Il regista Riccardo Milani: «La vita dei detenuti non è un Truman Show»

Quella dei detenuti è una questione articolata che non merita di essere appiattita su singole vicende, come il caso di cronaca che ha coinvolto Emanuele De Maria, in permesso di lavoro. La cultura si è confrontata meglio dell’informazione con il mondo delle carceri: ne parliamo con il regista di “Grazie ragazzi”

21.05.2025

Emanuele De Maria era il detenuto di cui ricorderemo le ultime quarantott’ore di vita riprese ovunque dalle telecamere di Milano, in strada all’alba mentre litiga col collega poi accoltellato, di giorno sotto l’ombrello mentre passeggia in un parco con la donna a cui toglierà la vita da lì a poco, allo sportello del Duomo mentre compra il biglietto per salire alle terrazze il giorno dopo, in metro con le borse in mano compresa quella della donna che non c’è già più prima che lui si butti dalle guglie. Persino di quel volo che lascia sgomenti esiste un video, ripreso da un turista. Da diciotto mesi in permesso di lavoro all’Hotel Berna di Milano – un quattro stelle vicino alla stazione centrale, lavorava alla reception e conosceva cinque lingue – De Maria era uno dei circa 200 detenuti del carcere di Bollate a cui viene consentito di uscire per svolgere attività professionali.

Tecnicamente, sul piano giuridico, si chiama lavoro esterno (art. 21 O.P.), e non si tratta di una misura alternativa alla detenzione, ma di un beneficio che consente di uscire dal carcere per svolgere attività lavorativa anche autonoma, su concessione del direttore dell’Istituto di pena. Agli inquirenti e alla giustizia, ora, valutare la congruità della decisione.

Lo scorso novembre lo stesso De Maria aveva raccontato la propria esperienza davanti alle telecamere di Mediaset: di giorno lavorava e di notte tornava in carcere, diceva che per lui quello era un modo per vivere meglio e che stare in contatto con tante persone lo faceva sentire di nuovo libero, nonostante ogni giorno fosse sotto regole ferree, con un percorso di strada obbligato dal carcere al Berna e viceversa: Rho, poi linea 1 della metro fino a Cadorna, poi cambio verso la Centrale, in un’ora e mezza doveva arrivare in albergo e altrettanta per tornare in carcere, in pausa pranzo un’ora libera. Finché non è evaso giovedì scorso, il resto è noto.

Finito di raccogliere notizie e ragguagli sulla vicenda, un pensiero mi ha folgorata: siamo osservati di continuo, le telecamere cittadine lo hanno rintracciato ovunque, e pensare che De Maria si è mosso in aree diverse e distanti; la ricostruzione dei suoi gesti, ciononostante, non ha buchi. Messi insieme mi hanno ricordato un Truman Show moderno, amarissimo.

“Grazie ragazzi”: con Riccardo Milani il carcere si fa film, e la libertà si fa teatro

Qualche giorno fa – il fatto di De Maria era accaduto sabato – in redazione ci siamo chiesti che contributo dare rispetto allo sciacallaggio della nera che stava occupando spazio ovunque, dall’online ai podcast tritatutto, anche perché il tema delle carceri legato al lavoro impegna da anni la nostra linea editoriale e sarà parte del programma di Nobìlita Festival a Reggio Emilia dal 28 al 31 maggio prossimo (Lavorare in carcere, dialogo con Flavia Filippi, giornalista di La7 e fondatrice/presidente di Seconda Chance, associazione no profit che intercetta imprese sul territorio nazionale per assumere detenuti, affidati ed ex detenuti).

Chi ha visto il film Grazie ragazzi può intuire perché ho pensato al regista Riccardo Milani pensando alla cronaca: perché Milani osserva pezzi di mondo senza giudicarli – il film del 2023 era ispirato alla storia vera di un attore in crisi che ritrova animo tenendo un laboratorio teatrale in carcere, e i detenuti, grazie a lui, scoprono il potere trasformativo dell’arte e della cultura. I pezzi di mondo che sceglie, Milani li mostra al pubblico dopo averli tagliati con diamanti mai affilati a pietismo.

Di carceri ne parlo con proprio con lui, che ricorda la potenza dei mesi di ripresa del film: girato tra 2021 e 2022, ancora in tempi di pandemia, quando i teatri erano accasciati su sé stessi, chiusi, deserti, Grazie ragazzi è un film che testimonia anche tournée teatrali e viaggi dei detenuti-attori in giro per l’Italia.

«Le carceri che vedete nel film sono quelle di Rebibbia e Velletri, realtà molto diverse tra loro, come del resto ogni carcere. Sono mondi pieni di regole dove tempi, orari, ritmi hanno una scansione tutta loro. Con loro fu una lunga tournée che permise a me e al cast di restituire poi al pubblico il senso del film: quanto è centrale riappropriarsi di una passione e di uno stimolo emotivo, fosse anche un dolore, quando si vive reclusi mentre si sconta una pena; è il bisogno di tornare a essere umani. Scarichiamo troppe delle nostre responsabilità sulla politica, ognuno deve fare il suo. Io per primo con il mio lavoro mi impegno a dare di continuo segnali, e cerco di farlo verso direzioni distanti dalle mie, provando a intercettare chi non la pensa come me, parlando a tutti senza scegliere a monte il pubblico che possa darmi ragione. Se possibile, come in Grazie Ragazzi, pure provocando risate sul tragico. C’è in giro una carenza di attenzione al sociale e alla politica, è vero, è un distacco verso la vita delle persone e verso di noi. Anche nel fare certi mestieri che determinano un peso sugli altri, che sia la loro salute o un loro destino, spesso vengono cercate solo vie di fuga personali.»

Il cinema e l’informazione possono somigliarsi nello scopo, visto che entrambi si fanno carico (almeno, dovrebbero) di un senso di responsabilità per come guardano i fatti, le persone, le storie?

«La domanda aperta è enorme. Io posso solo dire che ho il mio modo di guardarmi intorno, e che le distorsioni del mondo mi colpiscono perché le guardo da quando ero un bambino. Sono cresciuto educandomi all’osservazione. Mi accorgo che in ogni fase del mio lavoro, da quando scrivo a quando giro a quando monto, cerco una specie di umanità, ovunque ancora si annidi, e credo che fare cinema forse ha questo dovere, raccontare la realtà per quanto possa sembrare un occhio di parte, che è appunto l’occhio di chi racconta. Ogni forma d’arte e ogni persona che usa l’arte – cinema, pittura, scultura, scrittura, tutto – ha comunque il compito, più che di raccontare, di non nascondere la realtà. La realtà non va nascosta e non va schiacciata, non va alterata. A proposito del Truman Show, è vero che viviamo ormai in una grande bolla di sospensione e sembra di doverci adeguare a tutto: questo adeguarci a tutto però è un’abitudine che a me non piace, gli esseri umani devono trovare spazio per dire anche no. Ad ogni modo, la vita dei detenuti non è un Truman Show

Arte e cultura come strumenti di prevenzione

Fare il giornalista ha poche regole, ma inviolabili: una è il rispetto per la notizia, che significa rispettare anche ciò che la notizia si porta con sé, compresa l’integrità delle persone se di persone si tratta. Al contrario, l’effetto di ciò che il giornalista sceglie di raccontare, e come, più che regole ha certezze: condizionare o meno la risposta emotiva dei lettori, portarli di qua o di là, scinderli. Le ultime quarantotto ore di vita di un detenuto in fuga, viste fotogramma dopo fotogramma, possono far paura sul piano di una sicurezza pubblica e collettiva; al tempo stesso non devono depotenziare strumenti di rigenerazione umana come i permessi di lavoro, né indebolirne la spinta. L’opinione pubblica è una placenta vitale per la società: guai a strattonarla per incuria.

Dieci anni fa mi occupavo di comunicazione per una grande azienda pubblica nel settore igiene ambientale, il servizio di raccolta porta a porta era iniziato da poco in città. Per ragioni di servizio ero in contatto con una delle due carceri – facevamo raccolta dei rifiuti anche da loro e andavano consegnati contenitori e calendari – e proposi al mio direttore del personale di introdurre un ciclo di lezioni e laboratori con i detenuti perché anche loro erano un pezzo di mondo, per quanto lo vedessero solo dalle sbarre. Nella mia testa un giorno sarebbero usciti. Mi rispose in malo modo, facendomi capire che un detenuto lo è per sempre agli occhi di molti.

Lo feci lo stesso, chiedendo permesso all’azienda; andai due o tre volte in carcere. La prima ebbi paura, tanta, dopo che la guardia mi accompagnò in una stanzona gelida dove mi aspettavano una ventina di loro, rumorosi, alcuni volgari, e poi se ne andò lasciandomi sola. Posso ricordare gli occhi di ognuno di loro se adesso chiudo i miei. Ebbi un istinto di fuga, lo ricordo alla perfezione; restai. Iniziai a parlare con loro – parlare – e parlare vuol dire ascoltare; non erano abituati. Gli raccontai di alcuni libri legati all’ambiente e al rapporto tra uomo e natura, ci confrontammo su concetti come equilibrio, libertà, rispetto, relazione, io e l’altro. Certo, spiegai anche come andava fatta la raccolta differenziata in cella e in struttura, ma fu quasi un corollario dei nostri incontri, per quanto mi fecero poi sapere che nei mesi successivi i dati di buona differenziata erano saliti. Scoprii che avevano una biblioteca, e che un paio di loro facevano un percorso professionale per diventare archivisti; uno mi disse «qui dentro se leggi riesci a viaggiare per qualche ora e andare dove vuoi». Un paio di anni dopo, quando lasciai l’azienda e la città, durante il trasloco portai al carcere una trentina di libri, soprattutto romanzi per garantire i viaggi migliori.

Saluto Riccardo Milani al telefono. Mi dice: «I mesi trascorsi con i detenuti durante le riprese, e le proiezioni del film fatte poi dentro Bollate, Rebibbia e altre carceri, non possono che avermi confermato quanto il teatro e l’arte siano di una potenza dirompente nel cambiare cose e persone. Direi anche prima, soprattutto prima di un reato, come strada di prevenzione nelle zone a rischio, nei quartieri ai margini».

 

 

 

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In copertina, un fotogramma dal film “Grazie ragazzi” di Riccardo Milani.

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