perdere”.
Giulio Chiesa è ancora più incisivo, e tocca con mano la croce e la delizia del sistema europeo, un “paziente più grande dell’Italia, ma con gli stessi problemi”: primo fra tutti il calo della natalità, che crea un effetto domino su cui crolla tutto.
“Tornare in Italia? Lo desidero ancora, ma continuo a non vedere le giuste prospettive. Il sogno americano forse non esiste, ma oggi l’Europa non offre a me e alla mia compagna qualcosa di più rispetto a ciò che abbiamo in Canada: due lavori nel nostro campo presso lo stesso istituto e la possibilità concreta di costruire un futuro assieme. Parlare di ‘fuga dei cervelli’ solo se hanno la laurea è classista. L’Europa ha un valore enorme ai miei occhi, ossia il sistema del welfare, un asset che manca agli Stati Uniti, dove ho imparato questo slogan: ‘sei a tre imprevisti dalla bancarotta’. Ti fai male una volta di troppo? Ti ammali una volta di troppo? Finisci sul lastrico, letteralmente. Da noi questo non succede, perché il welfare si fa carico dei bisogni di tutti: non in modo perfetto, ma si cerca di non lasciare indietro nessuno. Solo che il welfare è una rete fatta da tanti fili diversi: ricercatori, tecnici ospedalieri, infermieri, assistenti sociali, caregiver; se manca una componente si sfalda. L’espatriato figo che torna non serve se poi non ci sono gli asili nido.”
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