I centri con meno di 20 bambini non possono accedere ai bandi. Gabriele Ventura, ANCI: “Non considerati i contesti territoriali. E anche chi partecipa potrebbe andare in difficoltà”.
Chiara Saraceno: “RdC da riformare, non da abolire”. Ma Orlando ignora le proposte
La sociologa e presidente del Comitato tecnico scientifico incaricato di formulare proposte per riformare il RdC, intervistata da SenzaFiltro, definisce il concetto di povertà in Italia e parla dei possibili miglioramenti alla misura di sostegno al reddito.
Siamo un Paese sempre più povero, con giovani e famiglie con minorenni a portare per la gran parte il peso di un’indigenza sempre più diffusa, aggravata dalla crisi del 2008 e dalla pandemia. I recenti dati pubblicati dall’ISTAT sulla povertà in Italia nel 2021 non lasciano spazio a illusioni: come accaduto nel 2020, il fenomeno nel nostro Paese è ai massimi storici, con 1,9 milioni di famiglie (il 7,5% del totale) e circa 5,6 milioni di persone (9,4%) in condizioni di indigenza assoluta, cioè non in grado di sostenere le spese essenziali per vivere, come cibo, affitto, cure, vestiti.
Ulteriormente sconfortanti i dati relativi alle classi di età: fra i minori l’incidenza della povertà assoluta si attesta al 14,2% (poco meno di 1,4 milioni), all’11,1% fra i giovani di 18-34 anni (1.086.000) e al 9,1% per la fascia 35-64 anni (2.361.000), mentre valori inferiori alla media nazionale si registrano tra gli over 65 (5,3%, circa 743.000).
Eppure c’è una crescente stigmatizzazione della povertà, della mancanza di lavoro, una colpevolizzazione diffusa dell’indigenza e anche dei pochi e sicuramente migliorabili, ma necessari, sussidi statali. Lo dimostrano la polemica battente relativa al Reddito di Cittadinanza, il refrain stantio e pidocchioso che descrive i suoi percettori come “fannulloni” perché “è più comodo stare sul divano con il sussidio che lavorare”, il piagnisteo di tanti imprenditori che imputano al RdC la difficoltà nel trovare personale guardandosi bene, però, dal documentare quali salari e condizioni di lavoro offrano.
Abbiamo approfondito questi argomenti con la professoressa Chiara Saraceno, autrice, insieme a David Benassi ed Elena Morlicchio, del saggio La povertà in Italia (il Mulino, 2022) e già presidente del Comitato tecnico scientifico voluto dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Andrea Orlando, per formulare proposte di miglioramento del Reddito di Cittadinanza.
Professoressa Saraceno, in La povertà in Italia ha analizzato le caratteristiche del fenomeno nel nostro Paese e parla di “specifico regime di povertà italiano”. In cosa consiste questa specificità?
Le caratteristiche del fenomeno in Italia risiedono nella carenza di lavoro, ma anche nell’assenza di pratiche di conciliazione famiglia-lavoro, nei bassi tassi di occupazione femminile, nella frammentarietà del sistema di protezione sociale, nelle differenze tra Nord e Sud. E nel carattere fortemente famigliare della povertà, che da noi incide maggiormente sulle famiglie nelle quali sono presenti minorenni, piuttosto che sugli anziani, che possono contare sulla pensione. È una organizzazione familistica incentivata dall’assenza tipicamente italiana di politiche per il lavoro. Altro tema caratteristico, che pesa soprattutto sui giovani, è quello dei lavoratori poveri, una costante della nostra storia, aggravatasi con la crisi del 2008 e poi con quella pandemica.
Ciò che colpisce particolarmente è proprio il fatto che negli ultimi trent’anni la povertà si sia spostata dagli anziani ai giovani, elemento che cancella prospettive e speranze sia per le generazioni future che per l’intero Paese. Come spiega questo fenomeno?
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta si sono verificati due cambiamenti paralleli nel profilo dei poveri italiani. I minorenni e i giovani con meno di 34 anni sono diventati i gruppi di età con la maggiore incidenza relativa di povertà. Le famiglie numerose, da sempre uno dei principali gruppi a rischio, sono diventate più vulnerabili alla povertà a causa della contrazione salariale. Allo stesso tempo ha iniziato a diminuire l’incidenza degli anziani tra la popolazione povera, grazie al successo pensionistico e alla stabilizzazione delle carriere lavorative e contributive. Questi mutamenti sono la conseguenza di un sistema di tutela sociale improntato quasi esclusivamente alla protezione degli anziani e di una stagnazione economica che, attraverso scarse offerte occupazionali, precarizzazione del lavoro, assenza di coperture assicurative e ritardo nell’ingresso del mercato del lavoro, ha penalizzato i giovani e i lavoratori nelle fasce d’età centrali.
Come si dovrebbe intervenire per invertire la tendenza?
Bisogna favorire il lavoro femminile. È dimostrato che il rischio povertà scende di due terzi se la madre lavora. Per fare questo non sono sufficienti le quote rosa, ma è necessario creare servizi, creare le condizioni perché le famiglie non debbano contare su un solo reddito, introdurre un salario minimo decente e sostenere le forme di sostegno al reddito.
Da almeno trent’anni l’Italia conosce bassi indici di crescita, un panorama aggravato dal divario Nord-Sud. Le risorse del PNRR potranno risanare la situazione?
Questa è la speranza, ma bisogna vedere come verranno usati quei denari, che sono tantissimi. Dovranno però essere spesi bene, ossia non con finanziamenti a pioggia destinati a progetti non specifici, non validati in base alla loro capacità di generare ricchezza, anche sociale e umana. Quindi va benissimo che il 40% del PNRR vada al Mezzogiorno, ma prima bisogna individuare le aree con le maggiori necessità d’intervento e ragionare insieme agli attori locali su come agire. Invece il PNRR è stato fatto senza consultare gli specifici contesti, con uno scollamento tra progettazione e realtà.
I Governi cadono anche sui temi sociali, e il fuoco incrociato sul Reddito di Cittadinanza è sempre più fitto e proveniente da vari settori della società. L’impressione è che sia stata ormai sdoganata una mentalità diffusa che colpevolizza l’indigenza. Ha anche lei questa sensazione?
Certo. Al di là dei discorsi da bar che si sentono sempre più di frequente, basta dare un’occhiata al Decreto Aiuti, che introduce una norma per cui i datori di lavoro che assumono senza rivolgersi ai Centri per l’impiego possono denunciare chi rifiuta quel lavoro, indipendentemente dalle condizioni offerte. Questa è un’arma di ricatto che avvalla l’idea che chi rifiuta un lavoro, magari percependo anche un sussidio dallo Stato, sia una persona moralmente deteriore. È l’idea che se uno è povero è colpa sua, e che i sussidi pubblici favoriscono la nullafacenza. A tutti questi imprenditori che si lamentano di non trovare personale a causa del Reddito di Cittadinanza chiederei che stipendio offrono, perché la verità è che i datori di lavoro pagano troppo poco. C’è poi da dire che la maggior parte dei percettori del RdC abili al lavoro (perché, ricordiamolo, nella maggioranza dei casi il sussidio va a chi non può lavorare) hanno bassissime competenze, cioè non corrispondono quasi mai ai profili richiesti. Se a tutto questo aggiungiamo che solo il 30% dei soggetti occupabili è stato profilato e preso in carico dai centri per l’impiego, capiamo che moltissimi di coloro che si lamentano di non trovare personale non assumerebbero queste persone e stanno mistificando la realtà per giustificare i bassi salari. Questo non toglie che il RdC, per come è stato disegnato e attuato, presenta alcune criticità e ampi margini di ottimizzazione.
Le proposte di miglioramento del RdC avanzate dal Comitato tecnico scientifico da lei presieduto e voluto dal ministro del Lavoro Orlando sono state ignorate. Quali azioni avevate individuato?
Per restare solo alle criticità principali, c’è di sicuro la scala di equivalenza usata per calcolare le soglie di reddito per accedere al beneficio, che fanno riferimento all’ISEE, al reddito, alla ricchezza mobiliare e a quella immobiliare. Queste soglie sono indipendenti l’una dall’altra, cioè basta sforarne una sola per essere esclusi dal RdC. Per quanto riguarda il reddito, poi, la scala di equivalenza è squilibrata a sfavore dei minorenni, che contano la metà degli adulti. Ciò fa sì che famiglie numerose abbiano più difficoltà ad accedere al sussidio, perché la soglia di accesso è più generosa per i nuclei con soli adulti rispetto a quelli con minorenni. La nostra proposta è di equiparare adulti e minorenni e alzare dal 2,1 al 2,8 la soglia massima del coefficiente della scala di equivalenza, abbassando contestualmente l’importo base dell’assegno mensile da 500 a 400 euro. C’è poi il problema degli stranieri, che rappresentano il 30% dei poveri assoluti in Italia, ma ai quali per avere il RdC viene richiesto un requisito di residenza di dieci anni, il più alto in Europa: noi abbiamo proposto di abbassarlo a cinque anni, che è quanto chiesto per avere il soggiorno di lunga durata. Per incentivare il lavoro regolare, poi, abbiamo suggerito di non tassare il reddito da lavoro fino a una certa soglia, Attualmente, infatti, se un beneficiario di RdC viene assunto, il sussidio diminuisce di 80 centesimi per ogni euro guadagnato, una impostazione che incoraggia il ricorso al lavoro nero.
Un appello per interventi che anche i non addetti ai lavori possono giudicare di buon senso e che permetterebbero al RdC di essere più efficace nel contrasto alla povertà. Ma che i politici di tutti gli schieramenti hanno preferito non ascoltare.
Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.
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