Reddito di cittadinanza: non basta cambiare le parole per rendere “occupabili” i “disoccupati”

Una settimana di passi falsi e parole fuori luogo hanno segnato l’esordio del nuovo Governo sui temi del lavoro.

Con la nuova legge di bilancio il Governo Meloni trova nella riforma del Reddito di Cittadinanza il megafono di cartone con cui confermare ai suoi elettori il rispetto delle promesse elettorali.

Considerando la scarsa copertura finanziaria, sarebbe stato sicuramente molto più difficile impegnarsi su terreni più strategici ma anche più controversi come il cuneo fiscale, (altri) incentivi alle aziende (non a caso Bonomi è su tutte le furie), le tantissime crisi aziendali i cui tavoli di lavoro sono aperti da più di due anni, incentivi a chi assume, una supervisione più accurata delle cartelle esattoriali che stanno strozzando liberi professionisti e piccole attività. E, dunque, niente di meglio e al tempo stesso di facile presa che abolire la misura più chiacchierata degli ultimi anni dando un colpo al cerchio (l’opinione pubblica alimentata da articoli scandalistici sui giornali) e uno alla botte (imprenditori e loro associazioni di categoria che hanno trovato nel Reddito di Cittadinanza il miglior capro espiatorio a una mancanza di visione a medio termine e di programmazione: in molti ricorderanno albergatori e ristoratori che a maggio – giugno, alle porte della stagione estiva, si lamentavano di non trovare personale).

I numeri e le lettere del RdC

La nuova Ministra del Lavoro Elvira Calderone, prima fra tutti, ha ben chiaro che l’abolizione del Reddito di Cittadinanza sarà una bomba sociale che – nonostante i luoghi comuni spesso non verificati che gli sono stati cuciti attorno – colpirà fasce molto deboli di popolazione. La Ministra ha puntato i piedi, ottenendo una dilazione per tutto il 2023 rispetto alla chiusura immediata proposta dal Governo.

Quanti sono dunque i percettori di reddito? L’unica fonte attendibile è l’INPS e gli ultimi dati, relativi ai primi otto mesi dell’anno, parlano di 1.063.164 nuclei familiari per un totale di 3.386.231 persone.

Chi sono i percettori di reddito? Cittadini con più di 18 anni che risultano disoccupati e che hanno un reddito inferiore a 9360 euro l’anno . L’identikit disegnato da ANPAL per metà riguarda persone dichiarate “non occupabili” perché senza alcuna competenza, con problemi di salute o disoccupati da più di tre anni. Altri hanno un’età per la quale il mercato del lavoro tende a escluderli.

Chi invece ha più o meno felicemente sottoscritto un “patto per il lavoro”, siglato con contratti prevalentemente a tempo determinato, rientra nell’oltre milione e mezzo di persone. Numeri ben diversi da quelli riportati dai delatori del RdC che affermano senza se e senza ma il flop del sussidio, soprattutto se parla solo in virtù delle testimonianze di certi selezionati imprenditori ospitati sui giornali o se messi a confronto con i risultati degli inossidabili Centri per l’Impiego recentemente rifinanziati dal Governo Draghi e che da sempre non intermediano nemmeno il 2% della domanda nazionale, ma che sono sempre lì.

Cosa vuol dire “occupabili”? Sono i beneficiari che potevano firmare il “patto per il lavoro”, circa un terzo dei percettori totali. Di questi, 173 mila un lavoro già ce l’hanno, ma hanno una retribuzione talmente misera che il reddito permette loro di sopravvivere con dignità.

Cosa prevede il nuovo RdC

A grande richiesta (in primis delle associazioni di categoria), ecco dunque la riforma che prevede una riduzione dell’erogazione del sussidio che passa dai 18 mesi rinnovabili (come è stato fino a oggi), a 7/8 mensilità. Sono esclusi dalla riforma tutti coloro che hanno a carico minori, disabili e over 60. I poveri che possono lavorare rimarranno poveri se non troveranno un lavoro, anche se la loro condizione di inoccupabili li rende per l’appunto, e non a caso, tali.

A questi, vengono offerti corsi di formazione e di riqualificazione professionale che – scusate il cinismo – saranno una grande opportunità per le solite agenzie di formazione legate a doppio filo al sistema della PA e delle agenzie private che hanno già iniziato a fare pressing per garantirsi il gustoso boccone.

Come conferma anche Marco Bentivogli su Repubblica di ieri, queste sono grandi opportunità per le società di consulenza e, personalmente, aggiungo anche che poco incideranno sulla professionalità di chi sarà sempre una seconda scelta rispetto a chi lo stesso lavoro lo esercita da anni o rispetto a giovani, carini e disoccupati.

Se invece parliamo di figure di bassissimo livello, c’è davvero bisogno di formazione? O basterebbe la volontà di Comuni e istituzioni per trovare uno spazio di lavoro all’interno della comunità?

Il 1 gennaio 2024 il Reddito di Cittadinanza, che si attesta ad una cifra media di 570 euro lordi, verrà abolito definitivamente e sostituito da “qualcosa” su cui il nuovo Governo lavorerà. Ma se, come ritiene qualcuno, quei 570 euro sono “competitor” sufficienti a far rifiutare proposte, quel “qualcosa che verrà” sarà bene che preveda anche maggiori controlli alle imprese e che vada a braccetto anche con una revisione dei Contratti Collettivi Nazionali per riaprire il dibattito sul salario minimo che il Governo precedente ha derubricato con grande facilità.

Alcuni di quei Contratti Collettivi, che Brunetta ritiene “garanti di salari adeguati”, in alcuni casi non raggiungono i 6 euro l’ora di retribuzione come nel caso dei portieri di prestigiose università e di palazzi della Pubblica Amministrazione.

Ieri delatori, oggi sostenitori

Sarebbe da studiare da un punto di vista fenomenologico (oltre che di onestà intellettuale della nostra informazione di massa) l’atteggiamento dei giornali nei confronti del Reddito di Cittadinanza che fino a ieri ospitavano testimonianze ben selezionate fra i politici locali e gli inserzionisti più fedeli a supporto della leggenda secondo cui il Reddito di cittadinanza avesse generato divanisti e fannulloni (sconfessato anche da Tito Boeri). Oggi, quegli stessi giornali strillano la necessità di conservarlo e migliorarlo, gli stessi che hanno nascosto i numeri chiari e ufficiali disponibili sui canali dell’INPS e della Corte dei Conti e confermati da una ricerca della Caritas che ha mappato il milione di poveri che sopravvive solo grazie al sussidio.

A volte basta un cambio di Governo per far cambiare opinione sullo stesso argomento.

Viva l’umiliazione

I mesi che abbiamo davanti, in vista di una nuova crisi ancora non del tutto espressa nella sua forma peggiore, non lasciano presagire grandi speranze per la tutela dei lavoratori neanche sotto questa legislatura.

È di ieri la dichiarazione infelice del titolare del Ministero dell’Istruzione (e per non farci mancare nulla anche del Merito): “Soltanto lavorando per la collettività, umiliandosi anche, si prende la responsabilità dei propri attiEvviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di fronte ai propri compagni. Da lì nasce il riscatto.

Una perla di saggezza che illumina la strada del lunghissimo tunnel della comunicazione in cui si stanno infilando uno dietro l’altro i Ministri nei primissimi giorni dalla nomina.

A peggiorare le cose, la proposta del reinserimento dei voucher dell’era Renziana che diedero la stoccata finale alla regolarità nei rapporti di lavoro in mestieri come braccianti, colf, badanti, lavoratori agricoli e del turismo dove il nero è all’ordine del giorno. Chi pensò la formula dei voucher fu così ingenuo (ma a pensar male a volte si indovina) da permettere la registrazione del voucher fino a 24 ore dopo la prestazione d’opera.

Il successo dei voucher si spiega da solo: nel 2008 i voucher venduti erano 536 mila mentre nel 2016 avevano raggiunto i 134 milioni.

Il governo pare voler ripristinare questo far west per venire incontro alle imprese del turismo (già aiutate dalla possibilità per gli stagionali di mantenere il Rdc) e dell’agricoltura, tipo Coldiretti, che da anni lamentano una fuga dei braccianti che i dati Inps smentiscono. Poco importa, poi, che lo stop del 2017 ai voucher non abbia fatto aumentare il lavoro nero e che i settori coinvolti siano quelli con la quota più alta di lavoratori con reddito inferiore ai 10 mila euro lordi annui.

Carlo di Foggia, Il Fatto Quotidiano – 24/11/2022

Oltre il RdC. Bonomi: “Manca la visione”

Fra i camaleonti dell’opinione, anche il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che da sempre osteggia il Reddito di Cittadinanza e che qualche mese fa aveva rilasciato dichiarazioni al vetriolo a fronte di numeri totalmente inventati. Ne avevamo parlato qui.

In un’intervista a La Stampa del 22 novembre, è evidente che questa legge di bilancio non gli sia andata giù, a partire dalla riforma del cuneo fiscale (sul tema, a dire il vero, Bonomi non ha tutti i torti). Il Presidente degli Industriali si aspettava un aiuto di Stato più consistente. All’ironia del giornalista Marco Zatterin: “deduco che siamo lontani dal modello di riforma fiscale dei suoi sogni”, Bonomi risponde: “[…] se riduci le tasse agli autonomi, il lavoratore che ha la stessa retribuzione paga tre volte tanto”.

Un’affermazione che ancora una volta tradisce l’insofferenza che Bonomi ha per i dati, preferendo affidarsi a informazioni di cui detiene il copyright.

La chiusura è disarmante: “Alcuni dipendenti iniziano a dire alle imprese che preferiscono passare alla partita IVA perchè così risparmiano sulle tasse”.

Mi permetto di far notare, e senza alcun timore di essere smentito, che difficilmente un dipendente d’azienda si sogna di passare a partita IVA considerando le aliquote capestro che il nostro Paese destina ai liberi professionisti e che – semmai – sono le aziende che sempre più spesso “suggeriscono” ad alcune figure professionali di passare a partita IVA “se vogliono dare continuità al loro lavoro in azienda”.

Vedi alla voce: “sarebbe meglio ti dimettessi, ma ti garantiamo un contratto come consulente esterno” tanto in voga negli ultimi anni fra le imprese più all’avanguardia nella gestione del personale.

“Manca una visione”, continua Bonomi in questa intervista – “viviamo drammi industriali a cui vorremmo dare risposta e tutti cominciano con la “I”: Ita, Ilva, Isab, Intel”.
No Presidente, i drammi aziendali non iniziano solo con la “I”. Si chiamano anche Electrolux, Augustin Breda, Fimer, Flextronics, Speedline, GKN, Pernigotti e altri 60 tavoli di crisi aperti per i motivi più svariati, che il nostro giornale monitora periodicamente.

Dalla concorrenza sleale ai fondi di investimento che chiudono senza soluzione di continuità anche quando le produzioni sono in attivo, in molti di questi tavoli Confindustria è coinvolta direttamente ma le domande sono ancora in attesa di una risposta.

Confidiamo che questo Governo, che ama i toni drastici della concretezza, sappia esprimersi al suo meglio in quelle sedi, iniziando a tutelare davvero la produzione interna, gli imprenditori attratti dalle sirene di costi più vantaggiosi in Paesi confinanti e ponga un freno alle acquisizioni leggere di fondi di investimento e pirati alla riscossa senza piani industriali.

Smarcato questo, sono certo che migliaia di lavoratori saranno ben felici di non dover ricorrere ad alcun sussidio perché il lavoro avrà finalmente la dignità che si merita. Anche in questo Paese.

Leggi gli altri articoli a tema Reddito di Cittadinanza.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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