RdC, non tutti i poveri sono uguali: ecco gli esclusi

Diverse categorie di cittadini in situazione di povertà non hanno accesso al Reddito di Cittadinanza: da un accordo tra INPS e Caritas nasce un protocollo per identificarle. La testimonianza di don Moreno Locatelli della Caritas di Vigevano e Fabio Nestola della Federazione Nazionale Bigenitorialità.

Si chiama Reddito di Cittadinanza, ma non tutti coloro che sono cittadini ne hanno diritto. Anche se sono poveri. Per questo INPS e Caritas a giugno hanno dato vita a un protocollo con lo scopo di identificare tutti gli esclusi da ogni forma di sostegno, ma anche di aiutarli a ottenere il Reddito di Cittadinanza che molti cittadini, pur in difficoltà, non sono riusciti a conseguire.

L’accordo al momento è partito con le Caritas diocesane lombarde (dieci in tutto) in via sperimentale, ma l’obiettivo è di estenderlo in tutta Italia. Non si hanno ancora dei dati al riguardo, ma attraverso il contatto quotidiano degli operatori si possono già intuire alcuni risultati, che già nel 2020 – stando al report delle stesse Caritas – non erano ottimali. Subito dopo il lockdown la situazione era critica.

«Compaiono fenomeni nuovi», spiegava il report: «Il primo è correlato alle difficoltà scolastiche che hanno coinvolto molte famiglie non in grado di provvedere all’acquisto della strumentazione necessaria ai loro figli per la Didattica a Distanza». La Caritas parlava espressamente di «forme di diseguaglianza sociale», che andavano a sommarsi ai problemi già presenti come la difficoltà a pagare mutuo o affitto (in tutta Lombardia), la diffusione dell’usura dell’indebitamento (nel 50% delle Caritas), e la perdita del lavoro (in tutta la Lombardia), assieme alla rinuncia alle cure o all’assistenza sanitaria (in dieci Caritas).

Un quadro che nel corso di questi mesi si è aggravato, anche perché la misura del Reddito di Cittadinanza, almeno in Lombardia dove è partita la sperimentazione, ha visto diminuire di circa il 40% la platea degli aventi diritto.

Non basta essere poveri: bisogna anche dimostrarlo.

Poveri senza il Reddito di Cittadinanza: ecco chi sono

Don Moreno Locatelli è di origini bergamasche, ma è a capo della Caritas di Vigevano, la seconda più grande della provincia di Pavia, in un territorio che ha visto chiudere progressivamente diverse fabbriche negli ultimi venti anni. È un omone alto e determinato che affronta le questioni in senso pratico: dietro la sua scrivania vede scorrere i casi più difficili della provincia lombarda.

«A Vigevano – dice – la crisi del 2008 si è sommata a quella del settore calzaturiero. Allora le famiglie di fascia media non avevano due redditi; oggi faticano ad averne uno. Grazie ai fondi Famiglia Lavoro riusciamo a tamponare questa situazione e a mettere molte persone in condizione di accedere a una serie di bonus, che vanno dal Reddito di Inclusione ad altre forme di sostegno, dei quali possono usufruire quanti non hanno accesso al Reddito di Cittadinanza».

Perché nella platea dei 1,36 milioni di poveri che hanno diritto alla misura di sostegno introdotta dal governo gialloverde non rientrano tutti: «La prima categoria – spiega don Moreno – è composta da quei cittadini che per motivi di disagio, vuoi mentale o economico o da dipendenza, non sarebbero nemmeno in grado di fare domanda di Reddito di Cittadinanza. Sono veri e propri fantasmi, persone che magari hanno vissuto di espedienti o lavoretti semplici e mal pagati, o anche stranieri che hanno difficoltà con la lingua».

«Poi ci sono coloro che sono invisibili agli occhi dello Stato. Emigrati magari da altre Regioni che non hanno mai cambiato residenza, ma hanno girato più case e ora le hanno magari anche perse. Sono coloro che oggi popolano i pronto soccorso o vivono al dormitorio della Caritas; ma noi non possiamo dare loro la residenza». Quindi, quando si recano in Comune a chiedere il Reddito di Cittadinanza, il Comune di residenza si rivolge a quello di origine, che non si assume certo l’onere di fare la domanda del Reddito. «Anche perché questo – continua il sacerdote – comporterebbe una presa in carico della persona a tutti i livelli, che per un Comune rischia di essere oneroso, al netto del fatto che la persona non ci vive. Nel Comune nuovo, invece, non avrà diritto alla residenza perché senza abitazione».

Un cane che si morde la coda, o meglio uno scaricabarile, perché spesso i bilanci dei piccoli centri vedono la maggior parte delle loro risorse investite in pagamento di comunità per i minori e sostegno alla povertà.

La povertà invisibile di mutui e divorzi: quando il reddito toglie il Reddito

Erano gli anni Duemila quando un gruppo di finanzieri capì anzitempo la fine del capitalismo come era conosciuto allora. Molte famiglie italiane non l’hanno capito e sono rimaste schiacciate da mutui e finanziamenti plurimi. Un’onda lunga che si trascina ancora oggi.

«Quando hai un lavoro, ma più finanziamenti aperti – continua don Moreno – il reddito può collocarti al di fuori della soglia di povertà, ma spesso basta un imprevisto per mandare in crisi una famiglia che già ha delle difficoltà. Queste non hanno diritto però al Reddito di Cittadinanza. Poi c’è la grande partita dei genitori separati, nella maggior parte dei casi padri, che si trovano magari a far fronte al mutuo comune della casa, al quale si somma l’affitto per la nuova abitazione e il mantenimento dei figli.»

Fabio Nestola, presidente della Federazione Nazionale Bigenitorialità (Fe.N.Bi.), da anni studia l’incidenza economica dei divorzi. Ha elaborato una tabella per cercare di stabilire cosa sia il reddito residuale.

«Il genitore separato – spiega – deve considerare il reddito residuo, ciò che resta effettivamente disponibile dopo aver detratto le voci fisse mensili relative al mantenimento dei figli, della casa della quale non ha più l’uso, ed eventualmente dell’ex coniuge, qualora questi non goda di alcun reddito o percepisca un reddito non sufficiente al sostentamento suo e della prole avuta in affidamento. Il criterio di valutazione del reddito deve quindi discostarsi dall’ufficialità del CUD, in quanto le voci predette non sono detraibili».

È lui stesso a fornire alcune proiezioni: un genitore con un reddito di 2.000 euro e una casa gravata da mutuo di 400 euro, con due figli ai quali dovrà dare 350 euro per uno, se ha un contributo da versare all’ex coniuge si trova a vivere con 500 euro al mese. Ma formalmente non ha diritto ad alcun reddito di sostegno.

“Dopo il divorzio vivo con 600 euro al mese. Per me nessun contributo”

Il caso che un padre separato di Roma ha raccontato a SenzaFiltro è emblematico, ma allo stesso tempo paradossale.

«Al momento sono disoccupato, ma fino a poco tempo fa un lavoro l’avevo. Ero una guardia giurata. Non ho avuto un divorzio facile e mia moglie mi ha denunciato, quindi mi è stato sospeso il porto d’armi. Mi sono così trovato, dal guadagnare 1.300 euro al mese, a svolgere mansioni meno retribuite – ad esempio il controllo della febbre all’ingresso dei locali pubblici per il COVID-19. Ma guadagnavo 800 euro al mese. Quei soldi mi andavano tra il mantenimento e la spesa per la benzina. A 40 anni sono tornato a vivere con i genitori, anche perché per me non c’era alcun contributo. Ora percepisco la disoccupazione, che sono 600 euro al mese.»

I casi di genitori che si trovano in queste condizioni, nel corso degli ultimi venticinque, anni hanno subito un aumento esponenziale, legato non solo alle difficoltà economiche, ma anche all’incremento di divorzi e separazioni, passati da quasi 8.000 a 13.000.

Photo credits: mytrend.it

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