di Beatrice Olivari
Questo articolo non è firmato da un giornalista della nostra redazione.
SenzaFiltro ha deciso oggi di dare spazio a una giovane redazione tutta femminile che racconta il grave sfruttamento lavorativo. 14 ragazze tra i 16 e i 26 anni hanno dato voce a storie ed esperienze del territorio, da Milano a Legnano, passando per Gorgonzola, Busto Arsizio, l’hinterland e arrivando anche a toccare le rotte migratorie dal Bangladesh e Nord Africa nella nuova edizione della rivista gratuita “Emersioni”. Un lavoro che abbiamo deciso di sostenere e promuovere, perché le giovani redattrici hanno raccolto informazioni e interviste tra case di accoglienza, mercati informali, uscite diurne e serali, e crediamo che sia sempre più importante imparare a scrivere di cose difficili. L’iniziativa è promossa dalla Città Metropolitana di Milano nell’ambito del progetto a supporto di persone vulnerabili “Derive e Approdi”.
La dottoressa Marzia Marzagalia è una psichiatra che esercita dal 1987 nell’ospedale Niguarda di Milano. Fa parte del servizio di etnopsichiatria e vanta un’esperienza pluriennale nella valutazione e nel trattamento di soggetti stranieri in condizione di vulnerabilità psichica. In questa intervista abbiamo cercato di comprendere meglio storia e obiettivi del servizio, ma soprattutto l’approccio interdisciplinare che lo contraddistingue e il tipo di relazione che si instaura con i pazienti che subiscono grave sfruttamento lavorativo: come interviene il servizio? Qual è il legame tra il grave sfruttamento lavorativo e la vulnerabilità psichica e psicologica?
Parliamo del servizio di etnopsichiatria. Come nasce e di che cosa si occupa?
Il servizio nasce nel Duemila all’interno di un centro psicosociale volto a seguire persone con un disagio psichico. Nello specifico, nasce dell’esigenza di dare un’assistenza psicologico-psichiatrica a persone che, non avendo i documenti, non possono accedere alle prestazioni del Servizio sanitario nazionale. Di fatto, siamo un servizio in cui tutto è improntato alla difesa dei diritti.
Da che situazioni provengono i pazienti, e quali sono i motivi che li portano a rivolgersi a voi?
Nei primi anni del servizio i pazienti presentavano una base identitaria culturale abbastanza analoga. La maggior parte di loro arrivava per regolarizzarsi sul territorio, ottenere un lavoro e farsi raggiungere dalla famiglia. Le patologie manifestate erano prevalentemente legate a situazioni ansioso-depressive derivanti dalla lontananza da casa e dalla precarietà economica. La situazione però è drasticamente cambiata dal 2010-11, quando il flusso migratorio è diventato per alcune persone quasi obbligatorio e sono cominciati ad arrivare soggetti più fragili. I pazienti hanno iniziato a raccontare di vessazioni e schiavitù subite nei Paesi di provenienza e delle atrocità durante i viaggi. C’è stato quindi un incremento progressivo di vulnerabilità precedenti al viaggio.
Come avete reagito a questo cambiamento?
Anche noi abbiamo dovuto cambiare pelle. Siamo passati da una psichiatria già diversa rispetto a quella canonica a una che esce del tutto dagli schemi mentali e culturali rigidi e che accoglie la diversità. Noi tutti abbiamo gli assunti di base dell’etnopsichiatria, ovvero contestualizzare il disagio e la malattia psichica all’interno del quadro culturale di provenienza, ma siamo stati chiamati a formarci di nuovo, a trovare nuove chiavi di lettura.
Com’è strutturato il servizio?
L’équipe è composta da due assistenti sociali, quattro psicologi e psicoterapeuti, un educatore professionale, un’infermiera e io, l’unico medico psichiatra della sede. In genere, io e un collega psicologo ci occupiamo del cosiddetto assessment, una prima valutazione psicologica; poi, attraverso un grande lavoro interdisciplinare, avviamo i percorsi di terapia.
Come entrate in contatto con i pazienti?
La rete di contatti con l’esterno è immensa. La maggior parte degli invii avviene da parte degli operatori dei centri di accoglienza straordinaria (CAS), quando vengono intercettati dei segnali di sofferenza e di disagio. Lo stesso avviene con la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Poi, quando è possibile, collaboriamo con il tribunale dei minori. Siamo un po’ il collettore finale delle situazioni più gravi.
Come comunicate con i pazienti? Assumete dei mediatori?
La nostra struttura comprende anche i mediatori linguistici, parte integrante e fondamentale del lavoro. Non sono solo degli interpreti, ma dei veri e propri traghettatori culturali. Quando gli operatori richiedono una mediazione, ci serviamo di un gruppo di mediatori fidati. Loro ci garantiscono la continuità, soprattutto nei percorsi psicoterapici dei pazienti.
Entrate a contatto con situazioni di grave sfruttamento lavorativo? Come le gestite?
Sì. Siamo a conoscenza di situazioni di grave sfruttamento lavorativo che, per ovvi motivi, non possono emergere. Queste persone si trovano impossibilitate a combattere a causa della mancanza di documenti. Possiamo solo seguire i pazienti in un percorso di auto-consapevolezza rispetto ai propri diritti.
Una vulnerabilità pregressa può portare a una predisposizione al grave sfruttamento lavorativo? E viceversa, il grave sfruttamento lavorativo può condurre a una determinata condizione di vulnerabilità psichica e psicologica?
C’è una netta correlazione tra una vulnerabilità individuale e la possibilità di sfruttamento lavorativo. Ed è vero che lo sfruttamento lavorativo a sua volta incide sulla vulnerabilità psichica del soggetto. Questo mette in luce un altro fenomeno, a mio parere legato al radicale cambiamento dei flussi migratori citato in precedenza. Negli ultimi dieci anni circa il panorama è del tutto cambiato: non sono più i ragazzi forti a partire, ma i più fragili. Ci troviamo quindi sempre di più a contatto con persone fragili, da un punto di vista psichico e comportamentale. Questo implica un avvicinamento al sottobosco delinquenziale e un conseguente collocamento nel mercato nero. E sì, purtroppo: tanto più sono fragili e vulnerabili, tanto più sono manovrabili.
Quale è il vostro approccio? Cosa lo distingue dagli altri?
Quella che noi chiamiamo “terapia di corridoio” fa parte del nostro particolare approccio: magari un paziente arriva per vedere lo psicologo, io lo saluto da una stanza all’altra, ci facciamo una chiacchierata o ci beviamo un caffè. Tutti i miei pazienti in genere mi chiamano Marzia, non porto il camice e ormai ho un’età che mi mette nella posizione di poter essere ascoltata e rispettata. Ho fatto in modo che la sede non sembrasse un laboratorio, piuttosto una casa: per scelta non abbiamo videocamere e c’è totale libertà di spostamento. La grande fiducia che diamo ai pazienti trasmette loro la nostra volontà di farli sentire al sicuro. Questo non è buonismo, fa parte della professione ed è il modo per far sì che le persone percepiscano questo come un posto sicuro in cui sentirsi accettati, ascoltati, accolti.
Photo credits: africarivista.it