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Numero 31 &#8211; Ogni maledetta domenica

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<p>Dentro l&#8217;Italia dei venditori e dei mercati ambulanti, una realtà consolidata che ha rischiato di sparire con l&#8217;ondata del COVID-19.</p>


Numero 102 &#8211; L&#8217;Italia ambulante

Dentro l&#8217;Italia dei venditori e dei mercati ambulanti, una realtà consolidata che ha rischiato di sparire con l&#8217;ondata del COVID-19.

Numero 102 - L'Italia ambulante

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Dentro l'Italia dei venditori e dei mercati ambulanti, una realtà consolidata che ha rischiato di sparire con l'ondata del COVID-19.


<p>Un libro molto bello di <strong>Tim Ferriss</strong>, chiamato <strong><em>4 ore alla settimana</em></strong> – titolo originale <em>The 4 Hour Workweek</em> – racconta il <strong>grande inganno della valutazione del lavoro in ore</strong>. Si tratta di un concetto difficile da accettare per la maggioranza delle persone, dal momento che la nostra cultura, come tante altre culture occidentali, tende a premiare il sacrificio più che la produttività. Cercare di essere produttivi è invece, secondo l&#8217;autore, molto più importante che essere impegnati:</p>



<p>“Alternare periodi di attività e di riposo è necessario per sopravvivere, figuriamoci per prosperare.”</p>



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<h2 id="h-il-modello-della-settimana-lavorativa-da-quattro-giorni">Il modello della settimana lavorativa da quattro giorni</h2>



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<p>Nelle scorse settimane si è parlato molto, e su diverse testate, del modello della <strong>settimana lavorativa da quattro giorni</strong>: l&#8217;idea viene dai Paesi scandinavi (Norvegia e Svezia, punti di riferimento piuttosto distanti da noi soprattutto per i salari, prima ancora che per il welfare: tanto per intenderci sono due Paesi in cui la paternità dura gli stessi mesi della maternità) e inizia a essere adottata anche in paesi mediterranei come la Spagna e la Francia.</p>



<p>Alcune aziende internazionali, come <strong>Unilever</strong> o <strong>Microsoft</strong>, hanno già iniziato a usare questo modello che <strong>riduce le ore settimanali da 40 a 32</strong> – in alcuni casi si arriva a 35 – spalmate dal lunedì al giovedì. Secondo i sostenitori della tesi, ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni avrebbe delle&nbsp;<strong>ripercussioni positive importanti sia per l’ambiente</strong> – per questo basterebbe incrementare lo smart working anche post pandemia – <strong>sia per i lavoratori</strong>. Sempre più spesso, infatti, il lavoro si protrae oltre l’orario nel quale si dovrebbe presenziare in ufficio: con la spinta del <em>remote</em> è sempre più difficile distinguere il momento del lavoro da quello dell&#8217;ozio.</p>



<p>È&nbsp;evidente che <strong>le persone sono</strong>, ormai, <strong>costantemente connesse</strong>: si svegliano controllando il telefono e le e-mail e rimangono reperibili da quando suona la sveglia a quando preparano la cena. Molti pasti si consumano davanti al monitor o con lo smartphone sempre a portata di mano, ed è anche per questo che la Commissione Europea ha lanciato, nei mesi scorsi, la proposta di introduzione del <strong>diritto alla disconnessione</strong>, ovvero la possibilità di staccare definitivamente dal lavoro al termine del proprio orario, stabilito da contratto. Lì dove presente, ovvio.</p>



<p>Ma è davvero questa la soluzione? È sufficiente ridurre il numero di ore lavorate per ridurre lo stress e avere più tempo per passare dal <em>negotium</em> all&#8217;<em>otium</em>?</p>



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<h2 id="h-quattro-giorni-lavorativi-su-sette-ma-chi-ne-beneficerebbe">Quattro giorni lavorativi su sette. Ma chi ne beneficerebbe?</h2>



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<p>In prima battuta, è bene sgomberare il campo da equivoci. Quella che secondo alcune testate è una <strong>rivoluzione</strong>, tanto da meritare titoli a sensazione è una questione che riguarda soprattutto le aziende multinazionali e una determinata categoria di lavoratori: quelli che una volta erano chiamati <strong>colletti bianchi</strong>, e che adesso indossano abiti casual dietro le webcam di un pc. Ma sempre di lavoratori e lavoratrici di concetto, o di pensiero, parliamo.</p>



<p>Questa proposta, che suscita scalpore a maggior ragione in un periodo in cui molti si sentono prigionieri di una vita in cui il concetto di “intrattenimento” ha subito un ridimensionamento drastico, è molto difficile da regolamentare e non considera un presupposto fondamentale: ossia che <strong>proprio per la categoria di lavoratori di pensiero è difficile ingabbiare la settimana lavorativa</strong> in un determinato numero di caselle di excel che rappresentano le <strong>ore</strong>.</p>



<p>Se oggi <strong>i lunedì</strong>, dopo due giorni di pausa, sono complicati perché c&#8217;è da riprendere il filo di cose lasciate a metà il venerdì pomeriggio (in alcune aziende i “buon weekend” <em>aka</em> “ne riparliamo la settimana prossima” iniziano già da mezzogiorno), <strong>dopo uno stacco di tre giorni</strong> rischiano di diventare <strong>drammatici</strong>. Molti lavorerebbero ancora più in apnea di quanto fanno oggi. Tanti si porterebbero comunque il lavoro a casa, nel vero senso della parola, o in senso figurato in epoca di smart working. E la settimana lavorativa finirebbe per diventare una metafora di un concetto già piuttosto anacronistico, quello del <strong>lavoro</strong>&#8211;<strong>pensione</strong>. La pensione come traguardo o redenzione finale ricorda molto questo assunto.</p>



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<h2 id="h-rischi-e-vantaggi-del-4-3">Rischi e vantaggi del 4 + 3</h2>



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<p>L&#8217;equilibrio andrebbe forse ricercato e costruito altrove: garantendo, ad esempio, il <strong>diritto</strong> – e questa è una proposta interessante – <strong>allo sport e all&#8217;ozio quotidiano</strong>. Inteso come lettura, come tempo per la famiglia, preparazione di un pasto da consumare a tavola e non sulla scrivania in fretta e furia, tempo per le relazioni.</p>



<p>L&#8217;idea dei due tempi completamente staccati tra loro, il <strong>4 + 3</strong>, rischia di creare una <strong>frattura culturale definitiva tra fatica</strong> (come chiamano il lavoro in certe regioni d&#8217;Italia) <strong>e passione</strong>. Un po&#8217; come quando si andava a scuola – sembra una vita fa, in tutti i sensi – e si aspettava giugno per staccare la spina per tre mesi. Magari è anche in virtù di quel tipo di educazione, perché la scuola incide nella nostra vita molto di più di ciò che pensiamo e difficilmente ricapiterà di nuovo un&#8217;occasione (drammatica vero, ma pur sempre occasione) per poterla ripensare, che siamo portati a pensare a compartimenti stagni. E quindi <strong>lavoro e tempo libero</strong> sono due mondi che devono vivere separati. Scuola-vacanza. Lavoro-pensione. Quattro giorni di lavoro e tre di svago. Tutto sembra tornare.</p>



<p>È vero che una <strong>regolamentazione</strong> serve nel momento in cui la norma diventa un&#8217;ora di straordinari non pagati di default tutti i giorni, che almeno 2-3 giorni ogni due settimane si va oltre le due ore, e che anche nel bel mezzo di una pandemia lo smart working è concesso in forma omeopatica un giorno a settimana a persona a ufficio: la partizione lavoro-tempo libero diventa allora il tentativo, criticabile e migliorabile, di <strong>porre un argine all&#8217;esondazione del lavoro nella vita di ognuno</strong> – a maggior ragione se libero professionista, imprenditore, non contrattualizzato – a causa della digitalizzazione.</p>



<p>Quindi lo schema 4 + 3 pone, a onor del vero, un <strong>limite a clienti, fornitori, capi che non conoscono rispetto degli orari</strong> – sono troppi quelli che non chiedono più se stai pranzando – e si approfittano della precarietà diffusa. Ma se dopo un anno come quello appena passato ci troviamo ancora a spaccare la vita dal lavoro e a non capire che l&#8217;equilibrio sarà sempre più soltanto dentro una loro coesione intelligente e rispettosa, stiamo davvero perdendo l&#8217;ennesima occasione di qualità del nostro tempo.</p>



<p>Non è solo una questione di allenamento, ma anche di non godere la bellezza del tenere allenati in libertà il cervello, il cuore e i pensieri (anche) quando si è in ozio.</p>



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<h2 id="h-quattro-giorni-per-stimolare-il-talento">Quattro giorni per stimolare il talento</h2>



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<p>Parlare di modelli organizzativi del lavoro su “base tempo” fa parte di un modo di leggere le culture organizzative molto vecchio. <strong>Non esiste</strong>, o quantomeno non è facilmente declinabile, <strong>un modello organizzativo applicabile a ogni contesto</strong>, perché ogni contesto lavorativo ha la sua cultura fatta di codici ben distintivi, e volerla per forza rinchiudere in cluster definiti potrebbe risultare un errore.</p>



<p><strong>Dividere lavoro e vita privata</strong> come se fossero due cose che corrono parallele senza mai intercettarsi è <strong>utopistico</strong>, ora più che mai. Al netto del “dipende da che lavoro fai”, è un problema legato a come tradizionalmente il lavoro viene inteso e vissuto dalla nostra cultura in particolare, dove bisogna per forza chiudere un capitolo e iniziarne un altro. Il paragone con l&#8217;estero andrebbe sempre approfondito: si tende a dire che in certi Paesi i lavoratori “fanno cadere la penna alle 16:30”, senza sapere che in alcuni casi parliamo di culture in cui si esce da lavoro per poter fare le proprie cose – sport, figli, intrattenimento – per poi riprendere quanto lasciato in sospeso più tardi. Interrogarsi su che cosa è il lavoro per noi, che cosa vuol dire, se siamo felici di quel che facciamo, se è arrivato il momento di cambiare, è essenziale.</p>



<p>Probabilmente i sostenitori del 4+3 citeranno la <strong>legge di Parkinson</strong>:</p>



<p>“Il lavoro si espande fino a occupare tutto il tempo disponibile; più è il tempo e più il lavoro sembra importante e impegnativo.”</p>



<p>Una <strong>scadenza ravvicinata </strong>ci costringe a focalizzarci sugli obiettivi che dobbiamo raggiungere: il rischio di non riuscire a completare il lavoro, e le possibili conseguenze negative, <strong>ci motiva</strong>. E quindi meno giorni e meno ore potrebbero portarci a fare tutto meglio, a ottimizzare i tempi delle riunioni, dei meeting, delle call inutili e a diventare più produttivi. Ma anche in questo caso, sarebbe opportuno prendere in considerazione prima un programma di gestione del tempo, di ottimizzazione del tempo e delle risorse, di valorizzazione del talento. Se <strong>talento</strong> vuoi dire “saper fare la miglior cosa possibile nel minor tempo possibile”, allora la chiave è lì. Ma anche il talento ha bisogno di allenarsi, di nutrirsi, di contaminarsi. Il problema non è lavorare meno, ma semmai lavorare meglio. Ogni giorno.</p>



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<p><em>Photo credits: shrm.org</em></p>


Tu vuò fa&#8217; &#8216;o norvegese, ma lavori in Italy


<p>Da dove scrivo, <strong>Pasqua</strong> non è “solo” la più importante festività religiosa dell’anno, ma molto di più. In una settimana ad Alatri, un borgo del basso Lazio, fiumi di persone si riversano nei vicoli districandosi in una convivenza tra sacro e profano sdoganata dal tempo, e confermando proprio in quei giorni la loro identità di città. Non è questo, in fin dei conti, il potere delle tradizioni?</p>



<p>In quei sette giorni processioni, funzioni religiose e ceri si alternano naturalmente con le bancarelle di dolciumi e di vecchi cd musicali, creando un microcosmo nel quale il latino delle preghiere e il neomelodico dei venditori più audaci sembra abbiano vissuto sempre insieme.</p>



<p>La rievocazione storica della Passione, che si svolge il Venerdì Santo e che coinvolge oltre duecento figuranti, ne è la perfetta sintesi. Parteciparvi – da spettatori o da protagonisti – è diventata un’abitudine per tutti gli abitanti di zona, al pari del dolce tipico di una ricorrenza. Quasi come dire: non è Natale senza panettone, non è Pasqua senza processione.</p>



<p>Il clima di festa però inizia il giorno, prima con il tradizionale rito dei “<strong>sepolcri</strong>” (“fare i sepolcri” è un modo di dire tipico del meridione che identifica il visitare sette chiese durante la sera del giovedì) e la sua versione pagana dei “sette bar”.</p>



<p>“In quella settimana, di solito”, mi dice <strong>Francesco</strong>, proprietario di uno dei bar del centro storico di Alatri, “diamo senso ai primi tre mesi dell’anno, che comprensibilmente per noi ristoratori sono morti. Con tutte le iniziative pasquali e la quantità di persone che si riversa nelle strade, <strong>in sette giorni incassiamo quello che solitamente guadagneremo in un mese</strong>.”</p>



<p>Dicevo una settimana, però, perché qui dove vivo le festività iniziano il giovedì e si prolungano oltre il Lunedì dell’Angelo dato che il santo patrono viene celebrato, per esigenze logistiche e tradizione, il mercoledì successivo alla Pasqua. E proprio quel giorno il paese esplode attorno alla titanica statua raffigurante il santo che viene trasportata a spalla per tutto il centro storico, accompagnata da urla, preghiere e lacrime di commozione.</p>



<p>Oltre il sacro; giostre, luminarie, musica dal vivo, artisti di strada e <strong>ambulanti</strong> concorrono a dar vita a quella festa nella quale le stesse strade, le stesse persone di tutti i giorni sono più belle e un po’ speciali.</p>



<p>L’emergenza <strong>COVID-19</strong> ci ha privati di tutto questo, e probabilmente possiamo farne a meno, ma ai <strong>professionisti della festa</strong> ha tolto qualcosa in più.</p>



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<h2 id="h-ansiolitici-e-incertezza-l-economia-delle-fiere-di-paese-alla-canna-del-gas">Ansiolitici e incertezza: l’economia delle fiere di paese alla canna del gas</h2>



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<p><strong>Fabrizio</strong> ha un ristorante che sta per chiudere. I 3.660 euro d’affitto sono diventati insostenibili, ma è anche un’istituzione delle sagre e delle processioni con il suo <strong>camion dei panini</strong> che troneggia in ogni festa di paese. Durante la Settimana Santa, tra il giorno della processione e quello del patrono, il suo volume di affari si aggira intorno ai 70.000 euro, generato da 15 ragazzi e ragazze che lavorano con lui nel corso della stagione.</p>



<p>“Molti di noi hanno iniziato con gli <strong>ansiolitici</strong>. Non sappiamo cosa fare, dove metterci, ma soprattutto <strong>non capisco perché i mercati si possano fare e le fiere no</strong>. E pensare che anche i mercati all’aperto sono stati messi in discussione senza che mai un dubbio abbia riguardato i <strong>centri commerciali</strong>, che invece sono al chiuso.”</p>



<p>“Le fiere non si fanno, la Pasqua è saltata e il nostro comune non ha neppure regolamentato un piano per permetterci perlomeno di posizionarci in un’area dedicata. Se continua così salgo sul camion, metto in moto e mi fermo nel posto che ritengo migliore senza pensare ad alcuna autorizzazione. Che poi vengano a dirmi qualcosa, <strong>dobbiamo pur vivere in qualche modo</strong>. Vogliamo farlo facendo il nostro lavoro.”&nbsp;</p>



<p>Fino a ora ho parlato della mia città, un borgo del basso, Lazio ma purtroppo la drammaticità della situazione è estendibile a tutto lo stivale. I Vattienti di Nocera Terinese, l’Abballu de li diavuli a Prizzi, i Pasquali di Bormio o la processione dei misteri di Trapani quest’anno non si faranno.</p>



<p>“Sono giorni che vengo in ufficio e guardo fisso il monitor del mio computer”, mi dice <strong>Silvio</strong>, titolare di un’azienda di luminarie nel beneventano. “La segretaria l’abbiamo mandata a casa, non sapevamo cosa farle fare, e i ragazzi che montano le strutture sono in attesa di una qualche risoluzione. Ma la vera cosa che mi preoccupa è il futuro. Il nostro lavoro ha bisogno di essere pianificato con 6/7 mesi di anticipo e richiede investimenti. <strong>È&nbsp;l’incertezza a gettarci nello sconforto</strong>.”</p>



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<h2 id="h-lo-sciopero-degli-ambulanti-del-6-aprile">Lo sciopero degli ambulanti del 6 aprile</h2>



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<p>Nonostante l’evidente importanza di queste festività, degli <strong>ambulanti</strong> e dell’indotto che genera una filiera simile, l’argomento resta relegato ai trafiletti di giornali e a discussioni non certo di prim’ordine su tavoli della politica. Perché?</p>



<p>“È esattamente questa la domanda che noi rivolgiamo al governo”, mi dice <strong>Marrigo Rosato</strong>, segretario nazionale dell’ANA-UGL, l’Associazione Nazionale Ambulanti, che per puro caso ho scoperto essere di un paesino non lontano dal mio. “<strong>Perché?</strong> Il 6 di aprile si è svolta una giornata di mobilitazione nazionale e vogliamo far partire una richiesta di incontro a Draghi, Giorgetti e Franco per avanzare le nostre richieste. Abbiamo fatto altre manifestazioni e continueremo a farle perché <strong>sentiamo forte la disattenzione delle istituzioni verso la nostra categoria</strong>. I prossimi 10-15 giorni saranno decisivi”.</p>



<p>Gli <strong>aiuti</strong> che sono stati erogati, come immaginabile, scontentano molti se non tutti. “<strong>Il mio codice ATECO</strong> – mi dice <strong>Massimo</strong>, che da tre generazioni vende noccioline nelle fiere di paese – <strong>non è stato proprio contemplato</strong>. In un anno ho ricevuto per due volte seicento euro ed è impensabile andare avanti così. Oggi vivo alla giornata, facendo qualsiasi lavoretto mi capiti sottomano.”.</p>



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<h2 id="h-abbiamo-fatto-del-sommerso-ma-gli-aiuti-servono-anche-a-noi">“Abbiamo fatto del sommerso, ma gli aiuti servono anche a noi”</h2>



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<p>Il problema però è anche un altro. Lo standard adottato dal governo per stabilire gli importi delle sovvenzioni è il <strong>fatturato delle precedenti annualità</strong>, ma per gli ambulanti il delta tra il dichiarato e l’incassato è sempre stato estremamente ampio.</p>



<p>“Il <strong>sommerso</strong> – ha proseguito Rosato – c’è e c’è stato, ma è <strong>un’arma di difesa</strong>. Oggi non siamo sostenuti da nessuno, le banche non ci concedono mutui o finanziamenti ed erogare i contributi sul fatturato porta a pagarne le conseguenze.”</p>



<p>“Per questo stiamo chiedendo al governo di dare <strong>un contributo che sia diversamente commisurato</strong>. Se a un’impresa con un volume di affari di 10 milioni si fanno arrivare 150.000 euro si è fatta un’operazione praticamente irrilevante. Bisogna aiutare i piccoli a resistere e a superare questo momento. <strong>Vorremmo che fosse direttamente lo Stato a dare liquidità</strong> tramite un finanziamento ai piccoli commercianti, permettendo loro di restituirlo in un ampio lasso di tempo.”</p>



<p>Quello che una festività come la Pasqua cela, oltre il senso religioso per chi lo vive, è articolato e di grande portata.</p>



<p>Da una parte c’è un <strong>significato socioculturale</strong> la cui dimensione è spesso inversamente proporzionale alla dimensione del luogo. Sempre Silvio mi ha detto: “Nelle piccole contrade, a maggior ragione in quelle un po’ dimenticate, le persone vivono in funzione di quella ricorrenza, nella speranza di potersi ritrovare in strada tutti insieme e dire all’unisono: noi ci siamo”.</p>



<p>Dall’altra c’è un’economia, e quindi intere famiglie, che vive su questo, che trova nelle <strong>fiere di paese</strong> quel modo di diventare parte della tradizione e quindi di sopravvivere: mica noccioline.</p>


Che Italia siamo senza ambulanti e fiere di paese?

<p>Ambulante è già di suo un participio presente che dice tutto sulle variabili e sulle incertezze; messo accanto alla parola venditore, la parola a dir poco raddoppia i fattori di rischio. Eppure i venditori ambulanti tutte quelle variabili le mettono in conto dal primo momento in cui scelgono di fare il proprio mestiere su strada e le hanno sempre guardate in faccia. Finché la pandemia non li ha messi in ginocchio, nonostante la loro enorme capacità di adattamento perché chi sfida ogni giorno la mobilità ha di sicuro più anticorpi di chi ha scelto di stare in un negozio.</p>
<p>Con le fiere ferme da un anno, e i mercati a mezzo regime tra le polemiche sui criteri con cui la politica reputa essenziale vendere fiori e frutta rispetto a scarpe e abbigliamento (salvando però la biancheria intima). E sulle incongruenze di molte altre imposizioni si potrebbe discutere a lungo.</p>
<p>Per i venditori ambulanti, conti alla mano, oltre ai mancati appuntamenti settimanali nei quartieri e nelle piazze sono passate anche due Pasque consecutive senza le economie che tenevano in piedi intere famiglie e interi paesi; via le sagre, via le rievocazioni, via le bancarelle.&nbsp;</p>
<p><strong>Quello che stiamo vivendo non è il tempo in cui trovare il colpevole o puntare il dito ma il tempo in cui mettere sulla bilancia il patrimonio che stiamo rischiando di perdere</strong>. Serve correre in fretta ai ripari perché i lavori ambulanti seri, legali e organizzati sono anche un’espressione culturale e un’eredità lontanissima che ci permette di rimanere ancorati a quella forma superiore di relazione che si chiama oralità.</p>
<p>Proprio ieri il sito <strong>Scienza in Rete</strong> ha pubblicato uno splendido articolo che cita <strong>la storia del succiamiele del reggente, un uccello grande come un merlo e a rischio di estinzione in Australia.</strong> Contano che siano rimasti appena 400 esemplari su un’area di 300 mila chilometri quadrati.</p>
<p>Perché mi ha fatto pensare al rischio che stiamo correndo con la crisi del commercio ambulante? Perché la scienza ha dimostrato che <strong>stanno scomparendo i canti riproduttivi dei maschi del succiamele proprio in funzione del fatto che sta calando la popolazione.</strong> Per loro il canto ha uno scopo riproduttivo e non è un gesto innato, si tramanda: soltanto a ridosso del periodo riproduttivo, gli esemplari più giovani si affiancano ai maschi più anziani dai quali imparano quelle che noi chiameremmo serenate. </p>
<p>Citando Laura Scillitani, che firma il pezzo: &#8220;<em>Analizzando i canti raccolti per cinque anni nelle foreste australiane, i ricercatori hanno trovato diverse melodie. La più diffusa, che è anche la più complessa, l’hanno chiamata&nbsp;Blue Mountain, dal nome del luogo in cui si concentra la maggior parte dei succiamiele per riprodursi. Circa il 27% dei maschi, però, sbaglia la melodia: intona una versione molto più breve e semplificata di Blue Mountain, oppure usa i richiami nuziali di altre specie canore presenti nella foresta. Il fattore chiave che influenza il tipo di canto è la densità di popolazione: meno sono i maschi presenti in una zona più è probabile che i giovani apprendano una melodia errata. In particolare, se la densità è molto bassa, è facile che i giovani si mettano a copiare i canti di altre specie. Va da sé che le femmine di succiamiele restino alquanto confuse da queste modeste performance canore, e quindi i maschi &#8216;stonati&#8217; non riescono a riprodursi come gli altri. Ecco che questa mancata trasmissione culturale si traduce in un problema di conservazione: la perdita del canto diventa essa stessa fonte di declino della popolazione, diminuendo il tasso di riproduzione generale e impattando la diversità genetica”.</em></p>
<p><strong>I mestieri ambulanti sono una famiglia numerosa e multiforme, ben oltre i commercianti</strong>: <strong>per questo mensile di <em>SenzaFiltro</em> siamo andati a capire quale sia nel 2021 la situazione di giostrai senza giostre, piccoli editori senza fiere, circensi senza i tendoni, artisti di strada senza marciapiedi, librai senza bancarelle, guide turistiche senza arte da poter spiegare. L’Italia è ferma e, con lei, tutta la cultura nella sua accezione più ampia.&nbsp;</strong></p>
<p>Davanti alla pandemia si muovono però i più impavidi, convinti che non ci si possa arrendere al fatto che gli spazi canonici siano (immotivatamente) chiusi: <strong>gli attori stanno imparando a inforcare le bici per consegnare il teatro o la poesia a domicilio </strong>nelle case, negli androni dei condomini o sotto le finestre degli appartamenti. Abbiamo incontrato anche loro e danno una enorme speranza: certo non è la stessa cosa che stare sulla poltrona di un teatro ma è una nuova cosa a cui prestare ascolto e attenzione.</p>
<p>Attori che non hanno paura di cambiare forma in attesa di tornare a occupare il proprio posto.</p>
<p>Hai voluto il palcoscenico? Intanto pedala.</p>


zolotti

Zolotti

Stefania Zolotti

Direttrice responsabile di SenzaFiltro e giornalista con il debole per le relazioni e le persone. Studiosa e appassionata di geografie umane e di paesi. Con la laurea in giurisprudenza non ha mai intrapreso le classiche strade: l&#8217;unico ufficio legale in cui ha lavorato è stato quello di Altroconsumo a Milano dal 2001 al 2003, con una parentesi nella sede di Bolzano grazie al patentino di bilinguismo tedesco. Dal 2002 Collabora come freelance con la rivista Business People e dal 2023 con Artribune dove racconta storie italiane di teatri di periferia. &#8220;Sentimenti precisi&#8221; è il nome del progetto con cui dal 2021 gira l&#8217;Italia tenendo laboratori contro i blocchi della scrittura: lo fa per aziende, associazioni, scuole, singole persone e gruppi. Dal 2008 al 2017 Responsabile Comunicazione e Segretaria di direzione per una grande azienda pubblica del settore ambiente dove ha sviluppato progetti di green marketing e di educazione sostenibile. Dal 2012 contribuisce a creare e coordinare progetti per la business community FiordiRisorse, che è anche l&#8217;Associazione editrice di SenzaFiltro. Autrice del libro &#8220;Ti fai male&#8221; (2020), romanzo generazionale scritto inizialmente come ghostwriter. Ha lavorato per 20 anni come giornalista nel campo del vino e del cibo collaborando con le principali testate nazionali e pubblicando due libri: &#8220;Vino a doppio senso. Guida ironica per uomini e donne&#8221; (Gabrio Marinelli Editore, 2006) e &#8220;Il Bicchiere mezzo pieno. Liberarsi dagli esperti è il primo passo per bere bene&#8221; (Le Lettere, 2020). L&#8217;ultimo libro, di cui è curatrice, è &#8220;Coaching, maneggiare con cura&#8221; di Carlo Bisi (Edizioni FiordiRisorse, 2023). &#8212; MAIL DI REDAZIONE: stefania.z@fiordirisorse.eu

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Editoriale 102. L&#8217;Italia ambulante

Ambulante è già di suo un participio presente che dice tutto sulle variabili e sulle incertezze; messo accanto alla parola venditore, la parola a dir poco raddoppia i fattori di rischio. Eppure i venditori ambulanti tutte quelle variabili le mettono in conto dal primo momento in cui scelgono di fare il proprio mestiere su strada [&hellip;]

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<p>Ambulante è già di suo un participio presente che dice tutto sulle variabili e sulle incertezze; messo accanto alla parola venditore, la parola a dir poco raddoppia i fattori di rischio. Eppure i venditori ambulanti tutte quelle variabili le mettono in conto dal primo momento in cui scelgono di fare il proprio mestiere su strada e le hanno sempre guardate in faccia. Finché la pandemia non li ha messi in ginocchio, nonostante la loro enorme capacità di adattamento perché chi sfida ogni giorno la mobilità ha di sicuro più anticorpi di chi ha scelto di stare in un negozio.</p>



<p>Con le fiere ferme da un anno, e i mercati a mezzo regime tra le polemiche sui criteri con cui la politica reputa essenziale vendere fiori e frutta rispetto a scarpe e abbigliamento (salvando però la biancheria intima). E sulle incongruenze di molte altre imposizioni si potrebbe discutere a lungo.</p>



<p>Per i venditori ambulanti, conti alla mano, oltre ai mancati appuntamenti settimanali nei quartieri e nelle piazze sono passate anche due Pasque consecutive senza le economie che tenevano in piedi intere famiglie e interi paesi; via le sagre, via le rievocazioni, via le bancarelle.&nbsp;</p>



<p><strong>Quello che stiamo vivendo non è il tempo in cui trovare il colpevole o puntare il dito ma il tempo in cui mettere sulla bilancia il patrimonio che stiamo rischiando di perdere</strong>. Serve correre in fretta ai ripari perché i lavori ambulanti seri, legali e organizzati sono anche un’espressione culturale e un’eredità lontanissima che ci permette di rimanere ancorati a quella forma superiore di relazione che si chiama oralità.</p>



<p>Proprio ieri il sito <strong>Scienza in Rete</strong> ha pubblicato uno splendido articolo che cita <strong>la storia del succiamiele del reggente, un uccello grande come un merlo e a rischio di estinzione in Australia.</strong> Contano che siano rimasti appena 400 esemplari su un’area di 300 mila chilometri quadrati.</p>



<p>Perché mi ha fatto pensare al rischio che stiamo correndo con la crisi del commercio ambulante? Perché la scienza ha dimostrato che <strong>stanno scomparendo i canti riproduttivi dei maschi del succiamele proprio in funzione del fatto che sta calando la popolazione.</strong> Per loro il canto ha uno scopo riproduttivo e non è un gesto innato, si tramanda: soltanto a ridosso del periodo riproduttivo, gli esemplari più giovani si affiancano ai maschi più anziani dai quali imparano quelle che noi chiameremmo serenate. </p>



<p>Citando Laura Scillitani, che firma il pezzo: &#8220;<em>Analizzando i canti raccolti per cinque anni nelle foreste australiane, i ricercatori hanno trovato diverse melodie. La più diffusa, che è anche la più complessa, l’hanno chiamata&nbsp;Blue Mountain, dal nome del luogo in cui si concentra la maggior parte dei succiamiele per riprodursi. Circa il 27% dei maschi, però, sbaglia la melodia: intona una versione molto più breve e semplificata di Blue Mountain, oppure usa i richiami nuziali di altre specie canore presenti nella foresta. Il fattore chiave che influenza il tipo di canto è la densità di popolazione: meno sono i maschi presenti in una zona più è probabile che i giovani apprendano una melodia errata. In particolare, se la densità è molto bassa, è facile che i giovani si mettano a copiare i canti di altre specie. Va da sé che le femmine di succiamiele restino alquanto confuse da queste modeste performance canore, e quindi i maschi &#8216;stonati&#8217; non riescono a riprodursi come gli altri. Ecco che questa mancata trasmissione culturale si traduce in un problema di conservazione: la perdita del canto diventa essa stessa fonte di declino della popolazione, diminuendo il tasso di riproduzione generale e impattando la diversità genetica”.</em></p>



<p><strong>I mestieri ambulanti sono una famiglia numerosa e multiforme, ben oltre i commercianti</strong>: <strong>per questo mensile di <em>SenzaFiltro</em> siamo andati a capire quale sia nel 2021 la situazione di giostrai senza giostre, piccoli editori senza fiere, circensi senza i tendoni, artisti di strada senza marciapiedi, librai senza bancarelle, guide turistiche senza arte da poter spiegare. L’Italia è ferma e, con lei, tutta la cultura nella sua accezione più ampia.&nbsp;</strong></p>



<p>Davanti alla pandemia si muovono però i più impavidi, convinti che non ci si possa arrendere al fatto che gli spazi canonici siano (immotivatamente) chiusi: <strong>gli attori stanno imparando a inforcare le bici per consegnare il teatro o la poesia a domicilio </strong>nelle case, negli androni dei condomini o sotto le finestre degli appartamenti. Abbiamo incontrato anche loro e danno una enorme speranza: certo non è la stessa cosa che stare sulla poltrona di un teatro ma è una nuova cosa a cui prestare ascolto e attenzione.</p>



<p>Attori che non hanno paura di cambiare forma in attesa di tornare a occupare il proprio posto.</p>



<p>Hai voluto il palcoscenico? Intanto pedala.</p>



<p>Le <strong>manifestazioni degli ambulanti</strong>, messi in ginocchio dalle <strong>restrizioni anti-COVID</strong>, si stanno susseguendo in molte città italiane: nei giorni scorsi hanno paralizzato anche il centro di Milano e, nel Casertano, l’autostrada. Queste proteste, ultime di una serie iniziata un anno fa, di certo sono riuscite ad accendere i riflettori su un settore commerciale che resta importantissimo, nonostante spesso, negli ultimi decenni, sia stato dato per finito.</p>



<p>Per esempio, la RAI recentemente ha riproposto un servizio trasmesso da TV7 nel 1963. Indagava sul destino, definito “incerto”, dei mercati rionali, “di fronte alle moderne tecniche di vendita”. All&#8217;epoca si stavano diffondendo i supermercati: il primo era stato inaugurato a Milano nel 1957. Quel servizio lasciava intravedere un rapido declino delle bancarelle nelle strade e piazze di città e paesi. Anche oggi, quasi sessant’anni dopo, tanti – invaghiti dai centri commerciali e dallo shopping online – pensano ai venditori ambulanti come a un fenomeno folcloristico, eredità di tempi andati.</p>



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<h2 id="h-i-numeri-del-commercio-ambulante-un-settore-in-salute-fino-alla-pandemia">I numeri del commercio ambulante: un settore in salute, fino alla pandemia</h2>



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<p>Come stanno davvero le cose? <strong>Altro che declino</strong>.</p>



<p>Tuttora il <strong>54% degli italiani</strong> sopra i 24 anni <strong>compra regolarmente nel mercato giornaliero o periodico</strong> e il 46,4% lo fa perché lì trova prezzi più convenienti: lo rileva l’indagine Format Research di ottobre 2020. Così, con <strong>oltre 177.527 punti-vendita</strong> (dati del 30 giugno 2020, in piena emergenza sanitaria) e circa 330.000 posti di lavoro, il <strong>commercio ambulante</strong> rappresenta il 22% delle imprese commerciali: un pilastro del settore, al fianco dei negozi fissi e della grande distribuzione.</p>



<p>Il 95% di queste attività è costituito da <strong>microimprese individuali</strong>, secondo la valutazione di Unioncamere &#8211; InfoCamere. Il 56% dei commercianti è di origine straniera, ma in alcuni comuni i banchi italiani sono oltre il 90%. Ben 31.200 imprese vengono gestite da donne.</p>



<p>A livello nazionale, il comparto è caratterizzato da una forte concentrazione (quasi il 40%) in tre regioni: <strong>Campania</strong> (oltre 29.000), <strong>Lombardia</strong> (più di 21.000) e <strong>Sicilia</strong> (circa 19.000). Però gli ambulanti sono ovunque.</p>



<p>Per dare un&#8217;idea, soltanto nel settembre 2020, secondo l’ufficio studi della FIVA (Federazione Italiana Venditori Ambulanti &#8211; Confcommercio), nei 732 comuni italiani con popolazione superiore a 15.000 abitanti sono stati censiti 728 mercati a cadenza quotidiana, con prevalenza di prodotti alimentari, e 2.111 mercati a cadenza periodica con prevalenza di prodotti non alimentari: dunque, nei mercati e in altre aree pubbliche dei centri maggiori, gli spazi (in gergo tecnico, posteggi) destinati agli ambulanti <strong>occupano un’area vasta 5.450.258 mq</strong>, pari a 5,450 chilometri quadrati.</p>



<p>Negli altri 7.171 comuni più piccoli ci sono altri mercati quotidiani, con una superficie totale di 32.016 mq. Completano l’offerta oltre 350 <strong>mercati stagionali</strong> nelle località rivierasche e turistiche. È difficile censire le <strong>fiere</strong>, le <strong>sagre</strong> e <strong>altri eventi</strong>: sono comunque più di 6.000 all’anno.</p>



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<h2 id="h-venditori-ambulanti-imprenditori-a-tutti-gli-effetti-la-posizione-di-giacomo-errico-presidente-fiva">Venditori ambulanti, imprenditori a tutti gli effetti: la posizione di Giacomo Errico, presidente FIVA</h2>



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<p>Di certo questo lavoro resta, come è sempre stato, <strong>molto pesante</strong>: svolto in ogni stagione, al gelo o sotto il sole a picco.</p>



<p>“I vecchi ambulanti, quelli da cui ho imparato il mestiere, insegnavano che dobbiamo essere capaci di fare cinque cose, ogni santo giorno: gli autisti dei furgoni, i compratori all’alba nei mercati all&#8217;ingrosso, i facchini per caricare e scaricare, i venditori e pure i ragionieri, vista tutta la contabilità che ci tocca”: lo ricorda con orgoglio, a <em>SenzaFiltro,</em> <strong>Giacomo Errico</strong>, presidente della FIVA. Un tipo tosto: classe 1952, ha cominciato a lavorare da ragazzino, dopo aver lasciato Cerignola (Foggia) negli anni Sessanta, diretto come tanti verso Nord. Specializzato in pelletteria, con banchi in sei mercati milanesi settimanali, ha dato l’attività in gestione e si dedica a tempo pieno all’associazione di categoria.</p>



<p>Ebbene, se c’è una cosa che fa arrabbiare Errico, è questa: “<strong>Chi ci governa</strong>, a prescindere dal colore politico, ha sempre dato l’impressione di <strong>non considerare il commercio ambulante un’impresa</strong>. Peccato che pretendano da ciascuno di noi, con la nostra bancarella, gli stessi identici obblighi richiesti alla mega società che apre un supermercato. Per giunta non si rendono conto del fatto che, ad esempio, un camion-negozio per vendere polli allo spiedo costa come minimo 300.000 euro. Sono errori di valutazione e pesano ancora di più nel mezzo dell’emergenza sanitaria, che ci ha dato una gigantesca mazzata. Eppure si parla pochissimo del commercio su aree pubbliche durante l’emergenza, come se le imprese del settore fossero invisibili per i giornalisti”.</p>



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<h2 id="h-la-lettera-a-mattarella-non-dimenticare-il-commercio-ambulante">La lettera a Mattarella: “Non dimenticare il commercio ambulante”</h2>



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<p>Anche le <strong>misure anti-COVID</strong> hanno provocato <strong>danni enormi</strong>. Da maggio 2020, dopo la totale chiusura nel primo lockdown, chi vende alimentari (il 20%, 33.534, per lo più specializzati in ortofrutta) può continuare l’attività anche in zona rossa (sebbene le perdite di fatturato siano state in media intorno al 25%). Chi commercia altri prodotti ha visto l’attività quasi azzerata: stiamo parlando di quasi 66.000 venditori di abbigliamento, tessuti, calzature e pelletteria; di circa 4.000 che propongono articoli per la casa e piccolo mobilio; di oltre 73.000 che commerciano cose varie (per esempio fiori, cosmetici, detersivi, libri usati, chincaglieria). <strong>Alcuni sono del tutto fermi da più di un anno</strong>: gli operatori di fiere, sagre, eventi sportivi e musicali, la cui attività è stata bloccata e pesantemente colpita dalle restrizioni.</p>



<p>Cosicché, rispetto al periodo di massima espansione, avvenuta nel 2017, nel 2020 si contava l’8% in meno di imprese attive; mentre rispetto al 2019 il calo è stato del 3,3%. Da uno studio recentissimo di FIVA, svolto testando un campione di 550 aziende e aggiornato a marzo 2021, esce un quadro tremendo. La <strong>perdita dell’intero settore nello scorso anno</strong>, rispetto a quelli precedenti, è stimata <strong>in oltre 7 miliardi e mezzo di euro</strong>, con un calo medio del 38,95% e “di oltre il 90% per alcuni comparti merceologici e di tipologia di esercizio”. Calo coperto solo per il 9,01% da ristori e finanziamenti a fondo perduto.</p>



<p>Tanto che Errico il 21 gennaio scorso ha scritto al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “A Governo e Parlamento abbiamo chiesto <strong>non indennizzi e ristori</strong>, ma la possibilità di <strong>lavorare in un quadro di rigorose misure di sicurezza</strong>. Sempre inutilmente (&#8230;). Il commercio su aree pubbliche (&#8230;) è allo stremo. Non abbiamo il peso del comparto industriale né il prestigio dei grandi marchi o delle grandi firme. Ma <strong>rappresentiamo un quinto del dettaglio nazionale</strong> e soprattutto rendiamo un servizio essenziale nelle città come nei piccoli centri, spesso negletti dalla distribuzione: svolgiamo con mercati e fiere una funzione insostituibile, soprattutto verso la fascia più debole del consumo, e occasioni importanti per la comunità e le tradizioni locali”.</p>



<p>La lettera prosegue: “È a nome di queste imprese, quasi tutte a conduzione famigliare e che traggono dall&#8217;esercizio dell&#8217;attività l&#8217;unica o la primaria fonte di reddito, che sento di rivolgere a Lei l&#8217;appello a <strong>non dimenticare il commercio ambulante e su aree pubbliche</strong>. (&#8230;) La flessibilità delle nostre imprese, storicamente un punto di forza, (&#8230;) non consentirà la sopravvivenza oltre un certo limite fisiologico”.</p>



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<p><strong>Dunque, presidente Errico, vi sentite dimenticati?</strong></p>



<p>Ovvio. Oltre alle chiusure generalizzate determinate dal lockdown nazionale e dalle varie ordinanze regionali, c’è stata una miriade di chiusure locali decise dai sindaci, spesso senza preavviso e pesantissime. Abbiamo sofferto e stiamo ancora soffrendo la crisi, senza ottenere, purtroppo, le attenzioni riservate ad altri comparti.</p>



<p><strong>I ristori sono serviti a poco, a giudicare dai dati&#8230;</strong></p>



<p>In media, ciascuna impresa ha percepito dallo Stato poco più di 3.000 euro. È fin troppo evidente che nessun ristoro potrà mai compensare l’attività d’impresa. Emerge la necessità di riaprire al più presto, compatibilmente con la situazione generale della sanità pubblica e in un quadro di sicurezza. Ma è necessario riaprire, perché tanti di noi non sono in grado di reggere per molto tempo ancora.</p>



<p><strong>Qual è la previsione?</strong></p>



<p>Più del 31% delle imprese ha registrato perdite superiori al 60%. Diventa difficile ristabilire un equilibrio quando le riserve sono esigue o insufficienti. E, quando chiude un’impresa, chiude un pezzo di Paese.</p>



<p><strong>Basterà riaprire?</strong></p>



<p>No. Non basterà, se non si ricreano le condizioni per un rilancio del settore, creando un sufficiente grado di fiducia degli imprenditori e dei consumatori attorno a questa forma di commercio. Occorrono interventi sul piano fiscale e su quello del credito. Servirebbe un fondo speciale a favore delle imprese, almeno per sostenerle nel rinnovamento del parco mezzi, in coincidenza con l’introduzione di misure ambientali più restrittive. Bisogna poi ammodernare le aree destinate ai mercati e le reti connesse, anche telematiche.</p>



<p><strong>Cosa prevede per i prossimi mesi?</strong></p>



<p>Come si vede in questi giorni, c’è già molta l’agitazione. Intanto in aprile, se andrà avanti così, bloccheremo Roma, visto che la sindaca Virginia Raggi ha annunciato che vuole disapplicare la legge nazionale e il Decreto Rilancio per rimettere a bando le concessioni. In quale cornice normativa? Non lo sa nessuno. Eppure ha avuto tutto il tempo e tutti i poteri necessari per rimediare a eventuali singole irregolarità. Così si sta giocando con il futuro di decine di migliaia di piccoli imprenditori e delle loro famiglie.</p>



<p><strong>Speriamo tutti che le vaccinazioni pongano fine all’emergenza. Emotivamente come si sente, in vista di questo traguardo?</strong></p>



<p>Lo devo dire con il cuore? Beh, le intemperie, là fuori, ci hanno temprati da tempo, eccome! A settembre potremmo riprendere alla grande. D’altra parte, siamo gente che si rimbocca le maniche, sempre. Come dice un mio amico, probabilmente la sonda spaziale, quando è arrivata su Marte, ha trovato già pronto un nostro ambulante con la sua bancarella. Potremmo farcela, però chi ha il potere la smetta di far finta di non vederci.</p>



<p></p>


Commercio ambulante, Giacomo Errico (Presidente FIVA): “Chi ci governa non ci considera imprese, ma paghiamo le tasse come loro”

<p>Da dove scrivo, <strong>Pasqua</strong> non è “solo” la più importante festività religiosa dell’anno, ma molto di più. In una settimana ad Alatri, un borgo del basso Lazio, fiumi di persone si riversano nei vicoli districandosi in una convivenza tra sacro e profano sdoganata dal tempo, e confermando proprio in quei giorni la loro identità di città. Non è questo, in fin dei conti, il potere delle tradizioni?</p>
<p>In quei sette giorni processioni, funzioni religiose e ceri si alternano naturalmente con le bancarelle di dolciumi e di vecchi cd musicali, creando un microcosmo nel quale il latino delle preghiere e il neomelodico dei venditori più audaci sembra abbiano vissuto sempre insieme.</p>
<p>La rievocazione storica della Passione, che si svolge il Venerdì Santo e che coinvolge oltre duecento figuranti, ne è la perfetta sintesi. Parteciparvi – da spettatori o da protagonisti – è diventata un’abitudine per tutti gli abitanti di zona, al pari del dolce tipico di una ricorrenza. Quasi come dire: non è Natale senza panettone, non è Pasqua senza processione.</p>
<p>Il clima di festa però inizia il giorno, prima con il tradizionale rito dei “<strong>sepolcri</strong>” (“fare i sepolcri” è un modo di dire tipico del meridione che identifica il visitare sette chiese durante la sera del giovedì) e la sua versione pagana dei “sette bar”.</p>
<p>“In quella settimana, di solito”, mi dice <strong>Francesco</strong>, proprietario di uno dei bar del centro storico di Alatri, “diamo senso ai primi tre mesi dell’anno, che comprensibilmente per noi ristoratori sono morti. Con tutte le iniziative pasquali e la quantità di persone che si riversa nelle strade, <strong>in sette giorni incassiamo quello che solitamente guadagneremo in un mese</strong>.”</p>
<p>Dicevo una settimana, però, perché qui dove vivo le festività iniziano il giovedì e si prolungano oltre il Lunedì dell’Angelo dato che il santo patrono viene celebrato, per esigenze logistiche e tradizione, il mercoledì successivo alla Pasqua. E proprio quel giorno il paese esplode attorno alla titanica statua raffigurante il santo che viene trasportata a spalla per tutto il centro storico, accompagnata da urla, preghiere e lacrime di commozione.</p>
<p>Oltre il sacro; giostre, luminarie, musica dal vivo, artisti di strada e <strong>ambulanti</strong> concorrono a dar vita a quella festa nella quale le stesse strade, le stesse persone di tutti i giorni sono più belle e un po’ speciali.</p>
<p>L’emergenza <strong>COVID-19</strong> ci ha privati di tutto questo, e probabilmente possiamo farne a meno, ma ai <strong>professionisti della festa</strong> ha tolto qualcosa in più.</p>
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<h2 id="h-ansiolitici-e-incertezza-l-economia-delle-fiere-di-paese-alla-canna-del-gas">Ansiolitici e incertezza: l’economia delle fiere di paese alla canna del gas</h2>
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<p><strong>Fabrizio</strong> ha un ristorante che sta per chiudere. I 3.660 euro d’affitto sono diventati insostenibili, ma è anche un’istituzione delle sagre e delle processioni con il suo <strong>camion dei panini</strong> che troneggia in ogni festa di paese. Durante la Settimana Santa, tra il giorno della processione e quello del patrono, il suo volume di affari si aggira intorno ai 70.000 euro, generato da 15 ragazzi e ragazze che lavorano con lui nel corso della stagione.</p>
<p>“Molti di noi hanno iniziato con gli <strong>ansiolitici</strong>. Non sappiamo cosa fare, dove metterci, ma soprattutto <strong>non capisco perché i mercati si possano fare e le fiere no</strong>. E pensare che anche i mercati all’aperto sono stati messi in discussione senza che mai un dubbio abbia riguardato i <strong>centri commerciali</strong>, che invece sono al chiuso.”</p>
<p>“Le fiere non si fanno, la Pasqua è saltata e il nostro comune non ha neppure regolamentato un piano per permetterci perlomeno di posizionarci in un’area dedicata. Se continua così salgo sul camion, metto in moto e mi fermo nel posto che ritengo migliore senza pensare ad alcuna autorizzazione. Che poi vengano a dirmi qualcosa, <strong>dobbiamo pur vivere in qualche modo</strong>. Vogliamo farlo facendo il nostro lavoro.”&nbsp;</p>
<p>Fino a ora ho parlato della mia città, un borgo del basso, Lazio ma purtroppo la drammaticità della situazione è estendibile a tutto lo stivale. I Vattienti di Nocera Terinese, l’Abballu de li diavuli a Prizzi, i Pasquali di Bormio o la processione dei misteri di Trapani quest’anno non si faranno.</p>
<p>“Sono giorni che vengo in ufficio e guardo fisso il monitor del mio computer”, mi dice <strong>Silvio</strong>, titolare di un’azienda di luminarie nel beneventano. “La segretaria l’abbiamo mandata a casa, non sapevamo cosa farle fare, e i ragazzi che montano le strutture sono in attesa di una qualche risoluzione. Ma la vera cosa che mi preoccupa è il futuro. Il nostro lavoro ha bisogno di essere pianificato con 6/7 mesi di anticipo e richiede investimenti. <strong>È&nbsp;l’incertezza a gettarci nello sconforto</strong>.”</p>
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<h2 id="h-lo-sciopero-degli-ambulanti-del-6-aprile">Lo sciopero degli ambulanti del 6 aprile</h2>
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<p>Nonostante l’evidente importanza di queste festività, degli <strong>ambulanti</strong> e dell’indotto che genera una filiera simile, l’argomento resta relegato ai trafiletti di giornali e a discussioni non certo di prim’ordine su tavoli della politica. Perché?</p>
<p>“È esattamente questa la domanda che noi rivolgiamo al governo”, mi dice <strong>Marrigo Rosato</strong>, segretario nazionale dell’ANA-UGL, l’Associazione Nazionale Ambulanti, che per puro caso ho scoperto essere di un paesino non lontano dal mio. “<strong>Perché?</strong> Il 6 di aprile si è svolta una giornata di mobilitazione nazionale e vogliamo far partire una richiesta di incontro a Draghi, Giorgetti e Franco per avanzare le nostre richieste. Abbiamo fatto altre manifestazioni e continueremo a farle perché <strong>sentiamo forte la disattenzione delle istituzioni verso la nostra categoria</strong>. I prossimi 10-15 giorni saranno decisivi”.</p>
<p>Gli <strong>aiuti</strong> che sono stati erogati, come immaginabile, scontentano molti se non tutti. “<strong>Il mio codice ATECO</strong> – mi dice <strong>Massimo</strong>, che da tre generazioni vende noccioline nelle fiere di paese – <strong>non è stato proprio contemplato</strong>. In un anno ho ricevuto per due volte seicento euro ed è impensabile andare avanti così. Oggi vivo alla giornata, facendo qualsiasi lavoretto mi capiti sottomano.”.</p>
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<h2 id="h-abbiamo-fatto-del-sommerso-ma-gli-aiuti-servono-anche-a-noi">“Abbiamo fatto del sommerso, ma gli aiuti servono anche a noi”</h2>
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<p>Il problema però è anche un altro. Lo standard adottato dal governo per stabilire gli importi delle sovvenzioni è il <strong>fatturato delle precedenti annualità</strong>, ma per gli ambulanti il delta tra il dichiarato e l’incassato è sempre stato estremamente ampio.</p>
<p>“Il <strong>sommerso</strong> – ha proseguito Rosato – c’è e c’è stato, ma è <strong>un’arma di difesa</strong>. Oggi non siamo sostenuti da nessuno, le banche non ci concedono mutui o finanziamenti ed erogare i contributi sul fatturato porta a pagarne le conseguenze.”</p>
<p>“Per questo stiamo chiedendo al governo di dare <strong>un contributo che sia diversamente commisurato</strong>. Se a un’impresa con un volume di affari di 10 milioni si fanno arrivare 150.000 euro si è fatta un’operazione praticamente irrilevante. Bisogna aiutare i piccoli a resistere e a superare questo momento. <strong>Vorremmo che fosse direttamente lo Stato a dare liquidità</strong> tramite un finanziamento ai piccoli commercianti, permettendo loro di restituirlo in un ampio lasso di tempo.”</p>
<p>Quello che una festività come la Pasqua cela, oltre il senso religioso per chi lo vive, è articolato e di grande portata.</p>
<p>Da una parte c’è un <strong>significato socioculturale</strong> la cui dimensione è spesso inversamente proporzionale alla dimensione del luogo. Sempre Silvio mi ha detto: “Nelle piccole contrade, a maggior ragione in quelle un po’ dimenticate, le persone vivono in funzione di quella ricorrenza, nella speranza di potersi ritrovare in strada tutti insieme e dire all’unisono: noi ci siamo”.</p>
<p>Dall’altra c’è un’economia, e quindi intere famiglie, che vive su questo, che trova nelle <strong>fiere di paese</strong> quel modo di diventare parte della tradizione e quindi di sopravvivere: mica noccioline.</p>


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Angelo Astrei

Classe 1990 ama profondamente il suo lavoro, anche se non saprebbe dargli una definizione precisa. Ossessionato dalle mappe e dalle figure retoriche, il fil rouge che collega i punti del suo percorso è lo storytelling. Sperimentatore ed esploratore di nuovi strumenti narrativi naviga tra la scrittura, il videomaking e il podcasting. Ha diretto un festival cinematografico internazionale per 10 anni e oggi lavora come CMO in una startup tech approfittando di ogni slot di tempo libero per trovare una storia da raccontare.

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I lavoratori delle fiere di paese sono in ginocchio. Marrigo Rosato, segretario nazionale dell&#8217;Associazione Nazionale Ambulanti: &#8220;È vero, il sommerso c&#8217;è e c&#8217;è stato, ma adesso non ci sostiene nessuno&#8221;.

Che Italia siamo senza ambulanti e fiere di paese? - Informazione senza filtro

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<p>La solita storia per cui le mode nascono negli Stati Uniti e noi ce le importiamo in Italia: quante ce ne danno a bere anche se il tema stavolta è il mangiare. Vedo girare da giorni la notizia del <strong>food truck di Nik Barricelli</strong>, newyorkese ma con famiglia dalle radici italiane tra Campania e Sicilia: considerata la crisi della ristorazione anche dalle sue parti, ha deciso di mettere su strada il &#8216;Cento Percento’, ben marcato col tricolore e con l’offerta di focacce, salumi e formaggi italiani belli in vista.</p>



<p>Vedo girare la notizia come se fosse una novità eclatante e non si capisce proprio dove sia l’originalità.</p>



<p>Sulla <strong>street food mania</strong>, bruscamente rovinata dal <strong>COVID-19</strong>, i dati erano davvero illuminati: nel solo periodo 2013-2018 erano state registrate oltre 1.000 imprese, di cui un 25% circa fondate da giovani. I dati UnionCamere-InfoCamere di fine 2020 parlano di oltre 25.000 imprese italiane dedicate e un danno economico quotato in oltre 200 milioni di euro tra merce invenduta, mancati guadagni e costi fissi. Il concetto di <strong>costo fisso</strong> potrebbe far sorridere qualcuno davanti all’idea dei mezzi ambulanti ma moltissime di queste attività partono dall’investimento in infrastrutture e truck.</p>



<p>Solo per dare il segno di quanto sia ampia la forbice di chi ha creduto nello street food negli ultimi anni, dai più piccoli ai grandi colossi del settore agroalimentare e della ristorazione, negli ultimi anni la Fiorucci ha investito 1 milione di euro nel settore, mettendo in strada ben 300 food truck in giro per le piazze d’Italia.</p>



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<h2 class="has-text-align-left" id="h-streetfoody-e-i-professionisti-invisibili-del-cibo-di-strada">StreetFoody e i professionisti invisibili del cibo di strada</h2>



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<p>Tornando a Nik Barricelli, e a quanto marketing tolga fiato ormai alle notizie, originale e unica è semmai la storia di <strong>StreetFoody</strong>, in assoluto l’azienda italiana più strutturata nella produzione dei mezzi di trasporto che tutti per praticità chiamiamo <strong>food truck</strong>: è la più strutturata anche per numeri e per spazi visto che la sede si sviluppa su un’area di oltre 12.000 metri quadrati. </p>



<p>La metà degli spazi è interamente dedicata all’officina perché lì tutto nasce; l’unica fase esterna è l’arrivo dei telai da Fiat o Piaggio a seconda del modello scelto dal cliente. Poi pareti, arredi interni, pannellature, impianti, allestimenti, certificazioni e documenti finiscono tutti nel progetto chiavi in mano, con dietro <strong>decine di mestieri che spariscono</strong> ogni volta che compriamo street food.&nbsp;</p>



<p>Dietro questi food truck ci sono carrozzieri, meccanici, allestitori, grafici, progettisti, comunicatori, agenti di vendita. <strong>Dietro il cibo c’è sempre un mondo che lavora</strong>.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_stabilimento_streetfoody_officina.767x0-is.jpg"><img width="767" height="511" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_stabilimento_streetfoody_officina.767x0-is.jpg" alt="" class="wp-image-43751" /></a><figcaption>La sede dello stabilimento StreetFoody a Terranuova Bracciolini, provincia di Arezzo.</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-da-carrozzeria-a-officina-nel-segno-del-food">Da carrozzeria a officina, nel segno del food</h2>



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<p>Siamo nel Valdarno, in provincia di Arezzo: è a Terranuova Bracciolini che <strong>Ivo Resti </strong>ha fondato StreetFoody nel 1961 come semplice carrozzeria. A quel tempo si chiamava <em>Resti S.p.A.</em>, ma negli ultimi trent’anni, con approccio a dir poco pionieristico, si è evoluta e ha cambiato pelle concentrandosi soprattutto nel segmento del food dopo aver sperimentato a lungo anche l’abbigliamento e le calzature.&nbsp;</p>



<p><strong>Michela Resti</strong>, Responsabile marketing di StreetFoody, è la riprova di una terza generazione che tiene ben stretta la storia di famiglia per proiettarla molto in avanti.</p>



<p>“Oggi la nostra è un’azienda che conta una filiera davvero lunga di mestieri perché il <strong>team di oltre trenta persone</strong> va dall’officina al commerciale, dal marketing e vendita all’amministrazione. L’officina è rimasta il cuore di tutto per quanto il tempo abbia trasformato totalmente il prodotto, così come il materiale, la clientela e la destinazione dei veicoli.”</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_aziendale_2_07_2018ridottaancoa_di_piu.1379x0-is.jpg"><img width="1024" height="692" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_aziendale_2_07_2018ridottaancoa_di_piu.1379x0-is-1024x692.jpg" alt="" class="wp-image-43750" /></a><figcaption>Il team dei mestieri nascosti dietro un food truck</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-i-ristoranti-su-ruote-corrono-pi-forte-della-pandemia">I ristoranti su ruote corrono più forte della pandemia</h2>



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<p>StreetFoody produce ogni anno circa <strong>100 mezzi </strong>che vende e commercia in Italia ma soprattutto in Europa &#8211; che prediligono come mercato &#8211; e su scala internazionale: la fanno da padroni <strong>Francia</strong>, Germania, <strong>Austria</strong>, Svizzera e <strong>Belgio</strong>. Li chiamiamo&nbsp;food truck che, tradotti, possono essere semplici ape car o veri e propri autonegozi su strada. La destinazione dell’<em><strong>uso speciale negozio</strong> </em>è del resto il requisito essenziale per svolgere attività commerciale su suolo pubblico.</p>



<p>Un mestiere come il loro ha a che fare tutti i giorni con le <strong>economie ambulanti o itineranti </strong>di chi gestisce la propria attività su strada. “I nostri <strong>clienti cosiddetti ambulanti </strong>sono, per intenderci, quelli che trovate all’interno dei mercati. I <strong>mezzi itineranti</strong> invece sono quasi sempre delle estensioni dell’attività messe in campo da ristoranti, gelaterie, resort, catene di food: lì andiamo proprio a studiare un ampliamento dei loro progetti e non sempre lo scopo è quello di fare business, la maggior parte cerca semplicemente un canale parallelo di posizionamento o una sorta di supporto commerciale e pubblicitario”.</p>



<p>La pandemia ha tirato giù le saracinesche ai ristoranti ma ha portato aria fresca dentro il mercato dei mezzi su strada che offrono cibo. “Indubbiamente lo scossone è stato forte nel consumo di cibo fuori casa, ma <strong>questi mezzi sono stati una risorsa </strong>per le attività che hanno optato per il <strong>take away </strong>o per il <strong>delivery </strong>o che semplicemente li hanno posizionati all’esterno del ristorante stesso”. </p>



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<h2 id="h-dove-osano-i-food-truck-le-province-pi-gettonate-delle-grandi-citt">Dove osano i food truck: le province più gettonate delle grandi città</h2>



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<p>Durante la chiacchierata con Michela Resti emerge chiaro un concetto: i food truck raccontano anche una certa <strong>democrazia tra le geografie d’Italia</strong>. </p>



<p>Non è vero che siano più diffusi a Milano o a Roma o nelle grandi città, come si sarebbe portati a pensare. La loro incidenza è spesso più forte proprio nelle <strong>realtà di provincia</strong> stando ai dati di vendita di StreetFoody: “Essendo mezzi molto snelli e agili, rendono anzi più accessibile il servizio di street food là dove il ristorante non arriva o non investirebbe nemmeno. Parlo veramente di <strong>esperienza diretta di vendita in paesini molto piccoli</strong> e poco dotati di servizi e infrastrutture. Durante la pandemia questo ha permesso a chi lavorava su food truck di fare consegne a domicilio e garantirsi non solo una minima sopravvivenza, ma <strong>assicurare anche un servizio e una relazione al cliente </strong>che si sarebbe sentito ancora più isolato”.</p>



<p>Restando in <strong>Toscana</strong> &#8211; e in particolare a <strong>Firenze</strong>, che è anche la patria degli storici <strong>lampredottai</strong> &#8211; l’indagine firmata CNA che è stata resa nota da pochi giorni ha evidenziato che il 40,1% delle attività di ristorazione del capoluogo è convinto di non riuscire a tornare ai livelli precedenti dopo la pandemia e che il 27% teme di chiudere nei prossimi mesi. Però c’è anche un 32,9% di imprese che spera addirittura di crescere nel 2021: l’8,7% prevede un incremento di risultati e il 24,2% confida di recuperare le perdite accumulate nel 2020. </p>



<p>Proprio alla CNA Firenze sono arrivate nelle ultime settimane numerose manifestazioni di interesse per l’apertura di attività di ristorazione ambulante e il dato sarà di certo una cartina tornasole rilevante per una meta turistica a cui sta cambiando la pelle. Intanto, ogni volta che ordiniamo su strada, ricordiamo quante storie di vita e di fatica ci passano accanto. </p>



<p>E non ce ne voglia Nik Barricelli se ci siamo permessi di ricordare <strong>qual è l’Italia che crea per davvero</strong>.</p>



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<p><em>Photo credits: StreetFoody</em></p>


Ristorazione in crisi: i food truck tentano il sorpasso

<p>Le <strong>manifestazioni degli ambulanti</strong>, messi in ginocchio dalle <strong>restrizioni anti-COVID</strong>, si stanno susseguendo in molte città italiane: nei giorni scorsi hanno paralizzato anche il centro di Milano e, nel Casertano, l’autostrada. Queste proteste, ultime di una serie iniziata un anno fa, di certo sono riuscite ad accendere i riflettori su un settore commerciale che resta importantissimo, nonostante spesso, negli ultimi decenni, sia stato dato per finito.</p>
<p>Per esempio, la RAI recentemente ha riproposto un servizio trasmesso da TV7 nel 1963. Indagava sul destino, definito “incerto”, dei mercati rionali, “di fronte alle moderne tecniche di vendita”. All&#8217;epoca si stavano diffondendo i supermercati: il primo era stato inaugurato a Milano nel 1957. Quel servizio lasciava intravedere un rapido declino delle bancarelle nelle strade e piazze di città e paesi. Anche oggi, quasi sessant’anni dopo, tanti – invaghiti dai centri commerciali e dallo shopping online – pensano ai venditori ambulanti come a un fenomeno folcloristico, eredità di tempi andati.</p>
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<h2 id="h-i-numeri-del-commercio-ambulante-un-settore-in-salute-fino-alla-pandemia">I numeri del commercio ambulante: un settore in salute, fino alla pandemia</h2>
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<p>Come stanno davvero le cose? <strong>Altro che declino</strong>.</p>
<p>Tuttora il <strong>54% degli italiani</strong> sopra i 24 anni <strong>compra regolarmente nel mercato giornaliero o periodico</strong> e il 46,4% lo fa perché lì trova prezzi più convenienti: lo rileva l’indagine Format Research di ottobre 2020. Così, con <strong>oltre 177.527 punti-vendita</strong> (dati del 30 giugno 2020, in piena emergenza sanitaria) e circa 330.000 posti di lavoro, il <strong>commercio ambulante</strong> rappresenta il 22% delle imprese commerciali: un pilastro del settore, al fianco dei negozi fissi e della grande distribuzione.</p>
<p>Il 95% di queste attività è costituito da <strong>microimprese individuali</strong>, secondo la valutazione di Unioncamere &#8211; InfoCamere. Il 56% dei commercianti è di origine straniera, ma in alcuni comuni i banchi italiani sono oltre il 90%. Ben 31.200 imprese vengono gestite da donne.</p>
<p>A livello nazionale, il comparto è caratterizzato da una forte concentrazione (quasi il 40%) in tre regioni: <strong>Campania</strong> (oltre 29.000), <strong>Lombardia</strong> (più di 21.000) e <strong>Sicilia</strong> (circa 19.000). Però gli ambulanti sono ovunque.</p>
<p>Per dare un&#8217;idea, soltanto nel settembre 2020, secondo l’ufficio studi della FIVA (Federazione Italiana Venditori Ambulanti &#8211; Confcommercio), nei 732 comuni italiani con popolazione superiore a 15.000 abitanti sono stati censiti 728 mercati a cadenza quotidiana, con prevalenza di prodotti alimentari, e 2.111 mercati a cadenza periodica con prevalenza di prodotti non alimentari: dunque, nei mercati e in altre aree pubbliche dei centri maggiori, gli spazi (in gergo tecnico, posteggi) destinati agli ambulanti <strong>occupano un’area vasta 5.450.258 mq</strong>, pari a 5,450 chilometri quadrati.</p>
<p>Negli altri 7.171 comuni più piccoli ci sono altri mercati quotidiani, con una superficie totale di 32.016 mq. Completano l’offerta oltre 350 <strong>mercati stagionali</strong> nelle località rivierasche e turistiche. È difficile censire le <strong>fiere</strong>, le <strong>sagre</strong> e <strong>altri eventi</strong>: sono comunque più di 6.000 all’anno.</p>
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<h2 id="h-venditori-ambulanti-imprenditori-a-tutti-gli-effetti-la-posizione-di-giacomo-errico-presidente-fiva">Venditori ambulanti, imprenditori a tutti gli effetti: la posizione di Giacomo Errico, presidente FIVA</h2>
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<p>Di certo questo lavoro resta, come è sempre stato, <strong>molto pesante</strong>: svolto in ogni stagione, al gelo o sotto il sole a picco.</p>
<p>“I vecchi ambulanti, quelli da cui ho imparato il mestiere, insegnavano che dobbiamo essere capaci di fare cinque cose, ogni santo giorno: gli autisti dei furgoni, i compratori all’alba nei mercati all&#8217;ingrosso, i facchini per caricare e scaricare, i venditori e pure i ragionieri, vista tutta la contabilità che ci tocca”: lo ricorda con orgoglio, a <em>SenzaFiltro,</em> <strong>Giacomo Errico</strong>, presidente della FIVA. Un tipo tosto: classe 1952, ha cominciato a lavorare da ragazzino, dopo aver lasciato Cerignola (Foggia) negli anni Sessanta, diretto come tanti verso Nord. Specializzato in pelletteria, con banchi in sei mercati milanesi settimanali, ha dato l’attività in gestione e si dedica a tempo pieno all’associazione di categoria.</p>
<p>Ebbene, se c’è una cosa che fa arrabbiare Errico, è questa: “<strong>Chi ci governa</strong>, a prescindere dal colore politico, ha sempre dato l’impressione di <strong>non considerare il commercio ambulante un’impresa</strong>. Peccato che pretendano da ciascuno di noi, con la nostra bancarella, gli stessi identici obblighi richiesti alla mega società che apre un supermercato. Per giunta non si rendono conto del fatto che, ad esempio, un camion-negozio per vendere polli allo spiedo costa come minimo 300.000 euro. Sono errori di valutazione e pesano ancora di più nel mezzo dell’emergenza sanitaria, che ci ha dato una gigantesca mazzata. Eppure si parla pochissimo del commercio su aree pubbliche durante l’emergenza, come se le imprese del settore fossero invisibili per i giornalisti”.</p>
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<h2 id="h-la-lettera-a-mattarella-non-dimenticare-il-commercio-ambulante">La lettera a Mattarella: “Non dimenticare il commercio ambulante”</h2>
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<p>Anche le <strong>misure anti-COVID</strong> hanno provocato <strong>danni enormi</strong>. Da maggio 2020, dopo la totale chiusura nel primo lockdown, chi vende alimentari (il 20%, 33.534, per lo più specializzati in ortofrutta) può continuare l’attività anche in zona rossa (sebbene le perdite di fatturato siano state in media intorno al 25%). Chi commercia altri prodotti ha visto l’attività quasi azzerata: stiamo parlando di quasi 66.000 venditori di abbigliamento, tessuti, calzature e pelletteria; di circa 4.000 che propongono articoli per la casa e piccolo mobilio; di oltre 73.000 che commerciano cose varie (per esempio fiori, cosmetici, detersivi, libri usati, chincaglieria). <strong>Alcuni sono del tutto fermi da più di un anno</strong>: gli operatori di fiere, sagre, eventi sportivi e musicali, la cui attività è stata bloccata e pesantemente colpita dalle restrizioni.</p>
<p>Cosicché, rispetto al periodo di massima espansione, avvenuta nel 2017, nel 2020 si contava l’8% in meno di imprese attive; mentre rispetto al 2019 il calo è stato del 3,3%. Da uno studio recentissimo di FIVA, svolto testando un campione di 550 aziende e aggiornato a marzo 2021, esce un quadro tremendo. La <strong>perdita dell’intero settore nello scorso anno</strong>, rispetto a quelli precedenti, è stimata <strong>in oltre 7 miliardi e mezzo di euro</strong>, con un calo medio del 38,95% e “di oltre il 90% per alcuni comparti merceologici e di tipologia di esercizio”. Calo coperto solo per il 9,01% da ristori e finanziamenti a fondo perduto.</p>
<p>Tanto che Errico il 21 gennaio scorso ha scritto al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “A Governo e Parlamento abbiamo chiesto <strong>non indennizzi e ristori</strong>, ma la possibilità di <strong>lavorare in un quadro di rigorose misure di sicurezza</strong>. Sempre inutilmente (&#8230;). Il commercio su aree pubbliche (&#8230;) è allo stremo. Non abbiamo il peso del comparto industriale né il prestigio dei grandi marchi o delle grandi firme. Ma <strong>rappresentiamo un quinto del dettaglio nazionale</strong> e soprattutto rendiamo un servizio essenziale nelle città come nei piccoli centri, spesso negletti dalla distribuzione: svolgiamo con mercati e fiere una funzione insostituibile, soprattutto verso la fascia più debole del consumo, e occasioni importanti per la comunità e le tradizioni locali”.</p>
<p>La lettera prosegue: “È a nome di queste imprese, quasi tutte a conduzione famigliare e che traggono dall&#8217;esercizio dell&#8217;attività l&#8217;unica o la primaria fonte di reddito, che sento di rivolgere a Lei l&#8217;appello a <strong>non dimenticare il commercio ambulante e su aree pubbliche</strong>. (&#8230;) La flessibilità delle nostre imprese, storicamente un punto di forza, (&#8230;) non consentirà la sopravvivenza oltre un certo limite fisiologico”.</p>
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<p><strong>Dunque, presidente Errico, vi sentite dimenticati?</strong></p>
<p>Ovvio. Oltre alle chiusure generalizzate determinate dal lockdown nazionale e dalle varie ordinanze regionali, c’è stata una miriade di chiusure locali decise dai sindaci, spesso senza preavviso e pesantissime. Abbiamo sofferto e stiamo ancora soffrendo la crisi, senza ottenere, purtroppo, le attenzioni riservate ad altri comparti.</p>
<p><strong>I ristori sono serviti a poco, a giudicare dai dati&#8230;</strong></p>
<p>In media, ciascuna impresa ha percepito dallo Stato poco più di 3.000 euro. È fin troppo evidente che nessun ristoro potrà mai compensare l’attività d’impresa. Emerge la necessità di riaprire al più presto, compatibilmente con la situazione generale della sanità pubblica e in un quadro di sicurezza. Ma è necessario riaprire, perché tanti di noi non sono in grado di reggere per molto tempo ancora.</p>
<p><strong>Qual è la previsione?</strong></p>
<p>Più del 31% delle imprese ha registrato perdite superiori al 60%. Diventa difficile ristabilire un equilibrio quando le riserve sono esigue o insufficienti. E, quando chiude un’impresa, chiude un pezzo di Paese.</p>
<p><strong>Basterà riaprire?</strong></p>
<p>No. Non basterà, se non si ricreano le condizioni per un rilancio del settore, creando un sufficiente grado di fiducia degli imprenditori e dei consumatori attorno a questa forma di commercio. Occorrono interventi sul piano fiscale e su quello del credito. Servirebbe un fondo speciale a favore delle imprese, almeno per sostenerle nel rinnovamento del parco mezzi, in coincidenza con l’introduzione di misure ambientali più restrittive. Bisogna poi ammodernare le aree destinate ai mercati e le reti connesse, anche telematiche.</p>
<p><strong>Cosa prevede per i prossimi mesi?</strong></p>
<p>Come si vede in questi giorni, c’è già molta l’agitazione. Intanto in aprile, se andrà avanti così, bloccheremo Roma, visto che la sindaca Virginia Raggi ha annunciato che vuole disapplicare la legge nazionale e il Decreto Rilancio per rimettere a bando le concessioni. In quale cornice normativa? Non lo sa nessuno. Eppure ha avuto tutto il tempo e tutti i poteri necessari per rimediare a eventuali singole irregolarità. Così si sta giocando con il futuro di decine di migliaia di piccoli imprenditori e delle loro famiglie.</p>
<p><strong>Speriamo tutti che le vaccinazioni pongano fine all’emergenza. Emotivamente come si sente, in vista di questo traguardo?</strong></p>
<p>Lo devo dire con il cuore? Beh, le intemperie, là fuori, ci hanno temprati da tempo, eccome! A settembre potremmo riprendere alla grande. D’altra parte, siamo gente che si rimbocca le maniche, sempre. Come dice un mio amico, probabilmente la sonda spaziale, quando è arrivata su Marte, ha trovato già pronto un nostro ambulante con la sua bancarella. Potremmo farcela, però chi ha il potere la smetta di far finta di non vederci.</p></p>


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Marco Brando

Nato a Genova nel 1958 (Acquario ascendente Gemelli) e cresciuto alla Spezia, dopo un innamoramento per Medicina a Pavia, si è dedicato a Scienze politiche. Fa il giornalista dal 1982 e detesta da sempre il giornalismo addomesticato. Ha lavorato 16 anni e mezzo all&#8217;Unità, dove è stato un inviato e ha seguito, tra l&#8217;altro, l&#8217;inchiesta &#8220;Mani Pulite&#8221;. Nel 2000 si è trasferito a Bari per lanciare il Corriere del Mezzogiorno, cronaca pugliese del Corriere della Sera. Dal 2007 è di nuovo a Milano: come caporedattore di City, quotidiano free press del gruppo Rcs, fino al 2012; poi come caposervizio del Settimanale Nuovo (Cairo editore). Da luglio 2018 fa il free lance. Ha un blog su IlFattoQuotidiano.it, collabora con i siti d&#8217;informazione Strisciarossa.it e Tessere.org, scrive per FQ Millennium, mensile del Fatto Quotidiano. Tra i suoi libri: &#8220;Sud Est. Vagabondaggi estivi di un settentrionale in Puglia&#8221; (Palomar, Bari 2006), &#8220;Lo strano caso di Federico II di Svevia. Un mito medievale nella cultura di massa&#8221; (Palomar, Bari 2008; con prefazione e postfazione dei medievisti Raffaele Licinio e Franco Cardini) e &#8220;L&#8217;imperatore nel suo labirinto. Usi, abusi e riusi del mito di Federico II di Svevia&#8221; (Tessere, Firenze 2019; con prefazione e postfazione dei medievisti Giuseppe Sergi e Tommaso di Carpegna Falconieri). Gli sono stati conferiti alcuni premi giornalistici: l&#8217;ultimo è il premio nazionale &#8220;Antonio Maglio&#8221;, consegnato nel 2019 ad Alezio (Lecce). È socio dell&#8217;Associazione italiana di Public History (Aiph).

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I venditori ambulanti generavano un quinto delle vendite al dettaglio nazionali, prima della pandemia. Oggi un terzo di loro rischia la chiusura, con perdite superiori al 60%.

Commercio ambulante, Giacomo Errico (Presidente FIVA): “Chi ci governa non ci considera imprese, ma paghiamo le tasse come loro” - Informazione senza filtro

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<p>Traghettano emozioni, gioco, musica, frammenti di storie in un tempo che è quello del “qui e ora”, in un luogo che diventa metafora della vita pronta a scorrere: la strada. Gli <strong>artisti di strada</strong> si distinguono per tante cose: fascino, immediatezza, impatto, relazione con il pubblico e anche tradizione, se pensiamo che già nell’antica Roma esistevano forme di regolamentazione riferite all’attività.</p>



<p>Parliamo di un ambito che presenta le caratteristiche di un prisma: le numerose sfaccettature non riguardano infatti soltanto le <strong>diverse tipologie</strong> <strong>di figure coinvolte</strong>, ma anche il differente <strong>modo di vivere</strong> e concepire questo ruolo. Artisti di strada possono essere infatti musicisti, mimi, danzatori, statue viventi, giocolieri, cantautori, donne e uomini con ampio range di età.</p>



<p>Occorre però partire da una premessa importante: “L’arte di strada è una pratica che qualsiasi cittadino ha diritto a mettere in atto utilizzando spazi pubblici per esprimersi artisticamente e in maniera civile: questo lo dice la Costituzione stessa”, fa chiarezza <strong>Giuseppe Boron</strong>, sassofonista, attore e performer nonché presidente della <strong>Federazione Nazionale delle Arti in Strada (FNAS)</strong>. Costituita nel 1999, ha come obiettivo proprio quello di rappresentare, promuovere e tutelare le diverse forme di arte e spettacolo dell’ambito.</p>



<p>All’interno di questo settore multiforme esiste una distinzione cardine tra <strong>artisti di strada “puri”</strong> e <strong>“ibridi”</strong>: “I cosiddetti &#8216;puri&#8217; sono coloro che hanno fatto questa scelta di vita in maniera esclusiva e sono per così dire in estinzione”, spiega il presidente di FNAS. “Complessivamente in Italia ce ne saranno un migliaio, e il loro guadagno è rappresentato da ciò che le persone lasciano nel famoso cappello o cesto. Tutti gli altri invece sono artisti di vario genere che includono l’attività in strada nel loro repertorio affiancandola a quella che realizzano ad esempio nei teatri, nei club, agli eventi, oppure alla formazione”.</p>



<p>L’arte di strada per chi lavora anche su altri fronti diventa così un supporto al reddito oltre che, prima di tutto, un prezioso canale di <strong>contatto diretto</strong> con il pubblico e un’<strong>opportunità per farsi conoscere</strong>. “La strada può essere una vetrina per trovare lavoro, ma non è così automatico”, avverte Boron.</p>



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<h2 id="h-la-denuncia-di-fnas-per-tutelarci-serve-un-disegno-di-legge-nazionale-non-il-fai-da-te-dei-comuni">La denuncia di FNAS: “Per tutelarci serve un disegno di legge nazionale, non il fai da te dei comuni”</h2>



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<p>Affrontiamo subito una questione scomoda. Chiedendo, senza ironia, al presidente di FNAS quale sia lo stato attuale dell’arte di cui stiamo parlando, ci rivela la grande lacuna che pesa da tempo sull’ambito.</p>



<p>“Manca tuttora una<strong> legge nazionale dedicata all’arte di strada </strong>che delinei, in maniera precisa e omogenea, che cosa è possibile fare e che cosa no da parte di chi la pratica. Tutto è sempre demandato alle scelte dei <strong>singoli comuni</strong>: ognuno attiva così il <strong>proprio regolamento</strong> con varie discrepanze.”</p>



<p>Questa frammentarietà si è esasperata durante la <strong>pandemia</strong>: “A Milano in zona rossa non è possibile esibirsi se non in maniera abusiva. A Torino anche in zona arancione gli artisti si possono esibire; a Genova si sono potuti esibire sempre, così come a Napoli e a Palermo, indipendentemente dalla situazione”.</p>



<p>A destare perplessità e anche amarezza è inoltre la situazione da <strong>due pesi e due misure</strong>: “Ci sono assembramenti su cui viene chiuso più di un occhio e nel frattempo viene vietata l’arte di strada: una contraddizione notevole!” chiosa Boron.</p>



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<h2 id="h-ristori-insufficienti-e-lavoro-fermo-la-pandemia-chiude-in-casa-gli-artisti-di-strada">Ristori insufficienti e lavoro fermo: la pandemia chiude in casa gli artisti di strada</h2>



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<p>Il 2020 è stato divorato dalla pandemia e il monito di restare a casa ha messo la strada con le spalle al muro, e con essa coloro che ci lavorano. </p>



<p>Migliaia di artisti hanno visto arenarsi il proprio mestiere, tra cui quelli coinvolti nel segmento dello<strong> spettacolo di strada</strong>. Si tratta di artisti pagati a cachet e che lavorano per <strong>rassegne </strong>e <strong>festival</strong> che hanno luogo, appunto, in strada: “<strong>I ristori sono miserrimi</strong> e sono stati persino abbassati”, spiega Giuseppe Boron. “I primi tre mesi del 2021 avremmo dovuto ricevere 3.000 euro in tutto, ma ce li hanno abbassati a <strong>2.400</strong>. C’è anche chi è andato in cassa integrazione prendendo 600 euro al mese. In ogni caso si tratta di misure che non consentono di mantenere le famiglie: una situazione davvero drammatica”.</p>



<p>A essere particolarmente colpiti dalla situazione sono i cosiddetti <strong>artisti di strada</strong> “<strong>puri</strong>”, ossia coloro che hanno intrapreso il percorso come scelta esclusiva di vita: “In questo caso le difficoltà sono enormi: non sono iscritti ad alcuna associazione per loro scelta e quindi non sono rappresentati. Inoltre, non potendo dimostrare il proprio lavoro, sono <strong>esclusi da qualsiasi tipo di</strong> <strong>salvagente sociale</strong> perché il reddito che viene guadagnato per strada è frutto di donazione. Si potrebbe inserirlo nella dichiarazione dei redditi, ma difficilmente reggerebbe una tassazione: di base è difficile per gli artisti di strada ‘puri’ arrivare a fine mese”.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Grande-Piano-Foto-SHOW-1.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Grande-Piano-Foto-SHOW-1-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-43811" /></a></figure>



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<h2 id="h-comuni-pi-o-meno-accoglienti-ognuno-decide-per-s">Comuni più o meno accoglienti: ognuno decide per sé</h2>



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<p>Al di là della fase di pandemia, “esistono <strong>comuni più permissivi </strong>e altri che adottano uno stile da <strong>dittatura</strong>, quasi che gli artisti di strada dessero fastidio a priori”, sottolinea Boron. “Circa un migliaio di comuni hanno regolamentato l’arte di strada, gli altri si rifanno alle leggi di <strong>pubblica sicurezza</strong> e si può essere incriminati per molestie e schiamazzi mentre invece si sta facendo un’attività artistica: assurdo”.</p>



<p>Manca una legge nazionale. Esistono però <strong>leggi regionali</strong>, in Piemonte e in Puglia, finalizzate a regolamentare l’arte di strada. “Sì, però poi i regolamenti sono comunali, e il resto viene magari disatteso senza nessun tipo di problema”, evidenzia il presidente di FNAS. “Alla legge vengono anteposti interessi di carattere spicciolo. In genere le istituzioni propendono per scelte nette che non prevedono vie di mezzo”. Ma qual è il timore dei sindaci? “Non è sempre chiaro. Va però anche detto che ci sono persone incivili che magari utilizzano volumi di musica esagerati e fanno tutt’altro che arte di strada, mettendo in cattiva luce la categoria. Noi artisti, tra l’altro, abbiamo un <strong>codice etico</strong> che rispettiamo”.</p>



<p>La dinamica targata “o tutti o nessuno” e adottata dalle istituzioni cozza contro le caratteristiche peculiari dell’ambito: “Siamo talmente variegati che <strong>vanno assunte misure diverse</strong>. Come posso paragonare chi fa il mimo o la statua vivente a chi fa ad esempio breakdance, magari in gruppo? Capisco che sia complicato puntare alla <strong>peculiarità</strong>, ma se non si attivano <strong>misure decisionali riguardanti i casi specifici</strong> le conseguenze negative diventano generalizzate e ci rimettiamo tutti”.</p>



<p>L’arte di strada attraverso le sue performance è un’occasione per portare emozione e intrattenimento oltre che richiamo turistico, e tutto questo <strong>gratuitamente</strong>. “Gli enti pubblici non devono pagare nulla. Inoltre adesso vanno molto di moda l’urbanistica tattica e la rigenerazione urbana, e non c’è niente di meglio delle arti performative per far <strong>vivere un luogo</strong> e con costo zero per l’amministrazione comunale”.</p>



<p>Restando in tema di spese, l’unica è quella sostenuta dal <strong>Comune di Milano</strong> che ha attivato una <strong>piattaforma online</strong> a cui gli artisti di strada possono iscriversi per prenotare la propria postazione. “Costa 15.000 euro all’anno, un’inezia per l’ente comunale”, commenta Boron. E aggiunge: “Rispetto all’accoglienza nei confronti dell’arte di strada non c’entra nulla la giunta coinvolta. Milano ad esempio è molto burocratica e rigida sui protocolli, e raramente entra nel merito delle cose”. Non manca una riflessione rispetto alle scelte prese dagli stessi artisti: “Diversi puntano ai centri storici, ma io dico di non dimenticare l’importanza delle <strong>periferie</strong>”.</p>



<p>Sull’accoglienza nei confronti dell’arte di strada da parte delle <strong>città più piccole</strong> che cosa ci può dire? “Alcune sono poco conosciute, altre sono spesso frequentate, tipo Cremona, e ci si trova bene”. Menzioniamo poi il <strong>Ferrara Buskers Festival</strong>: “Ferrara ha aperto all’arte di strada solo da qualche anno, eppure c’è da tempo il festival, ma sono due cose completamente slegate, senza continuità. Il festival è una sorta di grande parco giochi e se vogliamo una vetrina, ma con una contraddizione di fondo: gli artisti di strada che vi partecipano non sono pagati e nemmeno hanno un rimborso spese per mangiare e per l’eventuale pernottamento. In realtà non dovrebbe funzionare così: se voglio esibirmi gratis vado per i fatti miei e dove voglio io, rispettando sempre il regolamento cittadino. Se a decidere tutto è l’organizzazione di un festival, compresi orario e postazione, allora deve essere previsto un compenso per l’artista e un rimborso spese. In altri eventi e festival a cui ho partecipato il cachet è sempre stato previsto”.</p>



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<h2 id="h-il-rapporto-con-il-pubblico-educhiamo-alle-espressioni-artistiche-e-ci-mettiamo-in-discussione">Il rapporto con il pubblico: “Educhiamo alle espressioni artistiche e ci mettiamo in discussione”</h2>



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<p>Abbiamo parlato del rapporto con enti pubblici, ma qual è lo stereotipo più forte che ancora s’incontra rispetto alla figura dell’artista di strada da parte del <strong>pubblico</strong>?</p>



<p>“Capita ancora che si leghi l’artista di strada alla figura del <strong>barbone</strong>, ma se un artista è bravo la gente lo riconosce dopo due minuti di esibizione e premia la sua qualità. Abbiamo studiato e ci siamo preparati: <strong>con la bravura non si può mai barare</strong>”. E ancora: “L’arte di strada è un’importante occasione di formazione e <strong>messa in discussione</strong> per l’artista, perché si confronta con un pubblico che non ha già fatto il passo della scelta, come quando va a teatro, ma lo intercetta casualmente. Allo stesso tempo crea <strong>educazione</strong> nei confronti del pubblico sulle diverse espressioni artistiche, recuperando il loro valore”.</p>



<p>“L’arte di strada ricopre quindi una funzione importantissima, peccato che sia considerata una cenerentola”.</p>



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<h2 id="h-da-dirigente-d-azienda-ad-artista-di-strada-puro-la-testimonianza-di-marco-panzani-siamo-strumenti-sociali-importanti">Da dirigente d’azienda ad artista di strada “puro”, la testimonianza di Marco Panzani: “Siamo strumenti sociali importanti”</h2>



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<p>Dal 2015 vive in un camper e viaggia in lungo e in largo l’Italia “per regalare emozioni e buoni sentimenti alle persone perché è ciò di cui hanno bisogno”.</p>



<p>Voce limpida e serena quella di <strong>Marco Panzani</strong>, artista di strada “puro” che a 50 anni ha deciso di cambiare completamente vita: “Per lungo tempo sono stato dirigente d’azienda; poi, dopo alcune vicissitudini personali, ho scelto di seguire il cuore e di dedicarmi alla mia passione da sempre: la musica”.</p>



<p>Marco suona per strada, componendo pezzi propri o eseguendo quelli di autori come Tenco, De André e Paoli. Riguardo al fare arte in strada ha le idee ben chiare: “È una <strong>missione spirituale</strong>: il mio obiettivo è stare in armonia con il luogo in cui mi trovo e le persone che vi passano. Serve inoltre molta umiltà: la strada è di tutti e bisogna portare rispetto”.</p>



<p>Riguardo al discorso sui <strong>territori più o meno accoglienti</strong> riflette: “Milano potrebbe essere il fiore all’occhiello a livello europeo, con duecento e passa postazioni per esibirsi, ma non sempre viene permesso. Poi purtroppo ci sono i maleducati che disturbano, danneggiando così anche i colleghi”.</p>



<p>Altro errore evidenziato è il fatto che, sempre sul territorio milanese, l’arte di strada sia rientrata nelle categorie del cinema e del teatro subendo, la stessa sorte dei <strong>blocchi</strong>: “Non ha senso e andrebbero fatte distinzioni: ci sono esibizioni musicali o di altro tipo che non richiedono soste per essere ascoltate, perché non si basano sull’elemento visivo; allora perché impedirle, visto che non implicano assembramenti?”.</p>



<p>Marco conferma la durezza del periodo della pandemia, ma ribadendo l’importanza del ruolo ricoperto: “Noi artisti di strada <strong>siamo importanti</strong> <strong>strumenti sociali</strong>: coloriamo i luoghi e creiamo uno scambio di energie con chiunque voglia accoglierle”.<em></em></p>


Artisti di strada, la denuncia di FNAS: &#8220;Per tutelarci non basta il fai da te dei Comuni&#8221;

<p>La solita storia per cui le mode nascono negli Stati Uniti e noi ce le importiamo in Italia: quante ce ne danno a bere anche se il tema stavolta è il mangiare. Vedo girare da giorni la notizia del <strong>food truck di Nik Barricelli</strong>, newyorkese ma con famiglia dalle radici italiane tra Campania e Sicilia: considerata la crisi della ristorazione anche dalle sue parti, ha deciso di mettere su strada il &#8216;Cento Percento’, ben marcato col tricolore e con l’offerta di focacce, salumi e formaggi italiani belli in vista.</p>
<p>Vedo girare la notizia come se fosse una novità eclatante e non si capisce proprio dove sia l’originalità.</p>
<p>Sulla <strong>street food mania</strong>, bruscamente rovinata dal <strong>COVID-19</strong>, i dati erano davvero illuminati: nel solo periodo 2013-2018 erano state registrate oltre 1.000 imprese, di cui un 25% circa fondate da giovani. I dati UnionCamere-InfoCamere di fine 2020 parlano di oltre 25.000 imprese italiane dedicate e un danno economico quotato in oltre 200 milioni di euro tra merce invenduta, mancati guadagni e costi fissi. Il concetto di <strong>costo fisso</strong> potrebbe far sorridere qualcuno davanti all’idea dei mezzi ambulanti ma moltissime di queste attività partono dall’investimento in infrastrutture e truck.</p>
<p>Solo per dare il segno di quanto sia ampia la forbice di chi ha creduto nello street food negli ultimi anni, dai più piccoli ai grandi colossi del settore agroalimentare e della ristorazione, negli ultimi anni la Fiorucci ha investito 1 milione di euro nel settore, mettendo in strada ben 300 food truck in giro per le piazze d’Italia.</p>
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<h2 class="has-text-align-left" id="h-streetfoody-e-i-professionisti-invisibili-del-cibo-di-strada">StreetFoody e i professionisti invisibili del cibo di strada</h2>
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<p>Tornando a Nik Barricelli, e a quanto marketing tolga fiato ormai alle notizie, originale e unica è semmai la storia di <strong>StreetFoody</strong>, in assoluto l’azienda italiana più strutturata nella produzione dei mezzi di trasporto che tutti per praticità chiamiamo <strong>food truck</strong>: è la più strutturata anche per numeri e per spazi visto che la sede si sviluppa su un’area di oltre 12.000 metri quadrati. </p>
<p>La metà degli spazi è interamente dedicata all’officina perché lì tutto nasce; l’unica fase esterna è l’arrivo dei telai da Fiat o Piaggio a seconda del modello scelto dal cliente. Poi pareti, arredi interni, pannellature, impianti, allestimenti, certificazioni e documenti finiscono tutti nel progetto chiavi in mano, con dietro <strong>decine di mestieri che spariscono</strong> ogni volta che compriamo street food.&nbsp;</p>
<p>Dietro questi food truck ci sono carrozzieri, meccanici, allestitori, grafici, progettisti, comunicatori, agenti di vendita. <strong>Dietro il cibo c’è sempre un mondo che lavora</strong>.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_stabilimento_streetfoody_officina.767x0-is.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="767" height="511" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_stabilimento_streetfoody_officina.767x0-is.jpg" alt="" class="wp-image-43751" /></a><figcaption>La sede dello stabilimento StreetFoody a Terranuova Bracciolini, provincia di Arezzo.</figcaption></figure>
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<h2 id="h-da-carrozzeria-a-officina-nel-segno-del-food">Da carrozzeria a officina, nel segno del food</h2>
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<p>Siamo nel Valdarno, in provincia di Arezzo: è a Terranuova Bracciolini che <strong>Ivo Resti </strong>ha fondato StreetFoody nel 1961 come semplice carrozzeria. A quel tempo si chiamava <em>Resti S.p.A.</em>, ma negli ultimi trent’anni, con approccio a dir poco pionieristico, si è evoluta e ha cambiato pelle concentrandosi soprattutto nel segmento del food dopo aver sperimentato a lungo anche l’abbigliamento e le calzature.&nbsp;</p>
<p><strong>Michela Resti</strong>, Responsabile marketing di StreetFoody, è la riprova di una terza generazione che tiene ben stretta la storia di famiglia per proiettarla molto in avanti.</p>
<p>“Oggi la nostra è un’azienda che conta una filiera davvero lunga di mestieri perché il <strong>team di oltre trenta persone</strong> va dall’officina al commerciale, dal marketing e vendita all’amministrazione. L’officina è rimasta il cuore di tutto per quanto il tempo abbia trasformato totalmente il prodotto, così come il materiale, la clientela e la destinazione dei veicoli.”</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_aziendale_2_07_2018ridottaancoa_di_piu.1379x0-is.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="692" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/foto_aziendale_2_07_2018ridottaancoa_di_piu.1379x0-is-1024x692.jpg" alt="" class="wp-image-43750" /></a><figcaption>Il team dei mestieri nascosti dietro un food truck</figcaption></figure>
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<h2 id="h-i-ristoranti-su-ruote-corrono-pi-forte-della-pandemia">I ristoranti su ruote corrono più forte della pandemia</h2>
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<p>StreetFoody produce ogni anno circa <strong>100 mezzi </strong>che vende e commercia in Italia ma soprattutto in Europa &#8211; che prediligono come mercato &#8211; e su scala internazionale: la fanno da padroni <strong>Francia</strong>, Germania, <strong>Austria</strong>, Svizzera e <strong>Belgio</strong>. Li chiamiamo&nbsp;food truck che, tradotti, possono essere semplici ape car o veri e propri autonegozi su strada. La destinazione dell’<em><strong>uso speciale negozio</strong> </em>è del resto il requisito essenziale per svolgere attività commerciale su suolo pubblico.</p>
<p>Un mestiere come il loro ha a che fare tutti i giorni con le <strong>economie ambulanti o itineranti </strong>di chi gestisce la propria attività su strada. “I nostri <strong>clienti cosiddetti ambulanti </strong>sono, per intenderci, quelli che trovate all’interno dei mercati. I <strong>mezzi itineranti</strong> invece sono quasi sempre delle estensioni dell’attività messe in campo da ristoranti, gelaterie, resort, catene di food: lì andiamo proprio a studiare un ampliamento dei loro progetti e non sempre lo scopo è quello di fare business, la maggior parte cerca semplicemente un canale parallelo di posizionamento o una sorta di supporto commerciale e pubblicitario”.</p>
<p>La pandemia ha tirato giù le saracinesche ai ristoranti ma ha portato aria fresca dentro il mercato dei mezzi su strada che offrono cibo. “Indubbiamente lo scossone è stato forte nel consumo di cibo fuori casa, ma <strong>questi mezzi sono stati una risorsa </strong>per le attività che hanno optato per il <strong>take away </strong>o per il <strong>delivery </strong>o che semplicemente li hanno posizionati all’esterno del ristorante stesso”. </p>
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<h2 id="h-dove-osano-i-food-truck-le-province-pi-gettonate-delle-grandi-citt">Dove osano i food truck: le province più gettonate delle grandi città</h2>
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<p>Durante la chiacchierata con Michela Resti emerge chiaro un concetto: i food truck raccontano anche una certa <strong>democrazia tra le geografie d’Italia</strong>. </p>
<p>Non è vero che siano più diffusi a Milano o a Roma o nelle grandi città, come si sarebbe portati a pensare. La loro incidenza è spesso più forte proprio nelle <strong>realtà di provincia</strong> stando ai dati di vendita di StreetFoody: “Essendo mezzi molto snelli e agili, rendono anzi più accessibile il servizio di street food là dove il ristorante non arriva o non investirebbe nemmeno. Parlo veramente di <strong>esperienza diretta di vendita in paesini molto piccoli</strong> e poco dotati di servizi e infrastrutture. Durante la pandemia questo ha permesso a chi lavorava su food truck di fare consegne a domicilio e garantirsi non solo una minima sopravvivenza, ma <strong>assicurare anche un servizio e una relazione al cliente </strong>che si sarebbe sentito ancora più isolato”.</p>
<p>Restando in <strong>Toscana</strong> &#8211; e in particolare a <strong>Firenze</strong>, che è anche la patria degli storici <strong>lampredottai</strong> &#8211; l’indagine firmata CNA che è stata resa nota da pochi giorni ha evidenziato che il 40,1% delle attività di ristorazione del capoluogo è convinto di non riuscire a tornare ai livelli precedenti dopo la pandemia e che il 27% teme di chiudere nei prossimi mesi. Però c’è anche un 32,9% di imprese che spera addirittura di crescere nel 2021: l’8,7% prevede un incremento di risultati e il 24,2% confida di recuperare le perdite accumulate nel 2020. </p>
<p>Proprio alla CNA Firenze sono arrivate nelle ultime settimane numerose manifestazioni di interesse per l’apertura di attività di ristorazione ambulante e il dato sarà di certo una cartina tornasole rilevante per una meta turistica a cui sta cambiando la pelle. Intanto, ogni volta che ordiniamo su strada, ricordiamo quante storie di vita e di fatica ci passano accanto. </p>
<p>E non ce ne voglia Nik Barricelli se ci siamo permessi di ricordare <strong>qual è l’Italia che crea per davvero</strong>.</p>
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<p><em>Photo credits: StreetFoody</em></p>


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La pandemia ha danneggiato le attività di ristorazione, ma ha favorito i food truck. Scopriamo i professionisti che li realizzano in un&#8217;officina della Valdarno.

Ristorazione in crisi: i food truck tentano il sorpasso - Informazione senza filtro

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<p>Le <strong>guide turistiche</strong> sono tra le categorie professionali più danneggiate dalla pandemia, penalizzate da poco sostegno economico e dalla difficoltà o impossibilità di svolgere la professione “a distanza”.</p>



<p>Chi vive a Roma non ha potuto fare a meno di notare da ormai un anno il <strong>vuoto</strong> soprattutto nelle cosiddette <strong>zone</strong> “<strong>turistiche</strong>”.&nbsp;Per tanti residenti la Città Eterna è più calma e vivibile; non tutti però sono dello stesso avviso. La pandemia si è vista anche e soprattutto nella Capitale, meta privilegiata a livello mondiale. Secondo l’Istat, nei primi nove mesi del 2020 si è registrato in tutta Italia un <strong>calo della presenza di turisti dall’estero del 68%</strong> rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, arrivando a meno 73% nelle grandi città.</p>



<p>“Noi lavoriamo soprattutto con i gruppi di turisti internazionali che non torneranno tanto presto, di certo non nel 2021. Non vedremo i gruppi di giapponesi, coreani, cinesi, americani, australiani e russi con cui molti di noi lavoravamo. <strong>Dovremo quindi affrontare</strong> <strong>due anni senza lavoro</strong>. Le guide mantenevano le loro famiglie. La situazione per molti è drammatica”.</p>



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<h2 id="h-2020-2021-il-biennio-nero-del-turismo">2020/2021, il biennio nero del turismo</h2>



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<p>A parlare è <strong>Francesca Duimich</strong>, <a href="http://www.federagit.it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">presidente di Federagit-Roma e Lazio</a>, Federazione di Guide e Accompagnatori Turistici, una delle categorie che fa parte della Confesercenti, con sedi e iscritti in quasi tutte le regioni d&#8217;Italia. Le <strong>guide abilitate </strong>in Italia sono <strong>25.000</strong>, così come gli <strong>accompagnatori</strong>, ossia chi si occupa di gestire tutti gli aspetti più pratici e burocratici legati alle attività turistiche.</p>



<p>“I nostri iscritti sono laureati, molti con dei curricula post lauream, dottorati, specializzazioni. Le guide parlano bene una o più lingue straniere. La nostra professionalità è stata acquisita con lunghi anni di studio e di esperienza sul campo”, continua la Duimich.</p>



<p>Il quadro tracciato non è confortante e lo si intuisce subito: “Nel turismo c&#8217;è la bassa stagione, da novembre a febbraio, in cui non si lavora. Gli ultimi lavori seri li abbiamo fatti a ottobre 2019. Nel 2020-2021, nei periodi in cui i musei e siti archeologici sono stati aperti,<strong> un po&#8217; di lavoro per le guide ha ripreso con i residenti, ma forse si tratta dell&#8217;1 % di quello che c&#8217;era fino al 2019. </strong>L’apertura dal lunedì al venerdì non produce lavoro”.</p>



<p></p>



<p>Le assenze di turisti stranieri non sono state minimamente compensate dal turismo “nazionale”, laddove possibile, mettendo in seria difficoltà chi vive di questo lavoro. “Qualche guida sta proponendo <strong>visite virtuali online</strong>, ma non sono un&#8217;alternativa che fa vivere le migliaia di persone che vivevano di questo lavoro. In più non è facile riciclarsi e non è facile per noi accettare l&#8217;idea che la nostra qualificazione professionale, acquisita con molto impegno, ora non sia utilizzabile. Aspettiamo quindi il momento per riprendere a lavorare, quando si potrà ricominciare a viaggiare nel mondo. Solo per conoscere bene il patrimonio culturale di Roma e del Vaticano non basta una vita intera. Nel frattempo cogliamo l&#8217;occasione per migliorare la nostra formazione”, continua.</p>



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<h2 id="h-i-pochi-sostegni-economici-e-l-esigenza-di-nuove-leggi-per-le-guide-turistiche">I pochi sostegni economici e l’esigenza di nuove leggi per le guide turistiche</h2>



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<p>L’impossibilità a svolgere il proprio lavoro non è stata adeguatamente compensata dalle <strong>misure economiche</strong> stanziate dai governi che si sono succeduti:</p>



<p>“<strong>I contributi sono stati distribuiti in maniera molto diseguale</strong>. Con il cambiamento del governo abbiamo visto interrotte le trattative per recuperare gli esclusi. Le guide e gli accompagnatori che lavorano con il regime della prestazione occasionale, che la legge consente,&nbsp;ad esempio non hanno ricevuto neanche un euro. Sono stati confusi con gli stagionali del turismo, ma non rientrano in quella casistica.”</p>



<p>“L&#8217;ultimo <strong>Decreto Sostegno</strong> a noi lavoratori autonomi riconoscerà il <strong>contributo minimo di mille euro</strong>. A coloro che hanno lavorato molto nel 2019 qualcosa in più. Ma dobbiamo sopravvivere per due anni. Nel frattempo&nbsp;abbiamo dovuto pagare le tasse e i contributi INPS. Le guide che versano l&#8217;INPS nella Gestione Commercianti pagano un fisso di circa 4.000 euro l&#8217;anno di contributi INPS, anche se gli introiti sono zero. I bonus ricevuti sono stati restituiti allo Stato. Nella Legge di Bilancio era prevista una restituzione parziale dei contributi INPS. Stiamo aspettando i decreti attuativi, ma <strong>occorre che il periodo contributivo non vada perso</strong>. Il comparto del turismo, da tutti riconosciuto come il più colpito, ha bisogno di sostegni e di essere accompagnato fino alla ripresa”.</p>



<p>Il problema, però, è precedente alla pandemia. Secondo la Duimich è necessario rimettere ordine da un punto di vista legislativo: “La pandemia è arrivata quando la categoria era già provata da&nbsp;<strong>anni di caos legislativo</strong>. Ci auguriamo che il <strong>ministro Garavaglia</strong> impegni urgentemente la sua attenzione all&#8217;approvazione della&nbsp;<strong>legge sulla professione di guida</strong>. Sono stati depositati alcuni disegni di legge in Parlamento. Una cosa importante, poi, è che nel decidere le misure anti-COVID-19&nbsp;si distinguano i musei dai siti archeologici e dai giardini storici. Nei siti all&#8217;aperto il distanziamento è praticabile, l&#8217;aria circola e dovrebbe essere possibile tenerli aperti anche durante il fine settimana”.&nbsp;</p>



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<h2 id="h-archeologi-durante-la-pandemia-come-lavorano">Archeologi durante la pandemia, come lavorano?</h2>



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<p><strong>Massimo Brando </strong>e<strong> Valentina Pica</strong> sono due archeologi liberi professionisti collaboratori, entrambi a partita Iva, di importanti realtà italiane e straniere. Massimo è specialista in ceramica romana e fondatore di una delle più corpose e longeve community a tema archeologico del web (ben 12 anni): il gruppo Facebook “<strong>Ceramica in Archeologia/Pottery in Archaeology</strong>”, di cui Valentina è anche amministratrice.</p>



<p>Sette anni fa hanno deciso di dare vita a un&#8217;attività di divulgazione del patrimonio storico e archeologico di Roma, inizialmente rivolgendosi a gruppi di conoscenti, con un semplice scambio di mail, poi aprendo un sito web e una pagina Facebook con il nome di <a href="https://archeoguide.wordpress.com/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">ArcheoGuide</a>.</p>



<p>“Valentina è guida turistica autorizzata e io la affianco con consulenze, mentre insieme strutturiamo i programmi delle nostre iniziative. Fin da subito abbiamo preso la decisione di rimanere fuori dal circuito turistico più normale e internazionale, la cui offerta a Roma era già ricchissima, per dare un taglio più approfondito e specialistico, volendo di nicchia. Ci rivolgiamo quindi soprattutto a persone residenti a Roma e in lingua italiana, anche&nbsp;se non mancano le richieste di chi viene fuori&nbsp;Roma, a volte anche stranieri”, spiega Massimo.</p>



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<h2 id="h-il-lavoro-prima-e-dopo-il-covid-19-la-fame-di-bellezza-non-si-placa-col-digitale">Il lavoro prima e dopo il COVID-19: la fame di bellezza non si placa col digitale</h2>



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<p>“Prima della pandemia la nostra vita era simili a quella di tutti. Ci si dedicava al lavoro e poi alle attività che fanno bene allo spirito, che sono il motivo per cui si lavora, credo. Questo oggi ci è precluso. Fortunatamente abbiamo potuto lavorare per scrivere qualche contributo scientifico, alcuni dei quali pubblicati e altri in corso di stampa, pur nella pratica impossibilità di accedere alle biblioteche scientifiche.”</p>



<p>“Dal punto di vista dell&#8217;<strong>attività archeologica</strong> i primi&nbsp;mesi della pandemia sono stati davvero drammatici, perché non solo si sono fermati quasi tutti i lavori di cantieri urbani, che sono quelli che ci consentono di avere continuità lavorativa, ma sono saltati tutti i progetti portati avanti con le università straniere. Poi, seppur lentamente, un po&#8217; di lavoro è ripreso”, raccontano Massimo e Valentina.</p>



<p>Le prospettive di breve e medio termine non sono però rosee: “È davvero dura. Di fatto il prolungamento della <strong>zona arancione nel Lazio</strong> fino alla fine di aprile ci <strong>preclude nuovamente la visita a musei e siti archeologici</strong>. Ad esempio salteranno le due visite&nbsp;a posti limitati al Mausoleo di Augusto che avevamo in calendario per aprile e per le quali avevamo avuto adesioni entusiastiche, a dispetto del limitato numero di partecipanti previsti”.</p>



<p>“Il <strong>continuo cambio di colori</strong>, poi, di fatto non permette di fare programmi mensili come eravamo abituati, costringendoci a <strong>programmazioni settimanali</strong>. Negli ultimi mesi&nbsp;chi si è rivolto a noi aveva talmente voglia di fare e di respirare il bello e la cultura che siamo stati costretti più volte a limitare il numero di partecipanti e a lasciare&nbsp;fuori parecchie persone, perché abbiamo sempre dato la precedenza alla sicurezza. Ma io sto parlando della nostra attività, che è nata con la volontà di rimanere piccola, di nicchia e collaterale alla nostra attività professionale. Per le guide che fanno questo come lavoro principale con un pubblico più ampio e diverso dal nostro è un periodo difficilissimo.”</p>



<p>Se molti lavori in presenza hanno tenuto botta attraverso la modalità di svolgimento del lavoro “a distanza”, per il turismo non sempre è fattibile, non solo per ragioni oggettive. Non sempre la condivisione di cultura, storie millenarie e arte può essere altrettanto efficace dallo schermo di un pc: “Ci abbiamo provato, ma chi ci segue per cultura, attitudine e fascia di età vuole il rapporto dal vivo. E noi siamo d&#8217;accordo, cominciamo a essere insofferenti alla retorica del virtuale&#8221;, concludono Massimo e Valentina.<br><br></p>

Guide turistiche in pandemia: bassa stagione, bassissima

<p>Traghettano emozioni, gioco, musica, frammenti di storie in un tempo che è quello del “qui e ora”, in un luogo che diventa metafora della vita pronta a scorrere: la strada. Gli <strong>artisti di strada</strong> si distinguono per tante cose: fascino, immediatezza, impatto, relazione con il pubblico e anche tradizione, se pensiamo che già nell’antica Roma esistevano forme di regolamentazione riferite all’attività.</p>
<p>Parliamo di un ambito che presenta le caratteristiche di un prisma: le numerose sfaccettature non riguardano infatti soltanto le <strong>diverse tipologie</strong> <strong>di figure coinvolte</strong>, ma anche il differente <strong>modo di vivere</strong> e concepire questo ruolo. Artisti di strada possono essere infatti musicisti, mimi, danzatori, statue viventi, giocolieri, cantautori, donne e uomini con ampio range di età.</p>
<p>Occorre però partire da una premessa importante: “L’arte di strada è una pratica che qualsiasi cittadino ha diritto a mettere in atto utilizzando spazi pubblici per esprimersi artisticamente e in maniera civile: questo lo dice la Costituzione stessa”, fa chiarezza <strong>Giuseppe Boron</strong>, sassofonista, attore e performer nonché presidente della <strong>Federazione Nazionale delle Arti in Strada (FNAS)</strong>. Costituita nel 1999, ha come obiettivo proprio quello di rappresentare, promuovere e tutelare le diverse forme di arte e spettacolo dell’ambito.</p>
<p>All’interno di questo settore multiforme esiste una distinzione cardine tra <strong>artisti di strada “puri”</strong> e <strong>“ibridi”</strong>: “I cosiddetti &#8216;puri&#8217; sono coloro che hanno fatto questa scelta di vita in maniera esclusiva e sono per così dire in estinzione”, spiega il presidente di FNAS. “Complessivamente in Italia ce ne saranno un migliaio, e il loro guadagno è rappresentato da ciò che le persone lasciano nel famoso cappello o cesto. Tutti gli altri invece sono artisti di vario genere che includono l’attività in strada nel loro repertorio affiancandola a quella che realizzano ad esempio nei teatri, nei club, agli eventi, oppure alla formazione”.</p>
<p>L’arte di strada per chi lavora anche su altri fronti diventa così un supporto al reddito oltre che, prima di tutto, un prezioso canale di <strong>contatto diretto</strong> con il pubblico e un’<strong>opportunità per farsi conoscere</strong>. “La strada può essere una vetrina per trovare lavoro, ma non è così automatico”, avverte Boron.</p>
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<h2 id="h-la-denuncia-di-fnas-per-tutelarci-serve-un-disegno-di-legge-nazionale-non-il-fai-da-te-dei-comuni">La denuncia di FNAS: “Per tutelarci serve un disegno di legge nazionale, non il fai da te dei comuni”</h2>
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<p>Affrontiamo subito una questione scomoda. Chiedendo, senza ironia, al presidente di FNAS quale sia lo stato attuale dell’arte di cui stiamo parlando, ci rivela la grande lacuna che pesa da tempo sull’ambito.</p>
<p>“Manca tuttora una<strong> legge nazionale dedicata all’arte di strada </strong>che delinei, in maniera precisa e omogenea, che cosa è possibile fare e che cosa no da parte di chi la pratica. Tutto è sempre demandato alle scelte dei <strong>singoli comuni</strong>: ognuno attiva così il <strong>proprio regolamento</strong> con varie discrepanze.”</p>
<p>Questa frammentarietà si è esasperata durante la <strong>pandemia</strong>: “A Milano in zona rossa non è possibile esibirsi se non in maniera abusiva. A Torino anche in zona arancione gli artisti si possono esibire; a Genova si sono potuti esibire sempre, così come a Napoli e a Palermo, indipendentemente dalla situazione”.</p>
<p>A destare perplessità e anche amarezza è inoltre la situazione da <strong>due pesi e due misure</strong>: “Ci sono assembramenti su cui viene chiuso più di un occhio e nel frattempo viene vietata l’arte di strada: una contraddizione notevole!” chiosa Boron.</p>
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<h2 id="h-ristori-insufficienti-e-lavoro-fermo-la-pandemia-chiude-in-casa-gli-artisti-di-strada">Ristori insufficienti e lavoro fermo: la pandemia chiude in casa gli artisti di strada</h2>
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<p>Il 2020 è stato divorato dalla pandemia e il monito di restare a casa ha messo la strada con le spalle al muro, e con essa coloro che ci lavorano. </p>
<p>Migliaia di artisti hanno visto arenarsi il proprio mestiere, tra cui quelli coinvolti nel segmento dello<strong> spettacolo di strada</strong>. Si tratta di artisti pagati a cachet e che lavorano per <strong>rassegne </strong>e <strong>festival</strong> che hanno luogo, appunto, in strada: “<strong>I ristori sono miserrimi</strong> e sono stati persino abbassati”, spiega Giuseppe Boron. “I primi tre mesi del 2021 avremmo dovuto ricevere 3.000 euro in tutto, ma ce li hanno abbassati a <strong>2.400</strong>. C’è anche chi è andato in cassa integrazione prendendo 600 euro al mese. In ogni caso si tratta di misure che non consentono di mantenere le famiglie: una situazione davvero drammatica”.</p>
<p>A essere particolarmente colpiti dalla situazione sono i cosiddetti <strong>artisti di strada</strong> “<strong>puri</strong>”, ossia coloro che hanno intrapreso il percorso come scelta esclusiva di vita: “In questo caso le difficoltà sono enormi: non sono iscritti ad alcuna associazione per loro scelta e quindi non sono rappresentati. Inoltre, non potendo dimostrare il proprio lavoro, sono <strong>esclusi da qualsiasi tipo di</strong> <strong>salvagente sociale</strong> perché il reddito che viene guadagnato per strada è frutto di donazione. Si potrebbe inserirlo nella dichiarazione dei redditi, ma difficilmente reggerebbe una tassazione: di base è difficile per gli artisti di strada ‘puri’ arrivare a fine mese”.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Grande-Piano-Foto-SHOW-1.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Grande-Piano-Foto-SHOW-1-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-43811" /></a></figure>
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<h2 id="h-comuni-pi-o-meno-accoglienti-ognuno-decide-per-s">Comuni più o meno accoglienti: ognuno decide per sé</h2>
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<p>Al di là della fase di pandemia, “esistono <strong>comuni più permissivi </strong>e altri che adottano uno stile da <strong>dittatura</strong>, quasi che gli artisti di strada dessero fastidio a priori”, sottolinea Boron. “Circa un migliaio di comuni hanno regolamentato l’arte di strada, gli altri si rifanno alle leggi di <strong>pubblica sicurezza</strong> e si può essere incriminati per molestie e schiamazzi mentre invece si sta facendo un’attività artistica: assurdo”.</p>
<p>Manca una legge nazionale. Esistono però <strong>leggi regionali</strong>, in Piemonte e in Puglia, finalizzate a regolamentare l’arte di strada. “Sì, però poi i regolamenti sono comunali, e il resto viene magari disatteso senza nessun tipo di problema”, evidenzia il presidente di FNAS. “Alla legge vengono anteposti interessi di carattere spicciolo. In genere le istituzioni propendono per scelte nette che non prevedono vie di mezzo”. Ma qual è il timore dei sindaci? “Non è sempre chiaro. Va però anche detto che ci sono persone incivili che magari utilizzano volumi di musica esagerati e fanno tutt’altro che arte di strada, mettendo in cattiva luce la categoria. Noi artisti, tra l’altro, abbiamo un <strong>codice etico</strong> che rispettiamo”.</p>
<p>La dinamica targata “o tutti o nessuno” e adottata dalle istituzioni cozza contro le caratteristiche peculiari dell’ambito: “Siamo talmente variegati che <strong>vanno assunte misure diverse</strong>. Come posso paragonare chi fa il mimo o la statua vivente a chi fa ad esempio breakdance, magari in gruppo? Capisco che sia complicato puntare alla <strong>peculiarità</strong>, ma se non si attivano <strong>misure decisionali riguardanti i casi specifici</strong> le conseguenze negative diventano generalizzate e ci rimettiamo tutti”.</p>
<p>L’arte di strada attraverso le sue performance è un’occasione per portare emozione e intrattenimento oltre che richiamo turistico, e tutto questo <strong>gratuitamente</strong>. “Gli enti pubblici non devono pagare nulla. Inoltre adesso vanno molto di moda l’urbanistica tattica e la rigenerazione urbana, e non c’è niente di meglio delle arti performative per far <strong>vivere un luogo</strong> e con costo zero per l’amministrazione comunale”.</p>
<p>Restando in tema di spese, l’unica è quella sostenuta dal <strong>Comune di Milano</strong> che ha attivato una <strong>piattaforma online</strong> a cui gli artisti di strada possono iscriversi per prenotare la propria postazione. “Costa 15.000 euro all’anno, un’inezia per l’ente comunale”, commenta Boron. E aggiunge: “Rispetto all’accoglienza nei confronti dell’arte di strada non c’entra nulla la giunta coinvolta. Milano ad esempio è molto burocratica e rigida sui protocolli, e raramente entra nel merito delle cose”. Non manca una riflessione rispetto alle scelte prese dagli stessi artisti: “Diversi puntano ai centri storici, ma io dico di non dimenticare l’importanza delle <strong>periferie</strong>”.</p>
<p>Sull’accoglienza nei confronti dell’arte di strada da parte delle <strong>città più piccole</strong> che cosa ci può dire? “Alcune sono poco conosciute, altre sono spesso frequentate, tipo Cremona, e ci si trova bene”. Menzioniamo poi il <strong>Ferrara Buskers Festival</strong>: “Ferrara ha aperto all’arte di strada solo da qualche anno, eppure c’è da tempo il festival, ma sono due cose completamente slegate, senza continuità. Il festival è una sorta di grande parco giochi e se vogliamo una vetrina, ma con una contraddizione di fondo: gli artisti di strada che vi partecipano non sono pagati e nemmeno hanno un rimborso spese per mangiare e per l’eventuale pernottamento. In realtà non dovrebbe funzionare così: se voglio esibirmi gratis vado per i fatti miei e dove voglio io, rispettando sempre il regolamento cittadino. Se a decidere tutto è l’organizzazione di un festival, compresi orario e postazione, allora deve essere previsto un compenso per l’artista e un rimborso spese. In altri eventi e festival a cui ho partecipato il cachet è sempre stato previsto”.</p>
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<h2 id="h-il-rapporto-con-il-pubblico-educhiamo-alle-espressioni-artistiche-e-ci-mettiamo-in-discussione">Il rapporto con il pubblico: “Educhiamo alle espressioni artistiche e ci mettiamo in discussione”</h2>
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<p>Abbiamo parlato del rapporto con enti pubblici, ma qual è lo stereotipo più forte che ancora s’incontra rispetto alla figura dell’artista di strada da parte del <strong>pubblico</strong>?</p>
<p>“Capita ancora che si leghi l’artista di strada alla figura del <strong>barbone</strong>, ma se un artista è bravo la gente lo riconosce dopo due minuti di esibizione e premia la sua qualità. Abbiamo studiato e ci siamo preparati: <strong>con la bravura non si può mai barare</strong>”. E ancora: “L’arte di strada è un’importante occasione di formazione e <strong>messa in discussione</strong> per l’artista, perché si confronta con un pubblico che non ha già fatto il passo della scelta, come quando va a teatro, ma lo intercetta casualmente. Allo stesso tempo crea <strong>educazione</strong> nei confronti del pubblico sulle diverse espressioni artistiche, recuperando il loro valore”.</p>
<p>“L’arte di strada ricopre quindi una funzione importantissima, peccato che sia considerata una cenerentola”.</p>
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<h2 id="h-da-dirigente-d-azienda-ad-artista-di-strada-puro-la-testimonianza-di-marco-panzani-siamo-strumenti-sociali-importanti">Da dirigente d’azienda ad artista di strada “puro”, la testimonianza di Marco Panzani: “Siamo strumenti sociali importanti”</h2>
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<p>Dal 2015 vive in un camper e viaggia in lungo e in largo l’Italia “per regalare emozioni e buoni sentimenti alle persone perché è ciò di cui hanno bisogno”.</p>
<p>Voce limpida e serena quella di <strong>Marco Panzani</strong>, artista di strada “puro” che a 50 anni ha deciso di cambiare completamente vita: “Per lungo tempo sono stato dirigente d’azienda; poi, dopo alcune vicissitudini personali, ho scelto di seguire il cuore e di dedicarmi alla mia passione da sempre: la musica”.</p>
<p>Marco suona per strada, componendo pezzi propri o eseguendo quelli di autori come Tenco, De André e Paoli. Riguardo al fare arte in strada ha le idee ben chiare: “È una <strong>missione spirituale</strong>: il mio obiettivo è stare in armonia con il luogo in cui mi trovo e le persone che vi passano. Serve inoltre molta umiltà: la strada è di tutti e bisogna portare rispetto”.</p>
<p>Riguardo al discorso sui <strong>territori più o meno accoglienti</strong> riflette: “Milano potrebbe essere il fiore all’occhiello a livello europeo, con duecento e passa postazioni per esibirsi, ma non sempre viene permesso. Poi purtroppo ci sono i maleducati che disturbano, danneggiando così anche i colleghi”.</p>
<p>Altro errore evidenziato è il fatto che, sempre sul territorio milanese, l’arte di strada sia rientrata nelle categorie del cinema e del teatro subendo, la stessa sorte dei <strong>blocchi</strong>: “Non ha senso e andrebbero fatte distinzioni: ci sono esibizioni musicali o di altro tipo che non richiedono soste per essere ascoltate, perché non si basano sull’elemento visivo; allora perché impedirle, visto che non implicano assembramenti?”.</p>
<p>Marco conferma la durezza del periodo della pandemia, ma ribadendo l’importanza del ruolo ricoperto: “Noi artisti di strada <strong>siamo importanti</strong> <strong>strumenti sociali</strong>: coloriamo i luoghi e creiamo uno scambio di energie con chiunque voglia accoglierle”.<em></em></p>


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Sara Bellingeri

Scrive fin da quando ha acchiappato in mano la sua prima matita e da allora la passione di raccontare e incontrare le storie non è mai sbiadita. Dal 2005 lavora come giornalista e responsabile ufficio stampa occupandosi soprattutto di diritti, ambiente, inclusione lavorativa, sanità e disabilità. Nel curriculum una laurea in Antropologia Filosofica, un master in comunicazione di eventi e tre libri. In testa la costante voglia di partire anche se il viaggio più emozionante glielo fanno fare ogni giorno i suoi bambini. “Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato”. La frase di Tennyson rappresenta al meglio il suo modo di vivere la vita, il lavoro e le esperienze.

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<p>La data non poteva essere più simbolica. Il 27 marzo: <strong>Giornata Mondiale del Teatro</strong>, scandita da <strong>manifestazioni</strong> in tutta Italia dei <strong>lavoratori del teatro</strong> che hanno ribadito lo stato di grave crisi in cui versa il settore, la mancanza di ristori dignitosi e l’assenza di prospettive per il futuro, attendendo la slittata riapertura – prevista inizialmente proprio per il 27 marzo – degli spazi della cultura.</p>



<p>Dal 21 al 27 marzo si è tenuto anche il festival del teatro delivery “<strong>USCire A primavera</strong>”, organizzato dalla compagnia Nasca Teatri di Terra dell’artista pugliese <strong>Ippolito Chiarello</strong>,&nbsp;in collaborazione con la rete di&nbsp;<strong>USCA</strong> (<strong>Unità Speciali di Continuità Artistica</strong>)&nbsp;creata il 4 dicembre dallo stesso Chiarello. Un’occasione per celebrare l’esperienza del <strong>teatro su prenotazione</strong> e <strong>consegnato a domicilio</strong>, realizzata in questi complicati mesi da attori, attrici e compagnie attive in tutta Italia e anche all’estero.</p>



<p><strong>Rider della cultura</strong> che, nei cortili e davanti le case, hanno saziato un pubblico “affamato” di rappresentazioni e letture in un momento di restrizioni e sofferenze.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr2.jpg"><img width="1024" height="682" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr2-1024x682.jpg" alt="" class="wp-image-43833" /></a><figcaption>Ippolito Chiarello al termine di uno dei suoi spettacoli a domicilio in collaborazione con le <strong>USCA</strong> (<strong>Unità Speciali di Continuità Artistica</strong>) photo@LuciaPagliari</figcaption></figure>



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<h2 id="h-barbonaggio-teatrale-delivery-le-usca-portano-l-arte-a-domicilio">Barbonaggio Teatrale Delivery: le USCA portano l’arte a domicilio</h2>



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<p>Il <strong>Barbonaggio Teatrale Delivery</strong> rappresenta l’estensione della modalità di proposta artistica avviata nel 2009 da Ippolito Chiarello, che propone i suoi <strong>spettacoli</strong>, oltre che in teatro, anche per strada o in luoghi non teatrali, su un palchetto, <strong>vendendoli a pezzi</strong>.</p>



<p>“Da 11 anni sento la necessità di impegnarmi in un’azione parallela più cruda e concreta all’interno di un sistema teatrale poco visionario e senza prospettive, chiuso su se stesso e autoreferenziale. Devo sporcarmi le mani e i piedi per incontrare nuovo pubblico, <strong>stimolare e fidelizzare nuove persone a venire a teatro</strong>”, racconta l’attore salentino, che con il Barbonaggio Teatrale ha toccato oltre 500 città italiane ma anche molte capitali europee, fino al Canada, creando un movimento oggetto di tesi di laurea e film.</p>



<p>“Quando è scoppiata la pandemia, è stato naturale proseguire – zaino in spalla e bicicletta – con la <strong>formula</strong> ‘<strong>delivery’</strong>, in massima sicurezza, lasciandomi suggestionare dai <strong>rider</strong> che erano gli unici a portare alle persone chiuse in casa beni di prima necessità a qualsiasi orario.”</p>



<p>Da qui l’invito di Chiarello a esperienze già esistenti e ai colleghi a unirsi al suo progetto per formare una rete e costituire delle <strong>USCA</strong> – <strong>Unità Speciali di Continuità Artistica</strong> – in tutto il Paese, riprendendo l’acronimo delle omonime Unità sanitarie “che si occupano dell’assistenza domestica dei malati, ma sembrano oggi completamente sparite dalla narrazione del COVID-19”.</p>



<p>Una metafora potente per ribadire la funzione essenziale e concreta dell’arte. “Ho ricevuto almeno 150 contatti e <strong>oggi aderiscono almeno 60 realtà</strong>” in molte città italiane (tra cui Milano, Messina, Palermo, Catania, Potenza, Alessandria, Pisa, Padova, Firenze, Benevento, Assisi, per citarne alcune) e anche all’estero (Francia e Brasile).</p>



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<h2 id="h-noi-attori-non-possiamo-aspettare-a-casa-dobbiamo-muoverci">“Noi attori non possiamo aspettare a casa. Dobbiamo muoverci”</h2>



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<p>“Il mio obiettivo era invitare gli artisti a aderire a un’idea, non a una rete burocratica; a esercitare un’azione di prossimità politica e poetica con la consapevolezza che <strong>la nostra funzione non possa e non debba esaurirsi sul palcoscenico di un teatro</strong>. Aver creato le USCA – che in uno Stato ideale dovrebbero essere composte da un medico, un infermiere e un artista – significa usare un’unica voce per dimostrare che sappiamo reinventarci in tempo di pandemia e trovare modi trasversali e fuori dai canoni per continuare a fare il nostro mestiere. Ci diciamo che siamo fondamentali, ma <strong>non possiamo aspettare a casa</strong> che ci chiamino per salvare il mondo. <strong>Dobbiamo muoverci</strong>”.</p>



<p><strong>Che cosa resterà di questo movimento dopo la zona rossa?</strong> Le anime delle USCA sono diverse, come è normale che sia. Alcune compagnie e alcuni artisti continueranno anche dopo, altri magari si fermeranno all’apertura dei teatri; ognuno sceglierà una propria strada.</p>



<p>Per il futuro, anche dopo la fase emergenziale, sarà però stato essenziale (ri)attivare il legame con il pubblico, avere la giusta e meritata attenzione nei suoi confronti ed essere, come artisti, <strong>al servizio della collettività</strong>. “Non è importante che io reciti Shakespeare sotto la finestra, ma che io vada innanzitutto sotto la finestra. Non si tratta di un ‘famolo strano’, di un divertimento estemporaneo, ma del mio lavoro”.</p>



<p>Barbonaggio Teatrale, Delivery o meno, per Ippolito Chiarello è soprattutto uno strumento in più per <strong>rimettere in moto la radice del mestiere di attore</strong>, da esercitare tutti i giorni. “I giovani delle accademie mi chiamano e sono entusiasti di questa iniziativa delle USCA, perché intravedono in questa azione l’opportunità di mettere subito in pratica quello che hanno studiato”, prosegue Chiarello.</p>



<p>Non sono mancate le <strong>critiche</strong> – “questo non è teatro” – rispedite al mittente. “Non sto svendendo il mio lavoro”. Le persone pagano per il loro spettacolo, con <strong>regolare ricevuta</strong>. Ci sono poi <strong>donazioni sospese </strong>per famiglie e comunità in difficoltà economiche e <strong>azioni di solidarietà</strong>, come per i ristoratori leccesi il 27 marzo, durante l’ultima giornata del festival <em>USCire A primavera. </em>“Un artista, una storia, qualcuno che ti ascolta. Occorre ripartire da questo affinché il teatro riacquisti la propria centralità”, ribadisce Ippolito Chiarello.</p>



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<h2 id="h-teatro-a-domicilio-umbro-la-collaborazione-con-le-istituzioni">Teatro a domicilio umbro: la collaborazione con le istituzioni</h2>



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<p>Con un bagaglio di esperienze legate al concetto di teatro su strada alle spalle, <strong>Carlo Dalla Costa</strong> ha raccolto l’invito di Ippolito Chiarello dopo che il festival Segni d’Infanzia, durante il quale avrebbe dovuto esibirsi lungo le strade di Mantova, è stato sospeso per le restrizioni anti-COVID. Così l’attore di Assisi ha dato vita all’USCA “<strong>Teatro a domicilio umbro</strong>”, con l’importante collaborazione del Teatro Stabile dell’Umbria, “primo teatro in Italia a sostenere l’iniziativa del Barbonaggio Teatrale Delivery”.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr1.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr1-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-43829" /></a><figcaption>Carlo Dalla Costa durante una delle sue performance.</figcaption></figure></div>



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<p>Da metà novembre Carlo non si è mai fermato. Affiancato dal danzatore <strong>Marco Toccaceli</strong> e dall’attore <strong>Tommaso Gennari</strong>, ha percorso le strade della regione proponendo poesie, letture, monologhi, performance di danza, spettacoli in maschera o improvvisati, declinati secondo “menù” che si rivolgono anche ai bambini (si va dai 5-7 euro a pezzo a pacchetti da 20, 40, 50 o 60 euro).</p>



<p>“<strong>La risposta è stata molto positiva</strong> e il passaparola sta funzionando. Il nostro pubblico è trasversale a <strong>tutte le età</strong>: ci hanno chiamato per festeggiare un ottantesimo compleanno così come l’inaugurazione della casa di una giovane coppia. Pochi gli habitué del teatro, molta la curiosità verso questa forma d’arte e il rapporto che si instaura con l’attore”, racconta Carlo Dalla Costa. “Io faccio il mio lavoro e ricevo molto di più in cambio, una gratitudine che sento quasi di non meritarmi”.</p>



<p>La sinergia tra il Comune di Marsciano e il Teatro Stabile dell’Umbria ha portato nel paese in provincia di Perugia il <strong>teatro a domicilio</strong>; un progetto che ha aperto ulteriori possibilità. “Realtà associative che operano nel sociale sono interessate a collaborare insieme nell’ambito di bandi italiani ed europei”.</p>



<p>Le <strong>istituzioni</strong> possono, quindi, dare un ulteriore slancio all’iniziativa che “<strong>non è teatro di serie B</strong>, ma è a tutti gli effetti una seconda opzione per fare il mio mestiere e raggiungere un nuovo pubblico con una <strong>rete di artisti sul territorio</strong>”, aggiunge l’attore, che lavora anche nel carcere di Perugia. “Purtroppo chi si lamenta oggi della chiusura dei teatri è soprattutto chi ci lavora. <strong>Il pubblico</strong> è sì dispiaciuto, ma <strong>non reputa il teatro un bene prioritario</strong>. Noi operatori dobbiamo chiederci per primi la ragione di questa situazione”.</p>



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<h2 id="h-teatro-interstiziale-l-offerta-su-misura-che-piace-agli-spettatori-in-lockdown">Teatro interstiziale, l’offerta su misura che piace agli spettatori in lockdown</h2>



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<p>È fine ottobre quando il nuovo Dpcm chiude cinema e teatri. Che cosa si può fare adesso?</p>



<p>La compagnia teatrale bolognese <strong>Kepler-452</strong> risponde allo sconforto e alla solitudine di questo periodo storico con <strong><em>Consegne</em></strong> e <strong><em>Coprifuoco</em></strong>: due spettacoli <em>performance site specific</em> sulla piattaforma <strong>Zoom</strong>, il primo dei quali è stato acquistato dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia-Giulia e replicato anche a Udine e Cervignano del Friuli.</p>



<p><strong>Nicola Borghesi</strong>, fondatore di Kepler-452, veste i panni dell’attore-rider, <strong>invia un link allo spettatore</strong> perché possa <strong>seguire dalla piattaforma il suo percorso in bici</strong> e dialogare con lui fino alla <strong>consegna vera e propria sotto casa</strong> (il biglietto costa 18 euro compresa una porzione di tagliatelle per ogni abitante, preparate dallo stesso Borghesi).</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/FotoDavideSpina.jpg"><img width="828" height="612" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/FotoDavideSpina.jpg" alt="" class="wp-image-43832" /></a><figcaption>Nicola Borghesi, fondatore di Kepler-452 (<em>Foto di Davide Spina</em>)</figcaption></figure></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Inserito all’interno della stagione di teatro diffuso “Agorà” diretta da Elena Di Gioia, <em>Coprifuoco</em> è l’evoluzione di <em>Consegne</em>: Nicola Borghesi compie “<strong>spedizioni notturne per città deserte</strong>” (sottotitolo dello spettacolo) mentre dialoga con un altro artista (a Imola con gli attori Enzo Vetrano e Stefano Randisi, a Bologna con il musicista e frontman dello Stato Sociale Lodo Guenzi, a Faenza con la coreografa e danzatrice Francesca Pennini e, sempre a Bologna, con il performer Marco D’Agostin), il tutto fruibile su Zoom da un pubblico più ampio.</p>



<p>“Lo abbiamo chiamato <strong>teatro interstiziale</strong> perché si insinua negli spazi possibili, scardinando dei limiti ma senza nuocere e in sicurezza”, spiega Nicola Borghesi. “La pandemia avrebbe dovuto essere un’occasione per ripensare ai confini di un mestiere che era già in difficoltà prima del COVID-19”.</p>



<p>Oggi le modalità con cui si fa teatro non possono che tenere conto del presente com’è adesso. “<strong>Serve un nuovo modo di pensare</strong>, servono nuove risposte: non necessariamente a livello di uso dello spazio oppure utilizzo di nuove tecnologie, ma di come un artista pensa alla scena e al suo posizionamento all’interno di essa”.</p>



<p>Una lezione da tenere a mente è la <strong>reazione forte del pubblico alla dedica personale</strong>, alla dimensione “fatto apposta per te” rappresentata dal dialogo con l’artista bolognese. “Io credo che il bisogno di quello che fa il teatro ci sia, anche se le persone non lo sanno, non l’hanno ancora scoperto o non se lo ricordano. Raccontare al pubblico di questo loro bisogno – della ricerca di una risposta in un contesto teatrale – è la sfida prossima ventura”.</p>



<p></p>



<p><strong>In copertina Ippolito Chiarello fotografato da Lucia Pagliara</strong></p>


Teatro a domicilio, la cultura non molla

<p>Le <strong>guide turistiche</strong> sono tra le categorie professionali più danneggiate dalla pandemia, penalizzate da poco sostegno economico e dalla difficoltà o impossibilità di svolgere la professione “a distanza”.</p>
<p>Chi vive a Roma non ha potuto fare a meno di notare da ormai un anno il <strong>vuoto</strong> soprattutto nelle cosiddette <strong>zone</strong> “<strong>turistiche</strong>”.&nbsp;Per tanti residenti la Città Eterna è più calma e vivibile; non tutti però sono dello stesso avviso. La pandemia si è vista anche e soprattutto nella Capitale, meta privilegiata a livello mondiale. Secondo l’Istat, nei primi nove mesi del 2020 si è registrato in tutta Italia un <strong>calo della presenza di turisti dall’estero del 68%</strong> rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, arrivando a meno 73% nelle grandi città.</p>
<p>“Noi lavoriamo soprattutto con i gruppi di turisti internazionali che non torneranno tanto presto, di certo non nel 2021. Non vedremo i gruppi di giapponesi, coreani, cinesi, americani, australiani e russi con cui molti di noi lavoravamo. <strong>Dovremo quindi affrontare</strong> <strong>due anni senza lavoro</strong>. Le guide mantenevano le loro famiglie. La situazione per molti è drammatica”.</p>
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<h2 id="h-2020-2021-il-biennio-nero-del-turismo">2020/2021, il biennio nero del turismo</h2>
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<p>A parlare è <strong>Francesca Duimich</strong>, <a href="http://www.federagit.it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">presidente di Federagit-Roma e Lazio</a>, Federazione di Guide e Accompagnatori Turistici, una delle categorie che fa parte della Confesercenti, con sedi e iscritti in quasi tutte le regioni d&#8217;Italia. Le <strong>guide abilitate </strong>in Italia sono <strong>25.000</strong>, così come gli <strong>accompagnatori</strong>, ossia chi si occupa di gestire tutti gli aspetti più pratici e burocratici legati alle attività turistiche.</p>
<p>“I nostri iscritti sono laureati, molti con dei curricula post lauream, dottorati, specializzazioni. Le guide parlano bene una o più lingue straniere. La nostra professionalità è stata acquisita con lunghi anni di studio e di esperienza sul campo”, continua la Duimich.</p>
<p>Il quadro tracciato non è confortante e lo si intuisce subito: “Nel turismo c&#8217;è la bassa stagione, da novembre a febbraio, in cui non si lavora. Gli ultimi lavori seri li abbiamo fatti a ottobre 2019. Nel 2020-2021, nei periodi in cui i musei e siti archeologici sono stati aperti,<strong> un po&#8217; di lavoro per le guide ha ripreso con i residenti, ma forse si tratta dell&#8217;1 % di quello che c&#8217;era fino al 2019. </strong>L’apertura dal lunedì al venerdì non produce lavoro”.</p>
<p></p>
<p>Le assenze di turisti stranieri non sono state minimamente compensate dal turismo “nazionale”, laddove possibile, mettendo in seria difficoltà chi vive di questo lavoro. “Qualche guida sta proponendo <strong>visite virtuali online</strong>, ma non sono un&#8217;alternativa che fa vivere le migliaia di persone che vivevano di questo lavoro. In più non è facile riciclarsi e non è facile per noi accettare l&#8217;idea che la nostra qualificazione professionale, acquisita con molto impegno, ora non sia utilizzabile. Aspettiamo quindi il momento per riprendere a lavorare, quando si potrà ricominciare a viaggiare nel mondo. Solo per conoscere bene il patrimonio culturale di Roma e del Vaticano non basta una vita intera. Nel frattempo cogliamo l&#8217;occasione per migliorare la nostra formazione”, continua.</p>
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<h2 id="h-i-pochi-sostegni-economici-e-l-esigenza-di-nuove-leggi-per-le-guide-turistiche">I pochi sostegni economici e l’esigenza di nuove leggi per le guide turistiche</h2>
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<p>L’impossibilità a svolgere il proprio lavoro non è stata adeguatamente compensata dalle <strong>misure economiche</strong> stanziate dai governi che si sono succeduti:</p>
<p>“<strong>I contributi sono stati distribuiti in maniera molto diseguale</strong>. Con il cambiamento del governo abbiamo visto interrotte le trattative per recuperare gli esclusi. Le guide e gli accompagnatori che lavorano con il regime della prestazione occasionale, che la legge consente,&nbsp;ad esempio non hanno ricevuto neanche un euro. Sono stati confusi con gli stagionali del turismo, ma non rientrano in quella casistica.”</p>
<p>“L&#8217;ultimo <strong>Decreto Sostegno</strong> a noi lavoratori autonomi riconoscerà il <strong>contributo minimo di mille euro</strong>. A coloro che hanno lavorato molto nel 2019 qualcosa in più. Ma dobbiamo sopravvivere per due anni. Nel frattempo&nbsp;abbiamo dovuto pagare le tasse e i contributi INPS. Le guide che versano l&#8217;INPS nella Gestione Commercianti pagano un fisso di circa 4.000 euro l&#8217;anno di contributi INPS, anche se gli introiti sono zero. I bonus ricevuti sono stati restituiti allo Stato. Nella Legge di Bilancio era prevista una restituzione parziale dei contributi INPS. Stiamo aspettando i decreti attuativi, ma <strong>occorre che il periodo contributivo non vada perso</strong>. Il comparto del turismo, da tutti riconosciuto come il più colpito, ha bisogno di sostegni e di essere accompagnato fino alla ripresa”.</p>
<p>Il problema, però, è precedente alla pandemia. Secondo la Duimich è necessario rimettere ordine da un punto di vista legislativo: “La pandemia è arrivata quando la categoria era già provata da&nbsp;<strong>anni di caos legislativo</strong>. Ci auguriamo che il <strong>ministro Garavaglia</strong> impegni urgentemente la sua attenzione all&#8217;approvazione della&nbsp;<strong>legge sulla professione di guida</strong>. Sono stati depositati alcuni disegni di legge in Parlamento. Una cosa importante, poi, è che nel decidere le misure anti-COVID-19&nbsp;si distinguano i musei dai siti archeologici e dai giardini storici. Nei siti all&#8217;aperto il distanziamento è praticabile, l&#8217;aria circola e dovrebbe essere possibile tenerli aperti anche durante il fine settimana”.&nbsp;</p>
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<h2 id="h-archeologi-durante-la-pandemia-come-lavorano">Archeologi durante la pandemia, come lavorano?</h2>
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<p><strong>Massimo Brando </strong>e<strong> Valentina Pica</strong> sono due archeologi liberi professionisti collaboratori, entrambi a partita Iva, di importanti realtà italiane e straniere. Massimo è specialista in ceramica romana e fondatore di una delle più corpose e longeve community a tema archeologico del web (ben 12 anni): il gruppo Facebook “<strong>Ceramica in Archeologia/Pottery in Archaeology</strong>”, di cui Valentina è anche amministratrice.</p>
<p>Sette anni fa hanno deciso di dare vita a un&#8217;attività di divulgazione del patrimonio storico e archeologico di Roma, inizialmente rivolgendosi a gruppi di conoscenti, con un semplice scambio di mail, poi aprendo un sito web e una pagina Facebook con il nome di <a href="https://archeoguide.wordpress.com/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">ArcheoGuide</a>.</p>
<p>“Valentina è guida turistica autorizzata e io la affianco con consulenze, mentre insieme strutturiamo i programmi delle nostre iniziative. Fin da subito abbiamo preso la decisione di rimanere fuori dal circuito turistico più normale e internazionale, la cui offerta a Roma era già ricchissima, per dare un taglio più approfondito e specialistico, volendo di nicchia. Ci rivolgiamo quindi soprattutto a persone residenti a Roma e in lingua italiana, anche&nbsp;se non mancano le richieste di chi viene fuori&nbsp;Roma, a volte anche stranieri”, spiega Massimo.</p>
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<h2 id="h-il-lavoro-prima-e-dopo-il-covid-19-la-fame-di-bellezza-non-si-placa-col-digitale">Il lavoro prima e dopo il COVID-19: la fame di bellezza non si placa col digitale</h2>
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<p>“Prima della pandemia la nostra vita era simili a quella di tutti. Ci si dedicava al lavoro e poi alle attività che fanno bene allo spirito, che sono il motivo per cui si lavora, credo. Questo oggi ci è precluso. Fortunatamente abbiamo potuto lavorare per scrivere qualche contributo scientifico, alcuni dei quali pubblicati e altri in corso di stampa, pur nella pratica impossibilità di accedere alle biblioteche scientifiche.”</p>
<p>“Dal punto di vista dell&#8217;<strong>attività archeologica</strong> i primi&nbsp;mesi della pandemia sono stati davvero drammatici, perché non solo si sono fermati quasi tutti i lavori di cantieri urbani, che sono quelli che ci consentono di avere continuità lavorativa, ma sono saltati tutti i progetti portati avanti con le università straniere. Poi, seppur lentamente, un po&#8217; di lavoro è ripreso”, raccontano Massimo e Valentina.</p>
<p>Le prospettive di breve e medio termine non sono però rosee: “È davvero dura. Di fatto il prolungamento della <strong>zona arancione nel Lazio</strong> fino alla fine di aprile ci <strong>preclude nuovamente la visita a musei e siti archeologici</strong>. Ad esempio salteranno le due visite&nbsp;a posti limitati al Mausoleo di Augusto che avevamo in calendario per aprile e per le quali avevamo avuto adesioni entusiastiche, a dispetto del limitato numero di partecipanti previsti”.</p>
<p>“Il <strong>continuo cambio di colori</strong>, poi, di fatto non permette di fare programmi mensili come eravamo abituati, costringendoci a <strong>programmazioni settimanali</strong>. Negli ultimi mesi&nbsp;chi si è rivolto a noi aveva talmente voglia di fare e di respirare il bello e la cultura che siamo stati costretti più volte a limitare il numero di partecipanti e a lasciare&nbsp;fuori parecchie persone, perché abbiamo sempre dato la precedenza alla sicurezza. Ma io sto parlando della nostra attività, che è nata con la volontà di rimanere piccola, di nicchia e collaterale alla nostra attività professionale. Per le guide che fanno questo come lavoro principale con un pubblico più ampio e diverso dal nostro è un periodo difficilissimo.”</p>
<p>Se molti lavori in presenza hanno tenuto botta attraverso la modalità di svolgimento del lavoro “a distanza”, per il turismo non sempre è fattibile, non solo per ragioni oggettive. Non sempre la condivisione di cultura, storie millenarie e arte può essere altrettanto efficace dallo schermo di un pc: “Ci abbiamo provato, ma chi ci segue per cultura, attitudine e fascia di età vuole il rapporto dal vivo. E noi siamo d&#8217;accordo, cominciamo a essere insofferenti alla retorica del virtuale&#8221;, concludono Massimo e Valentina.</p>

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Chiara Del Priore

39 anni, di cui dieci dedicati ad approfondire i temi della formazione e dell’occupazione, soprattutto giovanile. Giornalista professionista e, come dicono quelli bravi, web content manager. Per il pubblico a casa redattore web impegnato a combattere in prima linea la personale crociata quotidiana anti refuso. Il suo mondo ideale contempla quasi esclusivamente viaggi e buona cucina. Al supermarket degli aggettivi ne sceglierebbe quattro: ironica, determinata, logorroica e caciarona. Un difetto: è della Vergine.

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Come stanno lavorando archeologi e guide nell&#8217;apri e chiudi dettato dall&#8217;emergenza sanitaria? Francesca Duimich, Federagit-Roma e Lazio: &#8220;Dobbiamo sopravvivere due anni senza lavoro&#8221;.

Guide turistiche in pandemia: bassa stagione, bassissima - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/guide.jpeg


<p>“Io nel circo ci sono nata, undicesima di undici figli. Ho scoperto di chiamarmi Anna Paola solo quando ho dovuto fare la carta d’identità. Per tutti sono stata sempre Nina, <strong>Nina Vassallo</strong>”.</p>



<p>Anna Paola, 84 anni, quattro figli, nove nipoti e nove pronipoti, è testimonianza vivente degli occhi sgranati sotto il tendone del circo: “<strong>Circense fino al midollo</strong>”, scandisce.</p>



<p>Se il destino è diviso a metà tra quello che ci capita e quello che scegliamo, allora non poteva essere altrimenti per “Nina”. Circense la sua famiglia, i Vassallo, circense suo marito, diventato un simbolo: <strong>Guido Errani</strong>, scomparso nel 2013. Circense, infine, la carovana che l’ha accolta, quella del genero <strong>Giuseppe D’Amico</strong> del circo Universal.</p>



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<h2 id="h-la-foto-famiglia-e-78-anni-in-viaggio">La foto-famiglia e 78 anni in viaggio</h2>



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<p>La incontriamo a Fabriano, <strong>78 anni dopo</strong> una foto che la ritrae con la sua famiglia proprio nella città della carta. È un caso, o forse destino, che la sua lunga sosta sia avvenuta nello stesso posto dove da bambina, lo sguardo corrucciato, perdeva il padre, prestigiatore, che “aveva portato il circo fino a Sfax, in Tunisia”.</p>



<p>La incontriamo mentre è <strong>in attesa del</strong> <strong>vaccino anti-COVID</strong>, programmato nei prossimi giorni: “Ho deciso di farlo nonostante tutti qui mi abbiano detto di non farlo. Del resto – aggiunge – <strong>nella mia vita ho sempre fatto quello in cui ho creduto</strong>, compreso il fatto di innamorarmi di un uomo separato, Guido, diventando pietra dello scandalo in quei tempi. Alcuni famigliari non mi hanno rivolto la parola per vent&#8217;anni”.</p>



<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-famiglia-Vassallo-scaled.jpg"><img width="1024" height="708" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-famiglia-Vassallo-1024x708.jpg" alt="" class="wp-image-43818" /></a><figcaption>Foto di famiglia Vassallo, Fabriano 1943</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-da-trapezisti-a-rider-pochi-fondi-e-un-settore-in-crisi">Da trapezisti a rider: pochi fondi e un settore in crisi</h2>



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<p>Nel microcosmo del villaggio di roulotte del <strong>circo Universal bloccato causa restrizioni</strong> dall’autunno 2020, con lo chapiteau (tendone) arrotolato sui camion a bordo strada, il tempo è sospeso. <strong>Qualcuno si è reinventato rider </strong>per la consegna delle pizze a domicilio, perché si può restare sospesi in aria per un tempo lunghissimo, ma a terra, sul suolo, due anni di stop dei circhi sono duri da digerire, anche per chi fa spettacolo aggrappato a una corda con i denti.</p>



<p>Certamente la <strong>piccola quota</strong> riservata alle cento imprese circensi all’interno dei già esigui <a href="https://www.migrantesonline.it/2021/03/26/23074/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">fondi statali</a> è un simbolo, più che un sostegno concreto. Nel tempo pre-pandemico si conta che ogni anno andavano in scena circa 15.000 spettacoli, 42 al giorno, l’11% di tutti gli spettacoli teatrali che si svolgono in Italia.</p>



<p>Sul settore, però, pesa anche la <strong>disaffezione </strong>di una parte consistente del pubblico se sono circa <strong>400.000 gli spettatori persi </strong>negli ultimi anni.</p>



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<h2 id="h-lo-stereotipo-arriva-il-circo-e-aumentano-i-furti">Lo stereotipo: “Arriva il circo e aumentano i furti”</h2>



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<p>Nella confusione e nello scoramento, l’idea di Anna Paola ha alcuni punti fermi. Innanzitutto l’<strong>attività circense </strong>pensata e gestita come <strong>un’impresa a conduzione famigliare</strong>, in cui ognuno “trova il suo ruolo” e se non basta “si prendono gli artisti stranieri, da tutto il mondo”.</p>



<p>“In Italia non c’è cultura del circo – dice – nonostante la lunga tradizione. Ancora si va avanti con lo <strong>stereotipo per cui arriva il circo e arrivano gli zingari che rubano nelle case</strong>”.</p>



<p>Quindi l’idea di futuro, secondo la consuetudine di <em>the show must go on</em>, lo spettacolo che deve andare avanti, nonostante tutto: “Abbiamo già avuto altre crisi, ma <strong>questo mestiere andrà avanti anche senza gli animali</strong>. Ci adatteremo, perché chi è nato per fare questo mestiere non lo cambierà”.</p>



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<h2 id="h-la-circense-anna-paola-vassallo-pi-che-il-circo-cambiato-il-pubblico-e-la-sua-percezione">La circense Anna Paola Vassallo: “Più che il circo, è cambiato il pubblico e la sua percezione”</h2>



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<p>Anna Paola accetta di raccontarsi nella casa viaggiante fermata a lungo dal virus. Sfoglia album di foto e di trofei, compresi i più recenti riconoscimenti ai nipoti Maycol e Guido (Oro) ed Elvis (Bronzo) al Festival del Circo di Montecarlo, la rassegna per eccellenza dedicata all’attività circense.</p>



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<p><strong>Che cosa significa essere circense, Anna Paola?</strong></p>



<p>Io ho passato tutta la vita in carovana, ma non mi è mancato un punto fisso, anzi quando con mio marito Guido restavamo troppo a lungo in un posto capivamo che era ora di cambiare, di andare via. Questa è la nostra vita. Ti dirò di più: nel tempo ho conosciuto tante persone, soprattutto donne, non circensi che si sono unite a qualcuno della famiglia. Ebbene sono diventate più circensi di noi, che ci siamo nate qui.</p>



<p><strong>Com’è stata la sua infanzia?</strong></p>



<p>Ho vaghi ricordi. I miei fratelli e i miei cugini, tutti insieme. Poi un mio fratello si è ammalato di tifo ed è morto. Mio padre non l’ha mai superata questa cosa. Se n’è andato sei mesi dopo. È stato un bravo prestigiatore. Io ho portato il vestito nero a lutto per un anno. Avevo sei anni.</p>



<p><strong>Com’è stato l’incontro con suo marito Guido?</strong></p>



<p>Avevo 17 anni e mezzo. Con la mia famiglia eravamo in giro con altri circhi. A un certo punto, a Pesaro, mentre eravamo in giro con la carovana, ho conosciuto Guido. Ci disse: perché non vi appoggiate da noi? È così è andata. Io appena l’ho visto ho pensato: “Quanto è bello”. Da lì abbiamo iniziato a filare, ma lui era un uomo separato, con due figlie. Così abbiamo dovuto fare l’unica cosa possibile, la fuitina. Fu uno scandalo.</p>



<p><strong>Poi la carovana non si è più fermata: con i vari nomi, Folgore, Mexico, Errani, avete portato avanti il circo.</strong></p>



<p><em>Gli occhi di Anna Paola si illuminano.</em></p>



<p>Mio marito era un bravo clown e si occupava di presentare gli spettacoli. Aveva una favella incredibile. Ero gelosa che tutte lo guardassero. Io invece mi occupavo di quanto era necessario. Se c’era da andare sul trapezio andavo. A me piacevano molto le volanti (<em>danza aerea e acrobazie, N.d.R.</em>).</p>



<p><strong>Com’è cambiato il circo?</strong></p>



<p>È cambiato il pubblico e la percezione che c’è. Un tempo ci venivano le famiglie intere. Oggi vedi i bambini fino a una certa età, accompagnati dai nonni, o da un solo genitore. È cambiata anche la percezione tra i personaggi più noti: quando stavamo a Roma venivano a salutarci molti esponenti dello spettacolo, Gassmann, Macario, che prendeva spunto dal circo in molte opere che rappresentava in teatro, Celentano. La stessa Katia Ricciarelli viene dal circo. Ma oggi si ha quasi vergogna a dirlo.</p>



<p><strong>Poi ci sono i riconoscimenti.</strong></p>



<p>I miei nipoti hanno un legame particolare con la famiglia Ranieri a Monaco. Quando gli hanno dato l’oro al Festival, Alberto di Monaco gli ha detto: “Se ci fosse un premio in diamante vi darei quello”.</p>



<p><strong>Il circo che gestiva con suo marito Guido, Mexico, ha girato a lungo, fino in Grecia. Poi avete deciso di chiuderlo.</strong></p>



<p>Abbiamo chiuso il circo perché non si poteva portare avanti uno spettacolo come lo volevamo noi. Noi volevamo sempre gli spettacoloni, ma l’artista costa. In più ci sono gli animali. Quando si vedono i numeri con molte persone al Festival di Montecarlo bisogna sapere che molti sono artisti e atleti esterni, che preparano un numero e poi cambiano circo. Anche qui al circo Universal c’erano diversi artisti stranieri che sono andati via con lo stop per la pandemia. Nel circo però servono tutti.</p>



<p><strong>Come vengono scelte le piazze in cui andare?</strong></p>



<p>Intanto si cerca di capire se in una determinata zona ci sono altri circhi, in modo da non sovrapporci. Poi molto dipende dai comuni, dall’accoglienza che riservano alle zone che ci mettono a disposizione. Molti comuni se ne fregano, anzi non ci vogliono. Infine bisogna capire dove si vuole passare l’inverno. Se voglio un clima più mite mi organizzerò per andare in Sicilia, scendendo dal Tirreno.</p>



<p><strong>Qual è il prossimo obiettivo?</strong></p>



<p>Intanto vaccinarmi, <em>sorride</em>. E poi vorremmo fare una scuola di circo. Del resto, il circo non finirà mai.</p>



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<p><em>Foto di copertina: <a href="https://unsplash.com/@markwilliamspics?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Mark Williams</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/circus?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></em></p>


Se il Covid ferma il circo, i trapezisti fanno i rider

<p>La data non poteva essere più simbolica. Il 27 marzo: <strong>Giornata Mondiale del Teatro</strong>, scandita da <strong>manifestazioni</strong> in tutta Italia dei <strong>lavoratori del teatro</strong> che hanno ribadito lo stato di grave crisi in cui versa il settore, la mancanza di ristori dignitosi e l’assenza di prospettive per il futuro, attendendo la slittata riapertura – prevista inizialmente proprio per il 27 marzo – degli spazi della cultura.</p>
<p>Dal 21 al 27 marzo si è tenuto anche il festival del teatro delivery “<strong>USCire A primavera</strong>”, organizzato dalla compagnia Nasca Teatri di Terra dell’artista pugliese <strong>Ippolito Chiarello</strong>,&nbsp;in collaborazione con la rete di&nbsp;<strong>USCA</strong> (<strong>Unità Speciali di Continuità Artistica</strong>)&nbsp;creata il 4 dicembre dallo stesso Chiarello. Un’occasione per celebrare l’esperienza del <strong>teatro su prenotazione</strong> e <strong>consegnato a domicilio</strong>, realizzata in questi complicati mesi da attori, attrici e compagnie attive in tutta Italia e anche all’estero.</p>
<p><strong>Rider della cultura</strong> che, nei cortili e davanti le case, hanno saziato un pubblico “affamato” di rappresentazioni e letture in un momento di restrizioni e sofferenze.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr2.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="682" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr2-1024x682.jpg" alt="" class="wp-image-43833" /></a><figcaption>Ippolito Chiarello al termine di uno dei suoi spettacoli a domicilio in collaborazione con le <strong>USCA</strong> (<strong>Unità Speciali di Continuità Artistica</strong>) photo@LuciaPagliari</figcaption></figure>
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<h2 id="h-barbonaggio-teatrale-delivery-le-usca-portano-l-arte-a-domicilio">Barbonaggio Teatrale Delivery: le USCA portano l’arte a domicilio</h2>
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<p>Il <strong>Barbonaggio Teatrale Delivery</strong> rappresenta l’estensione della modalità di proposta artistica avviata nel 2009 da Ippolito Chiarello, che propone i suoi <strong>spettacoli</strong>, oltre che in teatro, anche per strada o in luoghi non teatrali, su un palchetto, <strong>vendendoli a pezzi</strong>.</p>
<p>“Da 11 anni sento la necessità di impegnarmi in un’azione parallela più cruda e concreta all’interno di un sistema teatrale poco visionario e senza prospettive, chiuso su se stesso e autoreferenziale. Devo sporcarmi le mani e i piedi per incontrare nuovo pubblico, <strong>stimolare e fidelizzare nuove persone a venire a teatro</strong>”, racconta l’attore salentino, che con il Barbonaggio Teatrale ha toccato oltre 500 città italiane ma anche molte capitali europee, fino al Canada, creando un movimento oggetto di tesi di laurea e film.</p>
<p>“Quando è scoppiata la pandemia, è stato naturale proseguire – zaino in spalla e bicicletta – con la <strong>formula</strong> ‘<strong>delivery’</strong>, in massima sicurezza, lasciandomi suggestionare dai <strong>rider</strong> che erano gli unici a portare alle persone chiuse in casa beni di prima necessità a qualsiasi orario.”</p>
<p>Da qui l’invito di Chiarello a esperienze già esistenti e ai colleghi a unirsi al suo progetto per formare una rete e costituire delle <strong>USCA</strong> – <strong>Unità Speciali di Continuità Artistica</strong> – in tutto il Paese, riprendendo l’acronimo delle omonime Unità sanitarie “che si occupano dell’assistenza domestica dei malati, ma sembrano oggi completamente sparite dalla narrazione del COVID-19”.</p>
<p>Una metafora potente per ribadire la funzione essenziale e concreta dell’arte. “Ho ricevuto almeno 150 contatti e <strong>oggi aderiscono almeno 60 realtà</strong>” in molte città italiane (tra cui Milano, Messina, Palermo, Catania, Potenza, Alessandria, Pisa, Padova, Firenze, Benevento, Assisi, per citarne alcune) e anche all’estero (Francia e Brasile).</p>
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<h2 id="h-noi-attori-non-possiamo-aspettare-a-casa-dobbiamo-muoverci">“Noi attori non possiamo aspettare a casa. Dobbiamo muoverci”</h2>
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<p>“Il mio obiettivo era invitare gli artisti a aderire a un’idea, non a una rete burocratica; a esercitare un’azione di prossimità politica e poetica con la consapevolezza che <strong>la nostra funzione non possa e non debba esaurirsi sul palcoscenico di un teatro</strong>. Aver creato le USCA – che in uno Stato ideale dovrebbero essere composte da un medico, un infermiere e un artista – significa usare un’unica voce per dimostrare che sappiamo reinventarci in tempo di pandemia e trovare modi trasversali e fuori dai canoni per continuare a fare il nostro mestiere. Ci diciamo che siamo fondamentali, ma <strong>non possiamo aspettare a casa</strong> che ci chiamino per salvare il mondo. <strong>Dobbiamo muoverci</strong>”.</p>
<p><strong>Che cosa resterà di questo movimento dopo la zona rossa?</strong> Le anime delle USCA sono diverse, come è normale che sia. Alcune compagnie e alcuni artisti continueranno anche dopo, altri magari si fermeranno all’apertura dei teatri; ognuno sceglierà una propria strada.</p>
<p>Per il futuro, anche dopo la fase emergenziale, sarà però stato essenziale (ri)attivare il legame con il pubblico, avere la giusta e meritata attenzione nei suoi confronti ed essere, come artisti, <strong>al servizio della collettività</strong>. “Non è importante che io reciti Shakespeare sotto la finestra, ma che io vada innanzitutto sotto la finestra. Non si tratta di un ‘famolo strano’, di un divertimento estemporaneo, ma del mio lavoro”.</p>
<p>Barbonaggio Teatrale, Delivery o meno, per Ippolito Chiarello è soprattutto uno strumento in più per <strong>rimettere in moto la radice del mestiere di attore</strong>, da esercitare tutti i giorni. “I giovani delle accademie mi chiamano e sono entusiasti di questa iniziativa delle USCA, perché intravedono in questa azione l’opportunità di mettere subito in pratica quello che hanno studiato”, prosegue Chiarello.</p>
<p>Non sono mancate le <strong>critiche</strong> – “questo non è teatro” – rispedite al mittente. “Non sto svendendo il mio lavoro”. Le persone pagano per il loro spettacolo, con <strong>regolare ricevuta</strong>. Ci sono poi <strong>donazioni sospese </strong>per famiglie e comunità in difficoltà economiche e <strong>azioni di solidarietà</strong>, come per i ristoratori leccesi il 27 marzo, durante l’ultima giornata del festival <em>USCire A primavera. </em>“Un artista, una storia, qualcuno che ti ascolta. Occorre ripartire da questo affinché il teatro riacquisti la propria centralità”, ribadisce Ippolito Chiarello.</p>
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<h2 id="h-teatro-a-domicilio-umbro-la-collaborazione-con-le-istituzioni">Teatro a domicilio umbro: la collaborazione con le istituzioni</h2>
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<p>Con un bagaglio di esperienze legate al concetto di teatro su strada alle spalle, <strong>Carlo Dalla Costa</strong> ha raccolto l’invito di Ippolito Chiarello dopo che il festival Segni d’Infanzia, durante il quale avrebbe dovuto esibirsi lungo le strade di Mantova, è stato sospeso per le restrizioni anti-COVID. Così l’attore di Assisi ha dato vita all’USCA “<strong>Teatro a domicilio umbro</strong>”, con l’importante collaborazione del Teatro Stabile dell’Umbria, “primo teatro in Italia a sostenere l’iniziativa del Barbonaggio Teatrale Delivery”.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr1.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/fr1-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-43829" /></a><figcaption>Carlo Dalla Costa durante una delle sue performance.</figcaption></figure>
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<p>Da metà novembre Carlo non si è mai fermato. Affiancato dal danzatore <strong>Marco Toccaceli</strong> e dall’attore <strong>Tommaso Gennari</strong>, ha percorso le strade della regione proponendo poesie, letture, monologhi, performance di danza, spettacoli in maschera o improvvisati, declinati secondo “menù” che si rivolgono anche ai bambini (si va dai 5-7 euro a pezzo a pacchetti da 20, 40, 50 o 60 euro).</p>
<p>“<strong>La risposta è stata molto positiva</strong> e il passaparola sta funzionando. Il nostro pubblico è trasversale a <strong>tutte le età</strong>: ci hanno chiamato per festeggiare un ottantesimo compleanno così come l’inaugurazione della casa di una giovane coppia. Pochi gli habitué del teatro, molta la curiosità verso questa forma d’arte e il rapporto che si instaura con l’attore”, racconta Carlo Dalla Costa. “Io faccio il mio lavoro e ricevo molto di più in cambio, una gratitudine che sento quasi di non meritarmi”.</p>
<p>La sinergia tra il Comune di Marsciano e il Teatro Stabile dell’Umbria ha portato nel paese in provincia di Perugia il <strong>teatro a domicilio</strong>; un progetto che ha aperto ulteriori possibilità. “Realtà associative che operano nel sociale sono interessate a collaborare insieme nell’ambito di bandi italiani ed europei”.</p>
<p>Le <strong>istituzioni</strong> possono, quindi, dare un ulteriore slancio all’iniziativa che “<strong>non è teatro di serie B</strong>, ma è a tutti gli effetti una seconda opzione per fare il mio mestiere e raggiungere un nuovo pubblico con una <strong>rete di artisti sul territorio</strong>”, aggiunge l’attore, che lavora anche nel carcere di Perugia. “Purtroppo chi si lamenta oggi della chiusura dei teatri è soprattutto chi ci lavora. <strong>Il pubblico</strong> è sì dispiaciuto, ma <strong>non reputa il teatro un bene prioritario</strong>. Noi operatori dobbiamo chiederci per primi la ragione di questa situazione”.</p>
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<h2 id="h-teatro-interstiziale-l-offerta-su-misura-che-piace-agli-spettatori-in-lockdown">Teatro interstiziale, l’offerta su misura che piace agli spettatori in lockdown</h2>
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<p>È fine ottobre quando il nuovo Dpcm chiude cinema e teatri. Che cosa si può fare adesso?</p>
<p>La compagnia teatrale bolognese <strong>Kepler-452</strong> risponde allo sconforto e alla solitudine di questo periodo storico con <strong><em>Consegne</em></strong> e <strong><em>Coprifuoco</em></strong>: due spettacoli <em>performance site specific</em> sulla piattaforma <strong>Zoom</strong>, il primo dei quali è stato acquistato dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia-Giulia e replicato anche a Udine e Cervignano del Friuli.</p>
<p><strong>Nicola Borghesi</strong>, fondatore di Kepler-452, veste i panni dell’attore-rider, <strong>invia un link allo spettatore</strong> perché possa <strong>seguire dalla piattaforma il suo percorso in bici</strong> e dialogare con lui fino alla <strong>consegna vera e propria sotto casa</strong> (il biglietto costa 18 euro compresa una porzione di tagliatelle per ogni abitante, preparate dallo stesso Borghesi).</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/FotoDavideSpina.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="828" height="612" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/FotoDavideSpina.jpg" alt="" class="wp-image-43832" /></a><figcaption>Nicola Borghesi, fondatore di Kepler-452 (<em>Foto di Davide Spina</em>)</figcaption></figure>
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<p>Inserito all’interno della stagione di teatro diffuso “Agorà” diretta da Elena Di Gioia, <em>Coprifuoco</em> è l’evoluzione di <em>Consegne</em>: Nicola Borghesi compie “<strong>spedizioni notturne per città deserte</strong>” (sottotitolo dello spettacolo) mentre dialoga con un altro artista (a Imola con gli attori Enzo Vetrano e Stefano Randisi, a Bologna con il musicista e frontman dello Stato Sociale Lodo Guenzi, a Faenza con la coreografa e danzatrice Francesca Pennini e, sempre a Bologna, con il performer Marco D’Agostin), il tutto fruibile su Zoom da un pubblico più ampio.</p>
<p>“Lo abbiamo chiamato <strong>teatro interstiziale</strong> perché si insinua negli spazi possibili, scardinando dei limiti ma senza nuocere e in sicurezza”, spiega Nicola Borghesi. “La pandemia avrebbe dovuto essere un’occasione per ripensare ai confini di un mestiere che era già in difficoltà prima del COVID-19”.</p>
<p>Oggi le modalità con cui si fa teatro non possono che tenere conto del presente com’è adesso. “<strong>Serve un nuovo modo di pensare</strong>, servono nuove risposte: non necessariamente a livello di uso dello spazio oppure utilizzo di nuove tecnologie, ma di come un artista pensa alla scena e al suo posizionamento all’interno di essa”.</p>
<p>Una lezione da tenere a mente è la <strong>reazione forte del pubblico alla dedica personale</strong>, alla dimensione “fatto apposta per te” rappresentata dal dialogo con l’artista bolognese. “Io credo che il bisogno di quello che fa il teatro ci sia, anche se le persone non lo sanno, non l’hanno ancora scoperto o non se lo ricordano. Raccontare al pubblico di questo loro bisogno – della ricerca di una risposta in un contesto teatrale – è la sfida prossima ventura”.</p>
</p>
<p><strong>In copertina Ippolito Chiarello fotografato da Lucia Pagliara</strong></p>


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Francesca Druidi

Giornalista professionista, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione lavora presso realtà editoriali bolognesi e non, in redazione e come collaboratrice esterna. L’articolo di cui va più orgogliosa è l’intervista ai progettisti del mega grattacielo Burj Khalifa di Dubai, che hanno sfidato il cielo e la natura per imporre nuovi standard architettonici. Appassionata da sempre di serie tv, animazione e cinema &#8211; macchina dei sogni e al contempo specchio del reale &#8211; frequenta quando può festival cinematografici e ne scrive (www.whipart). Libri, viaggi ed enogastronomia sono i suoi viatici per la felicità.

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Prendi il teatro e portalo a casa. In alcune città d&#8217;Italia hanno preso piede esperimenti di &#8220;teatro delivery&#8221;. Vediamo che cosa si tratta e come funzionano questi spettacoli.

Teatro a domicilio, la cultura non molla - Informazione senza filtro

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<p>Un raduno di suoni, colori, profumi, luci, emozioni. Questi ma non solo i principali ingredienti di un “mondo” che si sposta da un luogo all’altro ormeggiando ogni volta la propria atmosfera inconfondibile, conosciuta fin dall’infanzia: parliamo delle <strong>giostre</strong>, alias luna park.</p>



<p>L’ambito al quale ci riferiamo è quello degli <strong>esercenti dello spettacolo viaggiante</strong> (comunemente chiamati “giostrai”, ma è un termine non apprezzato dai referenti perché veicolo di stereotipi), una realtà variegata e che coinvolge un nutrito numero di lavoratori e lavoratrici la cui attività ha una missione ben precisa: far divertire le persone, senza esclusioni di età.</p>



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<h2 id="h-la-testimonianza-di-anesv-manifestiamo-perch-la-politica-tace-o-ci-osteggia">La testimonianza di ANESV: “Manifestiamo perché la politica tace o ci osteggia”</h2>



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<p>Per affrontare in maniera puntuale le problematiche e i punti di forza del settore ci siamo confrontati con l’<strong>Associazione Nazionale Esercenti Spettacoli Viaggianti (ANESV)</strong>, attiva da oltre settant’anni. A risponderci è il presidente <strong>Ferdinando Uga</strong>, entrato in carica a luglio 2020.</p>



<p>“Conosco bene questo mestiere perché ci sono nato e lo vivo come una missione”, racconta con entusiasmo. La mansione di presidente la svolge a titolo volontario e possiamo confermare di persona quanto sia impegnativa. A dimostrarlo le numerose chiamate che riceve, durante la nostra intervista, da parte degli operatori delle imprese del settore.</p>



<p>“Anche il nostro settore sta affrontando un periodo drammatico”, spiega. A questo proposito il 26 marzo scorso ANESV ha organizzato una grande <strong>manifestazione</strong> dal titolo <strong>“Lo spettacolo viaggiante italiano scende nelle piazze”</strong> e che ha avuto luogo in 11 territori italiani da Nord a Sud. “Si è trattato di un evento scenografico dedicato al nostro pubblico. Di appelli alle istituzioni ne sono stati fatti a dozzine, ma la politica non ci ha mai veramente ascoltati”, sottolinea Ferdinando Uga. “I destinatari principali a cui è stata rivolta la nostra dedica sono i <strong>bambini</strong>, i più dimenticati dalla pandemia e che non si vedono in giro: una grande mancanza”.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/giostre.jpg"><img width="1024" height="471" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/giostre-1024x471.jpg" alt="" class="wp-image-43800" /></a><figcaption>Una foto della manifestazione organizzata da ANESV in 11 città italiane. Piazza Duomo, Milano.</figcaption></figure></div>



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<p>La manifestazione è stata anche l’occasione per un assaggio concentrato del mondo dello spettacolo viaggiante, tra fascino e nostalgia: “La nostra attività è tra le <strong>più antiche forme popolari di spettacolo</strong>”, evidenzia. “Nasce con le prime giostre trainate dai cavalli veri fino ad arrivare alle attrazioni dei giorni nostri, sia low cost che ad alta tecnologia. Tanti cambiamenti che però mantengono un filo conduttore un po’ felliniano del tirassegno, dello zucchero filato o della vincita del pupazzo. Insomma, si guarda molto al futuro ma senza dimenticare mai il passato. Possiamo definirci il <strong>contraltare della preoccupazione</strong> e dello stress: oggi più che mai abbiamo bisogno di sorrisi e spensieratezza”.</p>



<p>Una funzione riconosciuta anche a livello normativo dalla legge del 18 marzo 1968, n.337: “Lo Stato riconosce la funzione sociale dei circhi equestri e dello spettacolo viaggiante. Pertanto sostiene il consolidamento e lo sviluppo del settore”.</p>



<p>E a proposito dell’attività lavorativa dello spettacolo viaggiante, c’è una competenza che non deve mai mancare, avverte Uga: “Se non hai un minimo di <strong>capacità organizzativa</strong> in questo ambito non vai da nessuna parte, anche perché occorre essere abituati ad affrontare gli <strong>imprevisti</strong> dati dagli eventi atmosferici, dal politico leghista locale che ti contrasta, dalla stessa azione di <strong>decentramento</strong> dei luna park nel periodo a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. Poi le amministrazioni comunali hanno capito di aver sbagliato”. E sottolinea: “Dalla gente invece ci siamo sempre sentiti ben accolti, come fossimo loro concittadini: le persone ci sostengono molto”.</p>



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<h2>Giostre in pandemia: “Bloccati da più di un anno, l’estate 2020 un’occasione persa”</h2>



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<p>Guardando al territorio nazionale, il settore dello spettacolo viaggiante è composto da circa<strong> 6.200 imprese </strong>(i dati ci sono forniti da ANESV secondo rilevazioni effettuate dalle Camere di Commercio).</p>



<p>“Teniamo presente che ogni licenza ha alla guida una <strong>conduzione di tipo famigliare</strong>”, specifica Ferdinando Uga. “Si tratta di un’attività tramandata dai genitori ai figli, e non è solo un lavoro, ma una vera e propria <strong>scelta di vita</strong>. Il tour di lavoro di un’impresa di questo tipo tocca circa <strong>20-25 tappe</strong> e dura da gennaio a dicembre, in pratica tutto l’anno”.</p>



<p>Una dinamica che permea diversi tasselli del quotidiano e che richiede allo stesso tempo una grande <strong>capacità di adattamento</strong> fin dall’infanzia: “Si vive in <strong>moduli abitativi</strong> che si muovono di città in città mentre i bambini e i ragazzi <strong>cambiano scuola di volta e in volta</strong>. Se promossi rivedono a ogni tappa gli stessi compagni e insegnanti dell’anno precedente, se bocciati è a maggior ragione un colpo e un ulteriore cambiamento molto forte”.</p>



<p>A imporre la più grande sfida al settore ci ha pensato la pandemia da Coronavirus, che ha infierito molto duramente sui lavoratori dello spettacolo viaggiante. Chiediamo se si possa quantificare il <strong>danno economico subito fino ad oggi</strong>.</p>



<p>“È <strong>molto elevato</strong> perché il nostro lavoro è completamente bloccato da fine febbraio 2020”, chiosa il presidente di ANESV. “La delusione più grande l’abbiamo però avuta la scorsa estate, quando abbiamo avuto modo di lavorare soltanto in qualche comune, questo nonostante le curve di contagio fossero molto basse e avessimo messo a punto tutte le <strong>precauzioni</strong> previste”.</p>



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<h2>“Abbiamo consultato esperti e ministero, investito per riaprire in sicurezza, e siamo stati bloccati dai sindaci”</h2>



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<p>Oltre al danno per il settore è scattata infatti un’<strong>amara beffa</strong>, come ci viene illustrato: “Dopo esserci confrontati con esperti scientifici e aver realizzato una lunga trattativa con conferenze di Stato e regioni, ci siamo subito attivati, investendo parecchio tempo e molti soldi, per adottare tutti gli strumenti precauzionali previsti dal Ministero della Salute. Nonostante ciò, arrivato il momento di aprire, quindi a luglio 2020, <strong>i sindaci di vari comuni si sono messi di traverso</strong> e hanno annullato tutto il programma con una facilità disarmante: come mangiare caramelle, quasi non si rendessero conto del danno enorme causato a numerose imprese e famiglie. <strong>Il nostro sacrificio è stato inascoltato</strong>”.</p>



<p>Per capire meglio l’investimento effettuato chiediamo qualche esempio: “Abbiamo firmato il <strong>protocollo sicurezza </strong>e speso quattrini per acquistare i totem automatici per provare la temperatura, i semafori per contingentare gli ingressi, i paletti con bandelle per segnare le distanze, i detergenti approvati dal Ministero della Salute per disinfettare le attrazioni e poi quelli per il pubblico, eccetera”. A pesare è una grande <strong>contraddizione </strong>di fondo: “Premetto che ci rendiamo perfettamente conto della situazione creata dalla pandemia, noi stessi abbiamo perso parenti e amici, ma ribadisco che proprio perché gestiamo questo lavoro a livello famigliare diamo molta importanza all’aspetto della prevenzione e della sicurezza”.</p>



<p>“I <strong>paradossi </strong>sono vari. Primo: siamo più sicuri noi di altri contesti, essendo all’aperto. Secondo: sarebbe meglio lasciar frequentare ai giovani uno spazio presidiato e con regole da rispettare come quello dei luna park, dove c’è un monitoraggio meticoloso da parte degli esercenti stessi, piuttosto che lasciarli al fai dai te, con ritrovi in casa e senza possibilità di divertimento sicuro. Perché a tutto questo non si è pensato?”</p>



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<h2>I ristori insufficienti e l’ombra dell’usura</h2>



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<p>Trascorsa l’estate il settore si è trovato con un nuovo pugno di sabbia in mano: “A fine ottobre 2020 la situazione a livello dei contagi è peggiorata e in seguito sono saltate le piazze più importanti come Genova, Mantova, Varese, Como, eccetera”.</p>



<p>Parliamo anche di<strong> ristori</strong>, altro tasto dolente: “Il nostro ministero di riferimento è quello delle Attività culturali, che ha stanziato circa <strong>970 euro a famiglia</strong> per 6.000 imprenditori; alle partite Iva sono arrivati 600 euro per due volte. Capiamo che tutto ciò non serve a molto e che la <strong>situazione è drammatica</strong>”.</p>



<p>La preoccupazione s’inasprisce ancora di più se pensiamo alla dinamica della conduzione familiare dove la disoccupazione artiglia un intero nucleo portando a situazioni di <strong>indigenza repentina</strong>. In pratica non c’è un’altra occupazione che possa tamponare la situazione.</p>



<p>“Abbiamo famiglie in grave stato di disagio: c’è chi sta lavorando come svuota-cantine per portare qualcosa a casa”. A gravare l’ombra degli <strong>usura</strong>i: “Abbiamo avuto approcci da parte di ‘organizzazioni’ molto vicine all’approccio usuraio, c’è chi tenta di strumentalizzare la nostra situazione”, commenta con rammarico Ferdinando Uga.</p>



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<h2>“Rischiamo sia la fine per noi e per chi fabbrica le giostre”</h2>



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<p>La sabbia nella clessidra scorre veloce e per un settore come quello dello spettacolo viaggiante il tempo è non solo denaro, ma proprio possibilità di rialzarsi. Ferdinando Uga ribadisce senza mezzi termini un punto focale della questione.</p>



<p>“<strong>Noi non siamo come un centro commerciale</strong>, che spegne le luci e dopo una fase di chiusura riapre, riaccendendole e facendo le pulizie. Se vogliamo ripartire dobbiamo organizzarci fin da ora! Chi opera in quest’ambito ha a che fare con macchinari tecnologici che richiedono fasi complesse: occorre collaudare le attrazioni, rimontarle, verificare che tutto funzioni e che gli impianti siano sicuri. Una mole di lavoro enorme da concretizzare prima che lo spettacolo stesso venga allestito”.</p>



<p>Riflettiamo anche sul fatto che il danno subito da questo settore scatena un <strong>effetto domino</strong> non meno serio su un altro: quello di <strong>chi fabbrica le giostre</strong>. “Le giostre prodotte nel nostro Paese vengono esportate in tutto il mondo: lo Stato non si rende conto che sono il fiore all’occhiello del design italiano. Vengono costruite a mano da artigiani localizzati nel polo della giostra a Bergantino, in provincia di Rovigo e nell’Emilia. Il blocco riguarda quindi anche tutta questa filiera che coinvolge<strong> centinaia di aziende</strong>: rischiamo di fermare un mondo di lavoratori e di indotto”.</p>



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<h2>Quanto costa gestire una giostra e gli alti e bassi con i comuni</h2>



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<p>Il tema s’intreccia di nuovo al discorso di una ripartenza che possa garantire la sostenibilità e la tenuta dell’impresa. Parliamo infatti dei <strong>costi di gestione di un’attrazione</strong>. “Ognuna ha dei costi fissi di manutenzione, di lubrificazione e di pulizia”, spiega Ferdinando Uga. Chiediamo il costo per farci un’idea: “Circa <strong>150 euro al giorno</strong>, a cui dobbiamo aggiungere la <strong>tassa di occupazione del suolo</strong> pubblico e il <strong>costo dell’energia elettrica</strong>, che si eleva nel caso di giostre adrenaliniche”.</p>



<p>Essenziale resta il <strong>rapporto con il territorio</strong>: “La gente ci ha sempre accolto con molto calore”, ribadisce Uga. “Anche diverse amministrazioni comunali hanno compreso la nostra situazione, e quando siamo stati sui loro territori durante la pandemia ci hanno fatto pagare solo il minimo sindacale di tassa del suolo pubblico, comportandosi virtuosamente. Abbiamo avuto invece problemi con <strong>Novara</strong>, che per 25 moduli abitativi aveva chiesto 112.780 euro tramite agenzia di riscossione dei canoni. Alla fine è stata trovata una soluzione intervenendo come associazione”.</p>



<p>Lo spettacolo viaggiante inoltre porta valore aggiunto al territorio: “Sì, anche a livello di indotto economico se pensiamo che i lavoratori di queste imprese fanno acquisti nella zona in cui fanno sosta. Non dimentichiamo poi il discorso di attrazione turistica e la funzione di socializzazione, al primo posto”.</p>



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<p><em>Photo by <a href="https://unsplash.com/@eepeng?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Eepeng Cheong</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/luna-park?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Uns</a><a href="https://unsplash.com/s/photos/luna-park?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">p</a><a href="https://unsplash.com/s/photos/luna-park?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener">lash</a></em></p>


Chiudendo le giostre si ferma anche il design italiano

<p>“Io nel circo ci sono nata, undicesima di undici figli. Ho scoperto di chiamarmi Anna Paola solo quando ho dovuto fare la carta d’identità. Per tutti sono stata sempre Nina, <strong>Nina Vassallo</strong>”.</p>
<p>Anna Paola, 84 anni, quattro figli, nove nipoti e nove pronipoti, è testimonianza vivente degli occhi sgranati sotto il tendone del circo: “<strong>Circense fino al midollo</strong>”, scandisce.</p>
<p>Se il destino è diviso a metà tra quello che ci capita e quello che scegliamo, allora non poteva essere altrimenti per “Nina”. Circense la sua famiglia, i Vassallo, circense suo marito, diventato un simbolo: <strong>Guido Errani</strong>, scomparso nel 2013. Circense, infine, la carovana che l’ha accolta, quella del genero <strong>Giuseppe D’Amico</strong> del circo Universal.</p>
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<h2 id="h-la-foto-famiglia-e-78-anni-in-viaggio">La foto-famiglia e 78 anni in viaggio</h2>
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<p>La incontriamo a Fabriano, <strong>78 anni dopo</strong> una foto che la ritrae con la sua famiglia proprio nella città della carta. È un caso, o forse destino, che la sua lunga sosta sia avvenuta nello stesso posto dove da bambina, lo sguardo corrucciato, perdeva il padre, prestigiatore, che “aveva portato il circo fino a Sfax, in Tunisia”.</p>
<p>La incontriamo mentre è <strong>in attesa del</strong> <strong>vaccino anti-COVID</strong>, programmato nei prossimi giorni: “Ho deciso di farlo nonostante tutti qui mi abbiano detto di non farlo. Del resto – aggiunge – <strong>nella mia vita ho sempre fatto quello in cui ho creduto</strong>, compreso il fatto di innamorarmi di un uomo separato, Guido, diventando pietra dello scandalo in quei tempi. Alcuni famigliari non mi hanno rivolto la parola per vent&#8217;anni”.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-famiglia-Vassallo-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="708" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-famiglia-Vassallo-1024x708.jpg" alt="" class="wp-image-43818" /></a><figcaption>Foto di famiglia Vassallo, Fabriano 1943</figcaption></figure>
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<h2 id="h-da-trapezisti-a-rider-pochi-fondi-e-un-settore-in-crisi">Da trapezisti a rider: pochi fondi e un settore in crisi</h2>
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<p>Nel microcosmo del villaggio di roulotte del <strong>circo Universal bloccato causa restrizioni</strong> dall’autunno 2020, con lo chapiteau (tendone) arrotolato sui camion a bordo strada, il tempo è sospeso. <strong>Qualcuno si è reinventato rider </strong>per la consegna delle pizze a domicilio, perché si può restare sospesi in aria per un tempo lunghissimo, ma a terra, sul suolo, due anni di stop dei circhi sono duri da digerire, anche per chi fa spettacolo aggrappato a una corda con i denti.</p>
<p>Certamente la <strong>piccola quota</strong> riservata alle cento imprese circensi all’interno dei già esigui <a href="https://www.migrantesonline.it/2021/03/26/23074/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">fondi statali</a> è un simbolo, più che un sostegno concreto. Nel tempo pre-pandemico si conta che ogni anno andavano in scena circa 15.000 spettacoli, 42 al giorno, l’11% di tutti gli spettacoli teatrali che si svolgono in Italia.</p>
<p>Sul settore, però, pesa anche la <strong>disaffezione </strong>di una parte consistente del pubblico se sono circa <strong>400.000 gli spettatori persi </strong>negli ultimi anni.</p>
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<h2 id="h-lo-stereotipo-arriva-il-circo-e-aumentano-i-furti">Lo stereotipo: “Arriva il circo e aumentano i furti”</h2>
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<p>Nella confusione e nello scoramento, l’idea di Anna Paola ha alcuni punti fermi. Innanzitutto l’<strong>attività circense </strong>pensata e gestita come <strong>un’impresa a conduzione famigliare</strong>, in cui ognuno “trova il suo ruolo” e se non basta “si prendono gli artisti stranieri, da tutto il mondo”.</p>
<p>“In Italia non c’è cultura del circo – dice – nonostante la lunga tradizione. Ancora si va avanti con lo <strong>stereotipo per cui arriva il circo e arrivano gli zingari che rubano nelle case</strong>”.</p>
<p>Quindi l’idea di futuro, secondo la consuetudine di <em>the show must go on</em>, lo spettacolo che deve andare avanti, nonostante tutto: “Abbiamo già avuto altre crisi, ma <strong>questo mestiere andrà avanti anche senza gli animali</strong>. Ci adatteremo, perché chi è nato per fare questo mestiere non lo cambierà”.</p>
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<h2 id="h-la-circense-anna-paola-vassallo-pi-che-il-circo-cambiato-il-pubblico-e-la-sua-percezione">La circense Anna Paola Vassallo: “Più che il circo, è cambiato il pubblico e la sua percezione”</h2>
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<p>Anna Paola accetta di raccontarsi nella casa viaggiante fermata a lungo dal virus. Sfoglia album di foto e di trofei, compresi i più recenti riconoscimenti ai nipoti Maycol e Guido (Oro) ed Elvis (Bronzo) al Festival del Circo di Montecarlo, la rassegna per eccellenza dedicata all’attività circense.</p>
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<p><strong>Che cosa significa essere circense, Anna Paola?</strong></p>
<p>Io ho passato tutta la vita in carovana, ma non mi è mancato un punto fisso, anzi quando con mio marito Guido restavamo troppo a lungo in un posto capivamo che era ora di cambiare, di andare via. Questa è la nostra vita. Ti dirò di più: nel tempo ho conosciuto tante persone, soprattutto donne, non circensi che si sono unite a qualcuno della famiglia. Ebbene sono diventate più circensi di noi, che ci siamo nate qui.</p>
<p><strong>Com’è stata la sua infanzia?</strong></p>
<p>Ho vaghi ricordi. I miei fratelli e i miei cugini, tutti insieme. Poi un mio fratello si è ammalato di tifo ed è morto. Mio padre non l’ha mai superata questa cosa. Se n’è andato sei mesi dopo. È stato un bravo prestigiatore. Io ho portato il vestito nero a lutto per un anno. Avevo sei anni.</p>
<p><strong>Com’è stato l’incontro con suo marito Guido?</strong></p>
<p>Avevo 17 anni e mezzo. Con la mia famiglia eravamo in giro con altri circhi. A un certo punto, a Pesaro, mentre eravamo in giro con la carovana, ho conosciuto Guido. Ci disse: perché non vi appoggiate da noi? È così è andata. Io appena l’ho visto ho pensato: “Quanto è bello”. Da lì abbiamo iniziato a filare, ma lui era un uomo separato, con due figlie. Così abbiamo dovuto fare l’unica cosa possibile, la fuitina. Fu uno scandalo.</p>
<p><strong>Poi la carovana non si è più fermata: con i vari nomi, Folgore, Mexico, Errani, avete portato avanti il circo.</strong></p>
<p><em>Gli occhi di Anna Paola si illuminano.</em></p>
<p>Mio marito era un bravo clown e si occupava di presentare gli spettacoli. Aveva una favella incredibile. Ero gelosa che tutte lo guardassero. Io invece mi occupavo di quanto era necessario. Se c’era da andare sul trapezio andavo. A me piacevano molto le volanti (<em>danza aerea e acrobazie, N.d.R.</em>).</p>
<p><strong>Com’è cambiato il circo?</strong></p>
<p>È cambiato il pubblico e la percezione che c’è. Un tempo ci venivano le famiglie intere. Oggi vedi i bambini fino a una certa età, accompagnati dai nonni, o da un solo genitore. È cambiata anche la percezione tra i personaggi più noti: quando stavamo a Roma venivano a salutarci molti esponenti dello spettacolo, Gassmann, Macario, che prendeva spunto dal circo in molte opere che rappresentava in teatro, Celentano. La stessa Katia Ricciarelli viene dal circo. Ma oggi si ha quasi vergogna a dirlo.</p>
<p><strong>Poi ci sono i riconoscimenti.</strong></p>
<p>I miei nipoti hanno un legame particolare con la famiglia Ranieri a Monaco. Quando gli hanno dato l’oro al Festival, Alberto di Monaco gli ha detto: “Se ci fosse un premio in diamante vi darei quello”.</p>
<p><strong>Il circo che gestiva con suo marito Guido, Mexico, ha girato a lungo, fino in Grecia. Poi avete deciso di chiuderlo.</strong></p>
<p>Abbiamo chiuso il circo perché non si poteva portare avanti uno spettacolo come lo volevamo noi. Noi volevamo sempre gli spettacoloni, ma l’artista costa. In più ci sono gli animali. Quando si vedono i numeri con molte persone al Festival di Montecarlo bisogna sapere che molti sono artisti e atleti esterni, che preparano un numero e poi cambiano circo. Anche qui al circo Universal c’erano diversi artisti stranieri che sono andati via con lo stop per la pandemia. Nel circo però servono tutti.</p>
<p><strong>Come vengono scelte le piazze in cui andare?</strong></p>
<p>Intanto si cerca di capire se in una determinata zona ci sono altri circhi, in modo da non sovrapporci. Poi molto dipende dai comuni, dall’accoglienza che riservano alle zone che ci mettono a disposizione. Molti comuni se ne fregano, anzi non ci vogliono. Infine bisogna capire dove si vuole passare l’inverno. Se voglio un clima più mite mi organizzerò per andare in Sicilia, scendendo dal Tirreno.</p>
<p><strong>Qual è il prossimo obiettivo?</strong></p>
<p>Intanto vaccinarmi, <em>sorride</em>. E poi vorremmo fare una scuola di circo. Del resto, il circo non finirà mai.</p>
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<p><em>Foto di copertina: <a href="https://unsplash.com/@markwilliamspics?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Mark Williams</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/circus?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></em></p>


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Lucio Cristino

Giornalista professionista, video reporter. Ha scritto per giornali, radio-tv e web, tra Italia, Spagna e Stati Uniti. Prima Il Messaggero, poi El Diario de Sevilla, quindi E’ tv- Rete 7, dove ha realizzato anche servizi per Mediaset e La7. Da freelance ha realizzato un reportage in Iraq al confine delle zone controllate dall’Isis. Dopo una laurea in Scienze della Comunicazione e un Master in Risorse turistiche e marketing del territorio, si è occupato anche di enogastronomia collaborando con Carlo Cambi a &#8220;Il Gambero Rozzo&#8221;, Newton Compton editore. Musicomane, scrive canzoni, canta, tormenta il basso. Con la sua band, Secret Sight, ha girato per l&#8217;Europa con live shows in Inghilterra, Francia, Belgio, Austria, Germania, Repubblica Ceca. Ha vagato musicalmente anche per l&#8217;Italia, isole comprese.

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Come ha impattato la pandemia sul mondo circense? Lo chiediamo ad Anna Paola &#8220;Nina&#8221; Vassallo, 84 anni e una vita sotto il tendone.

Se il Covid ferma il circo, i trapezisti fanno i rider - Informazione senza filtro

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<p>“Continuiamo a soffrire di <strong>mancati controlli nelle piazze</strong>, sia per l’occupazione abusiva di spazi che per la concorrenza sleale di venditori stranieri, cui si aggiunge la poca attenzione dei ristori nei confronti di tutta la filiera.”</p>



<p><strong>Ilario Sattin</strong>, presidente della sezione veneta della Federazione Italiana dei Venditori Ambulanti di Confcommercio-Ascom, torna a indicare il grande tallone d’Achille dei <strong>mercati veneti</strong>, in particolare delle piazze padovane, dove lui stesso è coprotagonista e dove il timone del settore resta saldamente nelle mani degli autoctoni, contrariamente alla tendenza nazionale. Lo stesso Sattin, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/i-mercati-di-piazza-non-mollano-stranieri-croce-e-delizia/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">intervistato da <em>SenzaFiltro</em> nel 2018</a>, aveva sostenuto che “il mercato&nbsp;resiste soprattutto nei paesi, perché è rimasto l’unico luogo&nbsp;all’aperto e pubblico,&nbsp;dedicato alla socialità”.</p>



<p>Quella forma di socialità fatta di aggregazione, soprattutto fisica, tra le fila dei banchi. Proprio quell’antico rito dello “struscio” casereccio, che oggi bisogna evitare per arginare i contagi. Provvedimento che tanto sta costando al settore anche in Veneto, dove lo scorso primo aprile gli <strong>ambulanti</strong> inferociti si sono <strong>raccolti in protesta a Marghera</strong>, tra slogan ed eloquenti corde da impiccato attorcigliate intorno al collo.</p>



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<h2 id="h-ambulanti-in-veneto-i-ristori-non-bastano">Ambulanti in Veneto, i ristori non bastano</h2>



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<p>Circa <strong>9.600 i banchi</strong> con ogni tipologia di merce esposta e che si snodano nelle piazze del Veneto a giorni alterni, tra mercati rionali, di paese, fiere e sagre. Un giro d’affari bloccato giocoforza dalla <strong>pandemia</strong>, che ha imposto la sospensione completa dei mercati durante il primo lockdown, e che deve continuamente adeguarsi agli <strong>aggiornamenti delle</strong> <strong>disposizioni ministeriali</strong>.</p>



<p>Nel periodo della <strong>zona rossa</strong> gli unici esercizi cui è permesso lavorare sono quelli del <strong>settore alimentare</strong>, i banchi di <strong>biancheria intima</strong> e di <strong>calzature</strong>, ma esclusivamente da <strong>bambini</strong>. Tutto il resto viene considerato bene non essenziale, e quindi rinunciabile. Il distanziamento sociale viene rispettato facilmente anche grazie ai clienti, che ormai hanno interiorizzato il comportamento da tenere davanti ai banchi, cui si accede singolarmente ormai d’istinto.</p>



<p>“I <strong>ristori</strong> – dice il presidente della FIVA Sattin – ci sono arrivati in due stralci da seicento e da mille euro, lo scorso anno, e abbiamo potuto scalare le tasse comunali per l’occupazione del suolo pubblico in proporzione ai mesi in cui non abbiamo lavorato. Ma abbiamo <strong>perso gli incassi di Pasqua</strong>, la scorsa e quest’ultima, e dello scorso <strong>Natale</strong>, che hanno un peso importante per noi ambulanti. Inoltre <strong>è tutta la filiera che soffre</strong>, e di questo non si tiene conto; perché nel momento in cui non posso vendere io che ho il banco di abbigliamento, per fare un esempio, è chiaro che non lavorano più neanche il mio rivenditore all’ingrosso e la fabbrica che quei capi li realizza”.</p>



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<h2 id="h-piazze-senza-controlli-e-mercati-alla-merc-degli-abusivi">Piazze senza controlli e mercati alla mercé degli abusivi</h2>



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<p>Permane dunque un certo <strong>doppiopesismo nella gestione del commercio ambulante</strong>. Perché alle riaperture a singhiozzo va sommato uno storico punto nevralgico per il settore, cioè la <strong>mancanza di controlli sul corretto svolgimento delle piazze</strong>.</p>



<p>“Padova conferma la controtendenza rispetto al resto d’Italia – continua Sattin – con il 75% circa di ambulanti locali, ma rimangono intatti anche i punti deboli presenti pre-pandemia. Sono molti gli <strong>ambulanti stranieri</strong> che con la bancarella occupano più dei quaranta metri previsti, arrivando a cinquanta-sessanta, e che soprattutto alterano il mercato con prodotti messi in vendita a uno o due euro. Credo che cifre così si possano tenere solo con prodotti di seconda mano, ma in questo caso abbiamo l’obbligo di esporre il cartello ‘merce usata’, cosa che non accade. Di tanto in tanto si vedono cartelli con scritto a penna ‘fondi di magazzino’, ma sono avvisi molto provvisori e decisamente poco chiari”.</p>



<p>Eppure i numeri della polizia locale di Padova mostrano che dei 121 verbali emessi nel 2019 per occupazione abusiva di suolo pubblico, solo tre erano riconducibili a venditori ambulanti. Nel 2020 solo un verbale su 80. Quest’anno, su diciassette verbali emessi, non figura alcun venditore interessato. “Come già ho spiegato anche in passato – ribadisce Sattin – <strong>se non ci sono vigili in organico</strong> per appurare il corretto svolgimento dei mercati, <strong>non ci sono neanche le multe</strong>”.</p>



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<h2 id="h-i-mercati-di-piazza-a-venezia">I mercati di piazza a Venezia</h2>



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<p>E contro l’abusivismo, crisi da alluvione prima e pandemia poi, hanno potuto agire dove hanno fallito i controlli delle autorità, in una città universalmente definita unica: <strong>Venezia</strong>. Preclusa al turismo estero, lo splendore della città lagunare (che lo scorso 25 marzo ha compiuto 1.600 anni) è beneficio dei soli italiani, in particolare dei veneti obbligati ai confini regionali in base al colore sancito dal tasso di rischio contagi.</p>



<p>Hanno approfittato di questa inedita Venezia una coppia di coniugi padovani, Carlo e Alba, “turisti per caso” qualche settimana fa tra i ponti del Canal Grande. “<strong>Non l’avevamo mai vista così</strong>”, dicono, “con una piazza San Marco praticamente deserta, ancora più maestosa nel suo silenzio. Ci hanno colpito i ristoratori che dalla porta del loro locale ti invitano a entrare specificando che non si paga né il servizio né il coperto, e i gondolieri, che ora lavorano solo con i veneti, ai quali dicono di applicare una tariffa agevolata. È stato impressionante nell’insieme, anche se resta sempre una città bellissima. <strong>Dei soliti venditori ambulanti</strong>, però, delle bancarelle di souvenir, <strong>neanche l’ombra</strong>”.</p>



<p>Ci restituisce una fotografia numerica della situazione il presidente di Confcommercio-Ascom di Venezia, <strong>Roberto Magliocco</strong>.</p>



<p>“A fronte di ricavi nell’ordine di 40-50.000 euro per i primi dieci mesi del 2019 – spiega – noi ambulanti siamo arrivati ai 5.000 euro del 2020. <strong>Una caduta verticale</strong>, perché Venezia vive per il 90% di turismo, attualmente azzerato, e quindi <strong>oggi gli ambulanti sono sulla soglia della povertà</strong>.”</p>



<p>“Gli <strong>abusivi</strong> qui sono scomparsi semplicemente perché non c’è più mercato, ma il fenomeno c’è, e costituisce anche per Venezia un grosso problema non risolto. Usano spazi per i quali non pagano e non rispettano neanche il codice merceologico. Sono venditori provenienti prevalentemente dal Bangladesh; danno sempre indirizzi fittizi, per cui anche quando vengono multati per le loro infrazioni non pagano, perché tanto non sono reperibili e quindi neanche rintracciabili dall’Ufficio Riscossione crediti dell’Ufficio Entrate. Dopo un paio d’anni al massimo spariscono e fanno subentrare un parente, che a sua volta diventerà invisibile.”</p>



<p>“Proprio per questo come Ascom abbiamo proposto di <strong>rilasciare l’autorizzazione all’occupazione del suolo pubblico solo su fideiussione</strong>, e il comune sta valutando la cosa, anche perché si rende conto che il fenomeno aumenta il degrado della città, toccando da vicino non solo gli ambulanti, ma anche i negozianti”.</p>



<p>Il tracollo economico del settore a Venezia, strettamente legato alla spiccatissima vocazione turistica della città, non poteva che travolgere tutti gli ambulanti. “I <strong>mercati di piazza</strong> sono indirizzati all’80-90% ai residenti”, dice ancora Magliocco. “<strong>A Venezia</strong> però non è così. Solo il 20% è riservato agli abitanti, il rimanente si fonda sul turismo degli <strong>stranieri</strong>”.</p>



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<h2 id="h-effetto-pandemia-venezia-rimpiange-i-problemi-di-un-tempo">Effetto pandemia: Venezia rimpiange i problemi di un tempo</h2>



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<p>Una lezione molto dura, quella impartita dalla pandemia alla città lagunare. Celebre per la sua bellezza, fragile e incantevole, ma anche per le sue contraddizioni socio-ambientali, con le invettive dei veneziani contro le vituperate invasioni di stranieri e le paratie del Mose che solo di recente sono riuscite a far scudo all’acqua alta.Ed è datata 31 marzo 2021 l’approvazione del decreto-legge che stabilisce <strong>debba avvenire</strong> “<strong>fuori dalla laguna</strong>” <strong>l’approdo definitivo delle grandi navi</strong> (come chiesto dall’Unesco).Sempreverdi invece le <strong>dure critiche ai commercianti</strong>, spesso un po’ troppo inclini a imporre prezzi a cinque stelle tanto ai turisti quanto ai pochi abitanti della città lagunare rimasti, costretti all’esodo dall’esoso costo della vita.</p>



<p>Il tempo delle polemiche oggi sembra lontano un’era geologica. <strong>Ora tutti hanno nostalgia di tutto</strong>. Anche della calca asfissiante sui ponti gremiti. Anche dei vaporetti sempre troppo radi e affollati per chi si avventurava a lavorare a Venezia.</p>



<p>Magliocco conclude così, con un’amara autocritica e un auspicio: “Avremmo dovuto conservare da parte più risorse per i momenti difficili quando le cose andavano bene”, afferma. “Lo dico tanto a chi governa quanto a livello individuale, mi metto davanti io per primo. La situazione però oggi vede qui da noi <strong>5.000 aziende in bilico</strong>. Venezia è una città troppo particolare che sta risentendo enormemente degli effetti della pandemia, ed è necessario che regione e governo se ne rendano conto. <strong>I ristori arrivati finora, qui, non bastano neanche per pagare le bollette della luce</strong>. Spero in un’azione più mirata, che tenga conto della nostra specificità”.</p>


Veneto, ambulanti in crisi. E Venezia rimpiange i vecchi problemi

<p>Un raduno di suoni, colori, profumi, luci, emozioni. Questi ma non solo i principali ingredienti di un “mondo” che si sposta da un luogo all’altro ormeggiando ogni volta la propria atmosfera inconfondibile, conosciuta fin dall’infanzia: parliamo delle <strong>giostre</strong>, alias luna park.</p>
<p>L’ambito al quale ci riferiamo è quello degli <strong>esercenti dello spettacolo viaggiante</strong> (comunemente chiamati “giostrai”, ma è un termine non apprezzato dai referenti perché veicolo di stereotipi), una realtà variegata e che coinvolge un nutrito numero di lavoratori e lavoratrici la cui attività ha una missione ben precisa: far divertire le persone, senza esclusioni di età.</p>
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<h2 id="h-la-testimonianza-di-anesv-manifestiamo-perch-la-politica-tace-o-ci-osteggia">La testimonianza di ANESV: “Manifestiamo perché la politica tace o ci osteggia”</h2>
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<p>Per affrontare in maniera puntuale le problematiche e i punti di forza del settore ci siamo confrontati con l’<strong>Associazione Nazionale Esercenti Spettacoli Viaggianti (ANESV)</strong>, attiva da oltre settant’anni. A risponderci è il presidente <strong>Ferdinando Uga</strong>, entrato in carica a luglio 2020.</p>
<p>“Conosco bene questo mestiere perché ci sono nato e lo vivo come una missione”, racconta con entusiasmo. La mansione di presidente la svolge a titolo volontario e possiamo confermare di persona quanto sia impegnativa. A dimostrarlo le numerose chiamate che riceve, durante la nostra intervista, da parte degli operatori delle imprese del settore.</p>
<p>“Anche il nostro settore sta affrontando un periodo drammatico”, spiega. A questo proposito il 26 marzo scorso ANESV ha organizzato una grande <strong>manifestazione</strong> dal titolo <strong>“Lo spettacolo viaggiante italiano scende nelle piazze”</strong> e che ha avuto luogo in 11 territori italiani da Nord a Sud. “Si è trattato di un evento scenografico dedicato al nostro pubblico. Di appelli alle istituzioni ne sono stati fatti a dozzine, ma la politica non ci ha mai veramente ascoltati”, sottolinea Ferdinando Uga. “I destinatari principali a cui è stata rivolta la nostra dedica sono i <strong>bambini</strong>, i più dimenticati dalla pandemia e che non si vedono in giro: una grande mancanza”.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/giostre.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="471" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/giostre-1024x471.jpg" alt="" class="wp-image-43800" /></a><figcaption>Una foto della manifestazione organizzata da ANESV in 11 città italiane. Piazza Duomo, Milano.</figcaption></figure>
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<p>La manifestazione è stata anche l’occasione per un assaggio concentrato del mondo dello spettacolo viaggiante, tra fascino e nostalgia: “La nostra attività è tra le <strong>più antiche forme popolari di spettacolo</strong>”, evidenzia. “Nasce con le prime giostre trainate dai cavalli veri fino ad arrivare alle attrazioni dei giorni nostri, sia low cost che ad alta tecnologia. Tanti cambiamenti che però mantengono un filo conduttore un po’ felliniano del tirassegno, dello zucchero filato o della vincita del pupazzo. Insomma, si guarda molto al futuro ma senza dimenticare mai il passato. Possiamo definirci il <strong>contraltare della preoccupazione</strong> e dello stress: oggi più che mai abbiamo bisogno di sorrisi e spensieratezza”.</p>
<p>Una funzione riconosciuta anche a livello normativo dalla legge del 18 marzo 1968, n.337: “Lo Stato riconosce la funzione sociale dei circhi equestri e dello spettacolo viaggiante. Pertanto sostiene il consolidamento e lo sviluppo del settore”.</p>
<p>E a proposito dell’attività lavorativa dello spettacolo viaggiante, c’è una competenza che non deve mai mancare, avverte Uga: “Se non hai un minimo di <strong>capacità organizzativa</strong> in questo ambito non vai da nessuna parte, anche perché occorre essere abituati ad affrontare gli <strong>imprevisti</strong> dati dagli eventi atmosferici, dal politico leghista locale che ti contrasta, dalla stessa azione di <strong>decentramento</strong> dei luna park nel periodo a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. Poi le amministrazioni comunali hanno capito di aver sbagliato”. E sottolinea: “Dalla gente invece ci siamo sempre sentiti ben accolti, come fossimo loro concittadini: le persone ci sostengono molto”.</p>
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<h2>Giostre in pandemia: “Bloccati da più di un anno, l’estate 2020 un’occasione persa”</h2>
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<p>Guardando al territorio nazionale, il settore dello spettacolo viaggiante è composto da circa<strong> 6.200 imprese </strong>(i dati ci sono forniti da ANESV secondo rilevazioni effettuate dalle Camere di Commercio).</p>
<p>“Teniamo presente che ogni licenza ha alla guida una <strong>conduzione di tipo famigliare</strong>”, specifica Ferdinando Uga. “Si tratta di un’attività tramandata dai genitori ai figli, e non è solo un lavoro, ma una vera e propria <strong>scelta di vita</strong>. Il tour di lavoro di un’impresa di questo tipo tocca circa <strong>20-25 tappe</strong> e dura da gennaio a dicembre, in pratica tutto l’anno”.</p>
<p>Una dinamica che permea diversi tasselli del quotidiano e che richiede allo stesso tempo una grande <strong>capacità di adattamento</strong> fin dall’infanzia: “Si vive in <strong>moduli abitativi</strong> che si muovono di città in città mentre i bambini e i ragazzi <strong>cambiano scuola di volta e in volta</strong>. Se promossi rivedono a ogni tappa gli stessi compagni e insegnanti dell’anno precedente, se bocciati è a maggior ragione un colpo e un ulteriore cambiamento molto forte”.</p>
<p>A imporre la più grande sfida al settore ci ha pensato la pandemia da Coronavirus, che ha infierito molto duramente sui lavoratori dello spettacolo viaggiante. Chiediamo se si possa quantificare il <strong>danno economico subito fino ad oggi</strong>.</p>
<p>“È <strong>molto elevato</strong> perché il nostro lavoro è completamente bloccato da fine febbraio 2020”, chiosa il presidente di ANESV. “La delusione più grande l’abbiamo però avuta la scorsa estate, quando abbiamo avuto modo di lavorare soltanto in qualche comune, questo nonostante le curve di contagio fossero molto basse e avessimo messo a punto tutte le <strong>precauzioni</strong> previste”.</p>
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<h2>“Abbiamo consultato esperti e ministero, investito per riaprire in sicurezza, e siamo stati bloccati dai sindaci”</h2>
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<p>Oltre al danno per il settore è scattata infatti un’<strong>amara beffa</strong>, come ci viene illustrato: “Dopo esserci confrontati con esperti scientifici e aver realizzato una lunga trattativa con conferenze di Stato e regioni, ci siamo subito attivati, investendo parecchio tempo e molti soldi, per adottare tutti gli strumenti precauzionali previsti dal Ministero della Salute. Nonostante ciò, arrivato il momento di aprire, quindi a luglio 2020, <strong>i sindaci di vari comuni si sono messi di traverso</strong> e hanno annullato tutto il programma con una facilità disarmante: come mangiare caramelle, quasi non si rendessero conto del danno enorme causato a numerose imprese e famiglie. <strong>Il nostro sacrificio è stato inascoltato</strong>”.</p>
<p>Per capire meglio l’investimento effettuato chiediamo qualche esempio: “Abbiamo firmato il <strong>protocollo sicurezza </strong>e speso quattrini per acquistare i totem automatici per provare la temperatura, i semafori per contingentare gli ingressi, i paletti con bandelle per segnare le distanze, i detergenti approvati dal Ministero della Salute per disinfettare le attrazioni e poi quelli per il pubblico, eccetera”. A pesare è una grande <strong>contraddizione </strong>di fondo: “Premetto che ci rendiamo perfettamente conto della situazione creata dalla pandemia, noi stessi abbiamo perso parenti e amici, ma ribadisco che proprio perché gestiamo questo lavoro a livello famigliare diamo molta importanza all’aspetto della prevenzione e della sicurezza”.</p>
<p>“I <strong>paradossi </strong>sono vari. Primo: siamo più sicuri noi di altri contesti, essendo all’aperto. Secondo: sarebbe meglio lasciar frequentare ai giovani uno spazio presidiato e con regole da rispettare come quello dei luna park, dove c’è un monitoraggio meticoloso da parte degli esercenti stessi, piuttosto che lasciarli al fai dai te, con ritrovi in casa e senza possibilità di divertimento sicuro. Perché a tutto questo non si è pensato?”</p>
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<h2>I ristori insufficienti e l’ombra dell’usura</h2>
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<p>Trascorsa l’estate il settore si è trovato con un nuovo pugno di sabbia in mano: “A fine ottobre 2020 la situazione a livello dei contagi è peggiorata e in seguito sono saltate le piazze più importanti come Genova, Mantova, Varese, Como, eccetera”.</p>
<p>Parliamo anche di<strong> ristori</strong>, altro tasto dolente: “Il nostro ministero di riferimento è quello delle Attività culturali, che ha stanziato circa <strong>970 euro a famiglia</strong> per 6.000 imprenditori; alle partite Iva sono arrivati 600 euro per due volte. Capiamo che tutto ciò non serve a molto e che la <strong>situazione è drammatica</strong>”.</p>
<p>La preoccupazione s’inasprisce ancora di più se pensiamo alla dinamica della conduzione familiare dove la disoccupazione artiglia un intero nucleo portando a situazioni di <strong>indigenza repentina</strong>. In pratica non c’è un’altra occupazione che possa tamponare la situazione.</p>
<p>“Abbiamo famiglie in grave stato di disagio: c’è chi sta lavorando come svuota-cantine per portare qualcosa a casa”. A gravare l’ombra degli <strong>usura</strong>i: “Abbiamo avuto approcci da parte di ‘organizzazioni’ molto vicine all’approccio usuraio, c’è chi tenta di strumentalizzare la nostra situazione”, commenta con rammarico Ferdinando Uga.</p>
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<h2>“Rischiamo sia la fine per noi e per chi fabbrica le giostre”</h2>
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<p>La sabbia nella clessidra scorre veloce e per un settore come quello dello spettacolo viaggiante il tempo è non solo denaro, ma proprio possibilità di rialzarsi. Ferdinando Uga ribadisce senza mezzi termini un punto focale della questione.</p>
<p>“<strong>Noi non siamo come un centro commerciale</strong>, che spegne le luci e dopo una fase di chiusura riapre, riaccendendole e facendo le pulizie. Se vogliamo ripartire dobbiamo organizzarci fin da ora! Chi opera in quest’ambito ha a che fare con macchinari tecnologici che richiedono fasi complesse: occorre collaudare le attrazioni, rimontarle, verificare che tutto funzioni e che gli impianti siano sicuri. Una mole di lavoro enorme da concretizzare prima che lo spettacolo stesso venga allestito”.</p>
<p>Riflettiamo anche sul fatto che il danno subito da questo settore scatena un <strong>effetto domino</strong> non meno serio su un altro: quello di <strong>chi fabbrica le giostre</strong>. “Le giostre prodotte nel nostro Paese vengono esportate in tutto il mondo: lo Stato non si rende conto che sono il fiore all’occhiello del design italiano. Vengono costruite a mano da artigiani localizzati nel polo della giostra a Bergantino, in provincia di Rovigo e nell’Emilia. Il blocco riguarda quindi anche tutta questa filiera che coinvolge<strong> centinaia di aziende</strong>: rischiamo di fermare un mondo di lavoratori e di indotto”.</p>
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<h2>Quanto costa gestire una giostra e gli alti e bassi con i comuni</h2>
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<p>Il tema s’intreccia di nuovo al discorso di una ripartenza che possa garantire la sostenibilità e la tenuta dell’impresa. Parliamo infatti dei <strong>costi di gestione di un’attrazione</strong>. “Ognuna ha dei costi fissi di manutenzione, di lubrificazione e di pulizia”, spiega Ferdinando Uga. Chiediamo il costo per farci un’idea: “Circa <strong>150 euro al giorno</strong>, a cui dobbiamo aggiungere la <strong>tassa di occupazione del suolo</strong> pubblico e il <strong>costo dell’energia elettrica</strong>, che si eleva nel caso di giostre adrenaliniche”.</p>
<p>Essenziale resta il <strong>rapporto con il territorio</strong>: “La gente ci ha sempre accolto con molto calore”, ribadisce Uga. “Anche diverse amministrazioni comunali hanno compreso la nostra situazione, e quando siamo stati sui loro territori durante la pandemia ci hanno fatto pagare solo il minimo sindacale di tassa del suolo pubblico, comportandosi virtuosamente. Abbiamo avuto invece problemi con <strong>Novara</strong>, che per 25 moduli abitativi aveva chiesto 112.780 euro tramite agenzia di riscossione dei canoni. Alla fine è stata trovata una soluzione intervenendo come associazione”.</p>
<p>Lo spettacolo viaggiante inoltre porta valore aggiunto al territorio: “Sì, anche a livello di indotto economico se pensiamo che i lavoratori di queste imprese fanno acquisti nella zona in cui fanno sosta. Non dimentichiamo poi il discorso di attrazione turistica e la funzione di socializzazione, al primo posto”.</p>
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<p><em>Photo by <a href="https://unsplash.com/@eepeng?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Eepeng Cheong</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/luna-park?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Uns</a><a href="https://unsplash.com/s/photos/luna-park?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">p</a><a href="https://unsplash.com/s/photos/luna-park?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener">lash</a></em></p>


Lo chiamano spettacolo viaggiante, ma è fermo da più di un anno. Ferdinando Uga, presidente ANESV: &#8220;Nonostante gli investimenti per riaprire in sicurezza abbiamo perso l&#8217;estate 2020 per colpa dei sindaci. Dallo Stato 970 euro a famiglia, la situazione è drammatica&#8221;.

Chiudendo le giostre si ferma anche il design italiano - Informazione senza filtro

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<p>Si dice spesso che leggere – ma anche scrivere – un libro sia come intraprendere un viaggio, ed è vero. Se però ci addentriamo nel dietro le quinte di chi lavora per permettere al libro di essere pubblicato, distribuito e venduto scopriamo che a essere in viaggio sono anche gli editori stessi, e in senso letterale più che mai.</p>



<p>Sfatiamo così il luogo comune che identifica il ruolo dell’editore con una mansione “ferma” alla scrivania. In realtà si tratta di un lavoro fortemente itinerante. Con <em>SenzaFiltro</em> concentriamo l’attenzione su un ambito prezioso e quanto mai necessario per l’editoria, soprattutto quella definita micro e piccola: parliamo delle<strong> fiere</strong>.</p>



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<h2 id="h-dario-bellini-gilgamesh-edizioni-le-fiere-per-noi-piccoli-editori-sono-essenziali">Dario Bellini, Gilgamesh Edizioni: “Le fiere per noi piccoli editori sono essenziali”</h2>



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<p>Iniziamo il nostro viaggio nell’ambito fieristico interpellando chi lo vive in veste di editore. Raggiungiamo telefonicamente <strong>Dario Bellini</strong>, titolare della <strong>Gilgamesh Edizioni</strong>, casa editrice del territorio mantovano che pubblica saggi, libri di narrativa e di poesia. Un’avventura, la sua, che compie dieci anni vissuti con grande impegno, soddisfazioni e in maniera fortemente itinerante.</p>



<p>“Per noi editori la <strong>parte itinerante</strong> è importantissima”, esordisce. “Coinvolge tutta la <strong>promozione offline</strong> attraverso eventi in librerie, biblioteche, micro-rassegne e fiere. Le <strong>bancarelle</strong> stesse sono uno degli importanti canali di <strong>vendita diretta</strong>”. E a proposito delle fiere afferma: “<strong>Per noi piccoli editori sono e restano essenziali</strong>”.</p>



<p>Chiediamo: quanto incide questa parte itinerante sui traguardi promozionali e di vendita di una piccola casa editrice? “Sinceramente posso dire che <strong>per un piccolo editore</strong> questa parte è vitale, e mi spingo a dire che copre anche il <strong>70-80% del fatturato</strong>. Dai dati emerge che durante il lockdown la gente ha letto di più: vero, ma puntando soprattutto ai grandi nomi delle major editoriali. Noi piccoli editori dobbiamo invece conquistarci i piazzamenti sul campo e per questo abbiamo bisogno di un <strong>rapporto diretto</strong> con il pubblico attraverso presentazioni dal vivo e partecipando alle fiere”.</p>



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<h2 id="h-le-fiere-pi-accoglienti-delle-librerie-alcuni-librai-fanno-il-gioco-delle-major">Le fiere più accoglienti delle librerie: “Alcuni librai fanno il gioco delle major”</h2>



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<p>Nel 2020 gli eventi fieristici hanno subito uno stop determinando una sofferenza molto forte nel segmento della piccola e micro-editoria, come ci conferma Bellini: “<strong>La pandemia ha dato il colpo finale a tante piccole case editrici</strong> che erano già in difficoltà e credo purtroppo che diverse chiuderanno, soprattutto se ubicate in provincia o in piccole città. Sopravvive di più chi fa anche da tipografo o chi si reinventa”.</p>



<p>In questa fase tante <strong>presentazioni di libri</strong> sono state fatte online tramite <strong>dirette Facebook</strong> e non solo: per un piccolo editore ha un risvolto questa modalità? “Non regge assolutamente il confronto con le presentazioni fatte dal vivo, dove avviene uno sbocco di vendita: nel nostro caso è difficile che da una presentazione online scaturisca un acquisto da parte del pubblico. Poi ci sono anche differenze magari dovute al target: chi appartiene al mondo analogico ha una modalità più interpersonale, i più giovani invece seguono maggiormente i blogger e i loro consigli”.</p>



<p>Sondiamo infine alcune <strong>penombre</strong> dell’ambito itinerante di questo lavoro in epoca pre-Coronavirus. “Da parte delle fiere ho sempre trovato molta <strong>accoglienza</strong> e importanti risvolti di vendita”, racconta schiettamente Bellini. “Il rapporto con i <strong>librai</strong> invece è meno semplice: non tutti sono disposti a realizzare presentazioni nelle loro librerie e magari fanno il <strong>gioco dei “potenti”</strong>. Anche il libraio che si definisce indipendente non è detto che sia automaticamente schierato dalla parte dei piccoli editori; posso capire la loro preoccupazione per il discorso economico. A maggior ragione l’editore deve diventare promotore di se stesso e dei suoi autori facendo presentazioni ed eventi con diverse tappe”.</p>



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<h2 id="h-fabio-del-giudice-pi-libri-pi-liberi-per-sopravvivere-i-piccoli-editori-devono-fare-ricerca">Fabio Del Giudice, “Più libri più liberi”: “Per sopravvivere i piccoli editori devono fare ricerca”</h2>



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<p>È la prima fiera italiana dedicata in maniera esclusiva all’<strong>editoria indipendente</strong>, piccola e media, coinvolgendo ogni anno circa cinquecento editori. Parliamo della fiera nazionale “<strong>Più libri più liberi” </strong>che si tiene a Roma nel mese di dicembre; l’unica tappa saltata è stata quella del 2020 causa pandemia.</p>



<p>Contattiamo <strong>Fabio Del Giudice</strong>, direttore della fiera dal 2002, anno in cui è nata, e che da gennaio di quest’anno ricopre anche il ruolo di direttore dell’<strong>Associazione Italiana Editori (AIE)</strong>. Proprio in AIE il <strong>Gruppo Piccoli Editori</strong> ebbe l’idea di far nascere la fiera, che nel tempo ha raccolto grandi riconoscimenti e sempre più pubblico.</p>



<p>Del Giudice fa una premessa che traccia i lineamenti dell’editoria di cui stiamo parlando: “Per <strong>piccola editoria</strong> intendiamo aziende con un fatturato che va da 0 a 10 milioni di euro annui; per <strong>microeditoria</strong> invece quel segmento che va da 0 a 2 milioni di fatturato. In Italia continua a essere importante il <strong>pluralismo editoriale</strong>, con una parte di forte fatturato intercettata dalla piccola e media editoria”.</p>



<p>A proposito della metafora dell’essere in movimento, la piccola editoria ha questo come valore aggiunto? “Non vado per assoluti, ma posso dire che la piccola editoria è più votata alla <strong>sperimentazione</strong> e allo<strong> scouting</strong>; questo non significa che i grandi editori non lo facciano, ma i costi di gestione di una piccola casa editrice sono minori e ciò consente di sperimentare su titoli che hanno magari in prima uscita tirature più basse. I piccoli editori per sopravvivere devono fare <strong>ricerca</strong>”.</p>



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<h2 id="h-le-fiere-sono-un-occasione-di-confronto-tra-editori-e-pubblico">“Le fiere sono un’occasione di confronto tra editori e pubblico”</h2>



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<p>Proseguiamo chiedendo se le <strong>fiere</strong> si confermano come un servizio essenziale per l’editoria: “Da un punto di vista prettamente commerciale e di marketing sono di <strong>vitale importanza</strong> per la microeditoria”, spiega. “Se la fiera funziona, cosa che non si può dire di tutte, permette ai piccoli e ai microeditori di avere un saldo attivo dal punto di vista economico. Nella nostra fiera, ad esempio, si vendono sempre molti libri, e ciò consente agli editori che espongono di avere un riscontro positivo rispetto al loro investimento”.</p>



<p>Non manca un altro tassello fondamentale: “Le manifestazioni fieristiche sono un’occasione importante di <strong>incontro</strong> e <strong>confronto diretto</strong> tra editore e pubblico senza la mediazione dei distributori. Diventano inoltre l’opportunità per l’editore di <strong>cogliere suggerimenti</strong> dai lettori e capire quanto siano effettivamente apprezzate o meno le proprie scelte editoriali”.</p>



<p>La fiera si conferma così una voce fondamentale nel bilancio complessivo di una piccola casa editrice. La <strong>pandemia</strong> ha evidenziato questo aspetto: “<strong>È stato uno tsunami</strong>, la totale sospensione delle manifestazioni ha provocato un danno soprattutto alle piccolissime case editrici”.</p>



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<h2 id="h-una-palestra-per-gli-editori-come-le-fiere-aiutano-i-piccoli-a-sopravvivere">“Una palestra per gli editori”: come le fiere aiutano i piccoli a sopravvivere</h2>



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<p>Dal 2002 – anno di nascita di “Più libri più liberi” – al 2021 sono passati quasi vent’anni: è cambiato il modo di fruire delle fiere da parte degli editori?</p>



<p>“<strong>I cambiamenti sono stati tanti</strong>. Noi stessi come fiera abbiamo raggiunto l’obiettivo di avere un respiro nazionale restando al contempo focalizzati sulla piccola editoria: raro all’estero trovare progettualità di questo tipo. Gli editori invece <strong>hanno imparato a stare in fiera</strong>, per loro ha rappresentato una palestra. Hanno capito quali siano i libri da portare e anche quali autori presentare. Abbiamo la sensazione che abbiano migliorato anche la veste grafica dei loro libri, e questo sempre grazie al riscontro da parte del pubblico. La fiera è sempre più un’occasione importante di confronto per la comunità del libro. Noi abbiamo sin da subito lavorato affinché tutti gli editori si sentissero protagonisti senza differenze”.</p>



<p>Il confronto diventa così veicolo per concretizzare risultati importanti: “In fiera i lettori scoprono libri che in libreria avrebbero difficilmente trovato, e dopo l’incontro magari si <strong>fidelizzano </strong>alla casa editrice. Gli editori possono attivare progettualità con altri colleghi”.</p>



<p>In qualità di direttore di AIE ha un nodo al fazzoletto da sciogliere rispetto al lavoro che si sta facendo con la piccola editoria, qualcosa che vorrebbe fosse sviluppato? “Spesso nella piccola editoria la passione prevale sulle logiche economiche, ma non bisogna dimenticare che parliamo di imprese per le quali sono necessari due aspetti. Da un lato che si lavori sulla <strong>formazione</strong>, indispensabile per gli editori per affrontare un mercato sempre più competitivo; dall’altro che si concretizzino <strong>progetti collettivi</strong>. Per realtà piccole determinate iniziative si possono realizzare solo se si uniscono le forze: la nostra fiera è un esempio lampante con un’idea fantastica partita da piccoli editori e tramutata in realtà”.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-Fiera-Roma-Libri-Liberi.jpg"><img width="1024" height="682" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-Fiera-Roma-Libri-Liberi-1024x682.jpg" alt="" class="wp-image-43804" /></a><figcaption>Roma, Fiera &#8220;Più Libri Più liberi&#8221;.</figcaption></figure>



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<h2>Daniela Mena, fiera della Microeditoria di Chiari: “Vetrine strategiche anche per chi punta sul digitale”</h2>



<p>Ha compiuto 18 anni, il primo vagito l’ha dato in presenza di Alda Merini, è definita la più grande manifestazione fieristica dei libri in Lombardia. È un curriculum fatto di tanti traguardi quello della fiera della <strong>Microeditoria di Chiari</strong>, sul territorio bresciano, eletta <strong>prima Capitale del Libro 2020</strong> con riconoscimento alla microeditoria e alla produzione degli editori indipendenti.</p>



<p>L’organizzazione è a cura dell’associazione l’<strong>Impronta</strong>, in collaborazione con il <strong>Comune di Chiari</strong>. Proprio nel 2020 la fiera ha dovuto saltare l’attesissimo appuntamento di novembre, che verrà recuperato il 26 e il 27 giugno. “Avremo gazebi all’aperto per garantire la sicurezza al 100%”, sottolinea <strong>Daniela Mena</strong>, direttrice artistica della fiera, appassionata di contaminazioni culturali e ideatrice del nome stesso.</p>



<p>Dal suo osservatorio ci illustra l’impatto che la fiera ha sui piccoli editori: “Rappresenta una <strong>vetrina strategica</strong> dal punto di vista della <strong>vendita</strong>, soprattutto per chi non riesce a reggere una distribuzione capillare; la dimostrazione è data dagli editori stessi, che ritornano l’edizione successiva. Inoltre è per loro un’occasione importante di fare <strong>talent scouting</strong> incontrando direttamente gli autori. Diversi di questi hanno trovato il proprio editore così”.</p>



<p>C’è un target di riferimento che ha colto rispetto alla vostra fiera? “Quando siamo partiti la maggior parte del pubblico proveniva dal Milano; poi negli anni è cresciuto in maniera significativa quello locale di Chiari, Brescia e Bergamo. Inoltre abbiamo coinvolto sempre più le <strong>scuole </strong>con convenzioni e stage, aumentando così la partecipazione del <strong>pubblico giovane</strong>”.</p>



<p>Riguardo ai cambiamenti intercettati in questi quasi 19 anni di attività, rivela: “L’altro aspetto importante è lo sviluppo del <strong>lavoro di rete</strong> con altre associazioni per noi ricco di soddisfazioni. Di solito infatti le fiere sono gestite da aziende o cooperative; nel nostro caso è guidata da un’associazione e la sinergia resta essenziale”. E aggiunge: “Nel tempo c’è stata una forte diffusione degli <strong>e-book</strong>, ed è interessante constatare come anche i piccoli editori che puntano la quasi totalità del loro catalogo sul <strong>digitale</strong> trovino riscontri fondamentali nelle fiere”.</p>



<p>Lampanti i <strong>riflessi positivi sul territorio</strong>: “La fiera porta vivacità e maggior indotto economico agli esercizi commerciali, perché chi vi partecipa mangia, pernotta e fa acquisti. È stata inoltre per noi l’occasione per mettere in luce la bellezza del centro medievale di Chiari, abbiamo fatto sinergia anche con le realtà museali locali”.</p>



<p>L’online nel 2020 l’ha fatta da padrone. <strong>Parlare di fiera online non è un ossimoro</strong>? “Concordo, <strong>la fiera ha senso solo se è in presenza</strong>, compreso il discorso vendite: se dal vivo vendi dieci libri, in online forse arrivi a uno. Lo scorso autunno abbiamo organizzato un semplice programma di incontri online giusto per mantenere continuità di rapporto con il pubblico e abbiamo dovuto convincere gli editori, che alla fine sono stati contenti: in due giorni abbiamo avuto diecimila visualizzazioni. È stato un modo per non cedere allo sconforto in attesa che finalmente si ritornasse alla presenza per respirare libri e incontri dal vivo”.</p>


Fiere editoriali ferme, piccole case editrici muoiono

<p>“Continuiamo a soffrire di <strong>mancati controlli nelle piazze</strong>, sia per l’occupazione abusiva di spazi che per la concorrenza sleale di venditori stranieri, cui si aggiunge la poca attenzione dei ristori nei confronti di tutta la filiera.”</p>
<p><strong>Ilario Sattin</strong>, presidente della sezione veneta della Federazione Italiana dei Venditori Ambulanti di Confcommercio-Ascom, torna a indicare il grande tallone d’Achille dei <strong>mercati veneti</strong>, in particolare delle piazze padovane, dove lui stesso è coprotagonista e dove il timone del settore resta saldamente nelle mani degli autoctoni, contrariamente alla tendenza nazionale. Lo stesso Sattin, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/i-mercati-di-piazza-non-mollano-stranieri-croce-e-delizia/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">intervistato da <em>SenzaFiltro</em> nel 2018</a>, aveva sostenuto che “il mercato&nbsp;resiste soprattutto nei paesi, perché è rimasto l’unico luogo&nbsp;all’aperto e pubblico,&nbsp;dedicato alla socialità”.</p>
<p>Quella forma di socialità fatta di aggregazione, soprattutto fisica, tra le fila dei banchi. Proprio quell’antico rito dello “struscio” casereccio, che oggi bisogna evitare per arginare i contagi. Provvedimento che tanto sta costando al settore anche in Veneto, dove lo scorso primo aprile gli <strong>ambulanti</strong> inferociti si sono <strong>raccolti in protesta a Marghera</strong>, tra slogan ed eloquenti corde da impiccato attorcigliate intorno al collo.</p>
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<h2 id="h-ambulanti-in-veneto-i-ristori-non-bastano">Ambulanti in Veneto, i ristori non bastano</h2>
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<p>Circa <strong>9.600 i banchi</strong> con ogni tipologia di merce esposta e che si snodano nelle piazze del Veneto a giorni alterni, tra mercati rionali, di paese, fiere e sagre. Un giro d’affari bloccato giocoforza dalla <strong>pandemia</strong>, che ha imposto la sospensione completa dei mercati durante il primo lockdown, e che deve continuamente adeguarsi agli <strong>aggiornamenti delle</strong> <strong>disposizioni ministeriali</strong>.</p>
<p>Nel periodo della <strong>zona rossa</strong> gli unici esercizi cui è permesso lavorare sono quelli del <strong>settore alimentare</strong>, i banchi di <strong>biancheria intima</strong> e di <strong>calzature</strong>, ma esclusivamente da <strong>bambini</strong>. Tutto il resto viene considerato bene non essenziale, e quindi rinunciabile. Il distanziamento sociale viene rispettato facilmente anche grazie ai clienti, che ormai hanno interiorizzato il comportamento da tenere davanti ai banchi, cui si accede singolarmente ormai d’istinto.</p>
<p>“I <strong>ristori</strong> – dice il presidente della FIVA Sattin – ci sono arrivati in due stralci da seicento e da mille euro, lo scorso anno, e abbiamo potuto scalare le tasse comunali per l’occupazione del suolo pubblico in proporzione ai mesi in cui non abbiamo lavorato. Ma abbiamo <strong>perso gli incassi di Pasqua</strong>, la scorsa e quest’ultima, e dello scorso <strong>Natale</strong>, che hanno un peso importante per noi ambulanti. Inoltre <strong>è tutta la filiera che soffre</strong>, e di questo non si tiene conto; perché nel momento in cui non posso vendere io che ho il banco di abbigliamento, per fare un esempio, è chiaro che non lavorano più neanche il mio rivenditore all’ingrosso e la fabbrica che quei capi li realizza”.</p>
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<h2 id="h-piazze-senza-controlli-e-mercati-alla-merc-degli-abusivi">Piazze senza controlli e mercati alla mercé degli abusivi</h2>
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<p>Permane dunque un certo <strong>doppiopesismo nella gestione del commercio ambulante</strong>. Perché alle riaperture a singhiozzo va sommato uno storico punto nevralgico per il settore, cioè la <strong>mancanza di controlli sul corretto svolgimento delle piazze</strong>.</p>
<p>“Padova conferma la controtendenza rispetto al resto d’Italia – continua Sattin – con il 75% circa di ambulanti locali, ma rimangono intatti anche i punti deboli presenti pre-pandemia. Sono molti gli <strong>ambulanti stranieri</strong> che con la bancarella occupano più dei quaranta metri previsti, arrivando a cinquanta-sessanta, e che soprattutto alterano il mercato con prodotti messi in vendita a uno o due euro. Credo che cifre così si possano tenere solo con prodotti di seconda mano, ma in questo caso abbiamo l’obbligo di esporre il cartello ‘merce usata’, cosa che non accade. Di tanto in tanto si vedono cartelli con scritto a penna ‘fondi di magazzino’, ma sono avvisi molto provvisori e decisamente poco chiari”.</p>
<p>Eppure i numeri della polizia locale di Padova mostrano che dei 121 verbali emessi nel 2019 per occupazione abusiva di suolo pubblico, solo tre erano riconducibili a venditori ambulanti. Nel 2020 solo un verbale su 80. Quest’anno, su diciassette verbali emessi, non figura alcun venditore interessato. “Come già ho spiegato anche in passato – ribadisce Sattin – <strong>se non ci sono vigili in organico</strong> per appurare il corretto svolgimento dei mercati, <strong>non ci sono neanche le multe</strong>”.</p>
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<h2 id="h-i-mercati-di-piazza-a-venezia">I mercati di piazza a Venezia</h2>
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<p>E contro l’abusivismo, crisi da alluvione prima e pandemia poi, hanno potuto agire dove hanno fallito i controlli delle autorità, in una città universalmente definita unica: <strong>Venezia</strong>. Preclusa al turismo estero, lo splendore della città lagunare (che lo scorso 25 marzo ha compiuto 1.600 anni) è beneficio dei soli italiani, in particolare dei veneti obbligati ai confini regionali in base al colore sancito dal tasso di rischio contagi.</p>
<p>Hanno approfittato di questa inedita Venezia una coppia di coniugi padovani, Carlo e Alba, “turisti per caso” qualche settimana fa tra i ponti del Canal Grande. “<strong>Non l’avevamo mai vista così</strong>”, dicono, “con una piazza San Marco praticamente deserta, ancora più maestosa nel suo silenzio. Ci hanno colpito i ristoratori che dalla porta del loro locale ti invitano a entrare specificando che non si paga né il servizio né il coperto, e i gondolieri, che ora lavorano solo con i veneti, ai quali dicono di applicare una tariffa agevolata. È stato impressionante nell’insieme, anche se resta sempre una città bellissima. <strong>Dei soliti venditori ambulanti</strong>, però, delle bancarelle di souvenir, <strong>neanche l’ombra</strong>”.</p>
<p>Ci restituisce una fotografia numerica della situazione il presidente di Confcommercio-Ascom di Venezia, <strong>Roberto Magliocco</strong>.</p>
<p>“A fronte di ricavi nell’ordine di 40-50.000 euro per i primi dieci mesi del 2019 – spiega – noi ambulanti siamo arrivati ai 5.000 euro del 2020. <strong>Una caduta verticale</strong>, perché Venezia vive per il 90% di turismo, attualmente azzerato, e quindi <strong>oggi gli ambulanti sono sulla soglia della povertà</strong>.”</p>
<p>“Gli <strong>abusivi</strong> qui sono scomparsi semplicemente perché non c’è più mercato, ma il fenomeno c’è, e costituisce anche per Venezia un grosso problema non risolto. Usano spazi per i quali non pagano e non rispettano neanche il codice merceologico. Sono venditori provenienti prevalentemente dal Bangladesh; danno sempre indirizzi fittizi, per cui anche quando vengono multati per le loro infrazioni non pagano, perché tanto non sono reperibili e quindi neanche rintracciabili dall’Ufficio Riscossione crediti dell’Ufficio Entrate. Dopo un paio d’anni al massimo spariscono e fanno subentrare un parente, che a sua volta diventerà invisibile.”</p>
<p>“Proprio per questo come Ascom abbiamo proposto di <strong>rilasciare l’autorizzazione all’occupazione del suolo pubblico solo su fideiussione</strong>, e il comune sta valutando la cosa, anche perché si rende conto che il fenomeno aumenta il degrado della città, toccando da vicino non solo gli ambulanti, ma anche i negozianti”.</p>
<p>Il tracollo economico del settore a Venezia, strettamente legato alla spiccatissima vocazione turistica della città, non poteva che travolgere tutti gli ambulanti. “I <strong>mercati di piazza</strong> sono indirizzati all’80-90% ai residenti”, dice ancora Magliocco. “<strong>A Venezia</strong> però non è così. Solo il 20% è riservato agli abitanti, il rimanente si fonda sul turismo degli <strong>stranieri</strong>”.</p>
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<h2 id="h-effetto-pandemia-venezia-rimpiange-i-problemi-di-un-tempo">Effetto pandemia: Venezia rimpiange i problemi di un tempo</h2>
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<p>Una lezione molto dura, quella impartita dalla pandemia alla città lagunare. Celebre per la sua bellezza, fragile e incantevole, ma anche per le sue contraddizioni socio-ambientali, con le invettive dei veneziani contro le vituperate invasioni di stranieri e le paratie del Mose che solo di recente sono riuscite a far scudo all’acqua alta.Ed è datata 31 marzo 2021 l’approvazione del decreto-legge che stabilisce <strong>debba avvenire</strong> “<strong>fuori dalla laguna</strong>” <strong>l’approdo definitivo delle grandi navi</strong> (come chiesto dall’Unesco).Sempreverdi invece le <strong>dure critiche ai commercianti</strong>, spesso un po’ troppo inclini a imporre prezzi a cinque stelle tanto ai turisti quanto ai pochi abitanti della città lagunare rimasti, costretti all’esodo dall’esoso costo della vita.</p>
<p>Il tempo delle polemiche oggi sembra lontano un’era geologica. <strong>Ora tutti hanno nostalgia di tutto</strong>. Anche della calca asfissiante sui ponti gremiti. Anche dei vaporetti sempre troppo radi e affollati per chi si avventurava a lavorare a Venezia.</p>
<p>Magliocco conclude così, con un’amara autocritica e un auspicio: “Avremmo dovuto conservare da parte più risorse per i momenti difficili quando le cose andavano bene”, afferma. “Lo dico tanto a chi governa quanto a livello individuale, mi metto davanti io per primo. La situazione però oggi vede qui da noi <strong>5.000 aziende in bilico</strong>. Venezia è una città troppo particolare che sta risentendo enormemente degli effetti della pandemia, ed è necessario che regione e governo se ne rendano conto. <strong>I ristori arrivati finora, qui, non bastano neanche per pagare le bollette della luce</strong>. Spero in un’azione più mirata, che tenga conto della nostra specificità”.</p>


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Michela-Danieli

Michela Danieli

E&#8217; giornalista professionista dal 2002 e titolare di tessera stampa internazionale dal 2012. Vive tra Padova e Stoccolma, da dove collabora con il Fatto Quotidiano dal 2013 e con Senza Filtro dal 2015. Il suo sguardo è rivolto, da sempre, all&#8217;inchiesta giornalistica evitata dagli altri, alla denuncia sociale, politica e di carattere economico. La definizione che pensa le rassomigli di più è quella attribuitale da una leggenda de Il Resto del Carlino: &#8220;Ragazza pericolosissima!

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Michela Danieli - Informazione senza filtro

Le piazze venete prima non avevano controlli, adesso sono vuote. La testimonianza di Ilario Sattin (FIVA Veneto) e Roberto Magliocco (presidente di Confcommercio-Ascom di Venezia): &#8220;Ristori insufficienti e problemi con gli abusivi. Gli ambulanti regolari sulla soglia della povertà&#8221;.

Veneto, ambulanti in crisi. E Venezia rimpiange i vecchi problemi - Informazione senza filtro

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<p>Il loro luogo di lavoro è la <strong>strada</strong>. Il loro mestiere è vendere cultura di ogni genere e grado sotto forma di <strong>libro cartaceo</strong>, sia nuovo che usato. Dai gialli di Agatha Christie alla prima edizione della vita di Casanova, dall&#8217;enciclopedia Treccani al Manuale delle Giovani Marmotte, passando per il prezioso manoscritto di Marcel Proust e il libro per bambini.</p>



<p>Sono dappertutto, da Milano ad Asti, da Torino a Trento, da Brindisi a Messina, fino a Catania. I nomi delle loro “<strong>aziende</strong>” <strong>itineranti</strong> sono fantasiosi come il loro mestiere: Librisottocasa, Dynamite Books, Fabiolandia, Pagine Erranti, Il bookpostino di Torino, l’Isola di Arturo, Happiness on the road, Bibliolibrò, Taberna Libraria, Ambulanza Letteraria. C’è anche chi opera da solo utilizzando come deposito libri un box, e c’è anche chi da qualche tempo ha abbandonato la strada per vendere libri online.</p>



<p><strong>Nessuno sa quanti sono</strong>: gli ambulanti hanno il sindacato FIVA, ma i <strong>librai di strada</strong> non compaiono come categoria. Per trovarli bisogna andare nelle vicinanze dei mercati, agli angoli delle strade, in genere sotto i portici per prevenire il maltempo, oppure dove ci sono eventi che hanno qualcosa a che fare con la cultura. Poi ci sono gli appuntamenti fissi: a Milano, tanto per fare un esempio, una volta li trovi in piazza Diaz, accanto a piazza del Duomo; un’altra volta li trovi sui Navigli quando c’è il mercato dell’antiquariato, alla fine di ogni mese.</p>



<p><strong>L’origine di questo mestiere</strong> in Italia pare che abbia origine a <strong>Pontremoli</strong>, nell’alta Lunigiana, quando i librai di strada ambulanti provenienti da paesi limitrofi esordirono nella regione disseminando il territorio di bancarelle che tra l’altro diedero il nome al prestigioso premio Bancarella.</p>



<p>I più itineranti dei librai di strada, quelli che non hanno rinunciato a lavorare <em>on the road</em> con l’avvento di Internet, si muovono in bicicletta, come <strong>Luca Santini </strong>di Milano, titolare della libreria itinerante Librisottocasa, o con il calessino a tre ruote, come <strong>Valentina Rizzi</strong> di Ostia, titolare della libreria Bibliolibrò e editore con lo stesso marchio.</p>



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<h2 id="h-a-volte-sono-pi-veloce-di-amazon-ma-i-guadagni-la-vita-dei-librai-di-strada">“A volte sono più veloce di Amazon, ma i guadagni…”: la vita dei librai di strada</h2>



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<p><strong>Luca Santini</strong> fino al 2013 era un libraio al chiuso e gestiva una piccola libreria in largo Mahler dove ora c’è una lavanderia gestita da cinesi.</p>



<p>“I <strong>costi di gestione</strong> erano troppo alti. È il destino delle piccole librerie in grandi città. Ma la mia passione per i libri e per il contatto diretto con la gente era talmente forte che una volta chiusa la libreria decisi di prendermi una <strong>licenza di ambulante</strong> e una <strong>bicicletta</strong> con un piccolo espositore e di vendere i libri nuovi dove si poteva. Ho aperto come tutti noi una <strong>partita Iva</strong> e mi sono messo per strada o in qualche bar che accettava la mia presenza”.</p>



<p>Ce la fai a vivere con quello che guadagni? “Diciamo che grazie al fatto che mia moglie ha uno stipendio fisso <strong>riesco a dare un buon contributo</strong> al reddito famigliare. <strong>Una giornata tipo?</strong> A tutte le ore arrivano ordini online o per telefono. Spesso mi fermano per strada, beviamo un caffè, discutiamo del libro che mi viene richiesto, passo dai grossisti e a fine giornata consegno. A volte sono più veloce di Amazon”, dice Luca con il sorriso sulle labbra.</p>



<p>“Il bello di questo mestiere è il <strong>rapporto diretto con il lettore</strong>. È un lavoro faticoso ma ti lascia molta indipendenza”. La <strong>pandemia</strong> quanto vi ha danneggiato? “All’inizio eravamo tutti chiusi in casa e i lettori sono addirittura cresciuti, ma il danno più grosso è stato causato dal fatto che <strong>tutti gli eventi sono saltati</strong>. <strong>Io ho perso il 35% del mio fatturato abituale</strong>”.</p>



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<h2 id="h-sfatare-il-mito-dei-bassi-costi-per-gli-ambulanti-paghiamo-tasse-come-i-negozi">“Sfatare il mito dei bassi costi per gli ambulanti: paghiamo tasse come i negozi”</h2>



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<p><strong>Valentina Rizzi</strong>, di Ostia, quarantatreenne scrittrice e titolare di Bibliolibrò, ha fatto il percorso inverso a quello di Luca Santini: è nata come libraia itinerante e ora lavora in una libreria a Ostia.</p>



<p>“Io vengo dal teatro, scrivevo libri per bambini e gestivo laboratori per i più piccoli. Poi le cose non sono andate per il verso giusto e così <strong>ho deciso di prendermi un’ape</strong>, aprire un conto deposito presso i fornitori ufficiali e con la licenza di ambulante ho iniziato, diciamo così, a fare <strong>incursioni artistiche sul territorio</strong>, presentando libri per bambini e video. <strong>Non potrei vivere soltanto con questa attività</strong>, ma la passione per la strada è troppo forte, è una scelta di vita. Hai presente <em>La strada</em> di Federico Fellini?”</p>



<p>Deve essere dura lavorare per strada sul vostro territorio. “Lo so a cosa ti riferisci. Al commissariamento per mafia della zona ostiense, in effetti, è assai difficile lavorare per strada dalle mie parti. E poi bisogna <strong>sfatare il mito dei bassi costi per il lavoro ambulante</strong>: noi paghiamo le tasse come se avessimo un negozio. Ci sono le rate Inps, c’è la partita Iva. Altro che la leggenda dell’ambulante libero e felice”.</p>



<p>“Detto questo, non rinuncerei del tutto alla strada: <strong>è troppo suggestivo questo mestiere</strong>, hai a che fare con la gente. Purtroppo da noi non c’è la tradizione dei mercati fissi, lo stipendio te lo devi guadagnare sul campo. E spesso la gente quando ti vede a un angolo di strada sull’ape crede che tu sia lì per chiedere l’elemosina.”</p>



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<h2 id="h-il-mercato-di-libri-online-non-riesce-a-sostituire-quello-fisico">Il mercato di libri online non riesce a sostituire quello fisico</h2>



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<p><strong>Paolo Tonnarelli</strong> e <strong>Luciano Zagari</strong> sono invece ambulanti milanesi della vecchia guardia. Il loro rifornimento di libri usati per anni sono stati gli appartamenti di anziane signore o signori che decidevano di svuotare le loro librerie senza neppure guardare se tra le centinaia di vecchi libri ne esisteva qualcuno di valore.</p>



<p>“A me è capitata la fortuna – racconta Luciano Zagari – di trovare un libro d’arte di Alighiero Boetti che valeva 20.000 euro. Ma è una fortuna molto rara”. Luciano ormai in veste di ambulante fa soltanto i <strong>mercati che si tengono una volta al mese</strong> a Milano e a Torino; per il resto la sua strada è <strong>la rete</strong>. “Ho costruito un <strong>sito</strong> dove si trovano libri politici che risalgono alla stagione degli anni Settanta. Poi è nato Maremagnum, riservato alla vendita di libri online. Con l’avvento di Internet – mi fa capire Luciano – c’è stato un salto anche dal punto di vista economico, ben più redditizio che in passato”.</p>



<p>Paolo Tonnarelli, ex commesso di Buscemi, ambulante di strada e nei mercati con libri usati, è pessimista rispetto al futuro di questo mestiere: “Il crollo è dovuto al fatto che <strong>non c’è ricambio generazionale</strong>. Ai giovani interessa poco intraprendere questa attività, anche perché non leggono libri, preferiscono stare sul web. <strong>Non è un caso che l’Ikea abbia drasticamente diminuito la produzione di librerie</strong>”.</p>



<p>“E poi parliamoci chiaro; <strong>per fare questo mestiere devi investire soldi, studiare e fare fatica senza grandi prospettive</strong>. Io tanto per capirci ho investito il TFR di ventidue anni di lavoro in un negozio di dischi e mi sono dovuto mettere a studiare i libri che mi passavano per mano. Non mi pare che i giovani coltivino questa passione. Ci sono giovani che vendono l’usato, ma le prospettive non mi sembrano rosee.”</p>



<p>“Poi è arrivato il <strong>COVID-19</strong>, che ha chiuso tutti i mercati. <strong>Io ho perso il 60-70% del mio fatturato</strong>. All’inizio la vendita online è esplosa, ma poi si è stabilizzata, mentre la perdita degli introiti dovuta alla chiusura dei mercati non la recuperiamo più. Credo che l’ambulante libraio resti <strong>un bel lavoro, ma di nicchia</strong>”.</p>


Librai di strada e falsi miti: pagano tasse come i negozi

<p>Si dice spesso che leggere – ma anche scrivere – un libro sia come intraprendere un viaggio, ed è vero. Se però ci addentriamo nel dietro le quinte di chi lavora per permettere al libro di essere pubblicato, distribuito e venduto scopriamo che a essere in viaggio sono anche gli editori stessi, e in senso letterale più che mai.</p>
<p>Sfatiamo così il luogo comune che identifica il ruolo dell’editore con una mansione “ferma” alla scrivania. In realtà si tratta di un lavoro fortemente itinerante. Con <em>SenzaFiltro</em> concentriamo l’attenzione su un ambito prezioso e quanto mai necessario per l’editoria, soprattutto quella definita micro e piccola: parliamo delle<strong> fiere</strong>.</p>
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<h2 id="h-dario-bellini-gilgamesh-edizioni-le-fiere-per-noi-piccoli-editori-sono-essenziali">Dario Bellini, Gilgamesh Edizioni: “Le fiere per noi piccoli editori sono essenziali”</h2>
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<p>Iniziamo il nostro viaggio nell’ambito fieristico interpellando chi lo vive in veste di editore. Raggiungiamo telefonicamente <strong>Dario Bellini</strong>, titolare della <strong>Gilgamesh Edizioni</strong>, casa editrice del territorio mantovano che pubblica saggi, libri di narrativa e di poesia. Un’avventura, la sua, che compie dieci anni vissuti con grande impegno, soddisfazioni e in maniera fortemente itinerante.</p>
<p>“Per noi editori la <strong>parte itinerante</strong> è importantissima”, esordisce. “Coinvolge tutta la <strong>promozione offline</strong> attraverso eventi in librerie, biblioteche, micro-rassegne e fiere. Le <strong>bancarelle</strong> stesse sono uno degli importanti canali di <strong>vendita diretta</strong>”. E a proposito delle fiere afferma: “<strong>Per noi piccoli editori sono e restano essenziali</strong>”.</p>
<p>Chiediamo: quanto incide questa parte itinerante sui traguardi promozionali e di vendita di una piccola casa editrice? “Sinceramente posso dire che <strong>per un piccolo editore</strong> questa parte è vitale, e mi spingo a dire che copre anche il <strong>70-80% del fatturato</strong>. Dai dati emerge che durante il lockdown la gente ha letto di più: vero, ma puntando soprattutto ai grandi nomi delle major editoriali. Noi piccoli editori dobbiamo invece conquistarci i piazzamenti sul campo e per questo abbiamo bisogno di un <strong>rapporto diretto</strong> con il pubblico attraverso presentazioni dal vivo e partecipando alle fiere”.</p>
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<h2 id="h-le-fiere-pi-accoglienti-delle-librerie-alcuni-librai-fanno-il-gioco-delle-major">Le fiere più accoglienti delle librerie: “Alcuni librai fanno il gioco delle major”</h2>
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<p>Nel 2020 gli eventi fieristici hanno subito uno stop determinando una sofferenza molto forte nel segmento della piccola e micro-editoria, come ci conferma Bellini: “<strong>La pandemia ha dato il colpo finale a tante piccole case editrici</strong> che erano già in difficoltà e credo purtroppo che diverse chiuderanno, soprattutto se ubicate in provincia o in piccole città. Sopravvive di più chi fa anche da tipografo o chi si reinventa”.</p>
<p>In questa fase tante <strong>presentazioni di libri</strong> sono state fatte online tramite <strong>dirette Facebook</strong> e non solo: per un piccolo editore ha un risvolto questa modalità? “Non regge assolutamente il confronto con le presentazioni fatte dal vivo, dove avviene uno sbocco di vendita: nel nostro caso è difficile che da una presentazione online scaturisca un acquisto da parte del pubblico. Poi ci sono anche differenze magari dovute al target: chi appartiene al mondo analogico ha una modalità più interpersonale, i più giovani invece seguono maggiormente i blogger e i loro consigli”.</p>
<p>Sondiamo infine alcune <strong>penombre</strong> dell’ambito itinerante di questo lavoro in epoca pre-Coronavirus. “Da parte delle fiere ho sempre trovato molta <strong>accoglienza</strong> e importanti risvolti di vendita”, racconta schiettamente Bellini. “Il rapporto con i <strong>librai</strong> invece è meno semplice: non tutti sono disposti a realizzare presentazioni nelle loro librerie e magari fanno il <strong>gioco dei “potenti”</strong>. Anche il libraio che si definisce indipendente non è detto che sia automaticamente schierato dalla parte dei piccoli editori; posso capire la loro preoccupazione per il discorso economico. A maggior ragione l’editore deve diventare promotore di se stesso e dei suoi autori facendo presentazioni ed eventi con diverse tappe”.</p>
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<h2 id="h-fabio-del-giudice-pi-libri-pi-liberi-per-sopravvivere-i-piccoli-editori-devono-fare-ricerca">Fabio Del Giudice, “Più libri più liberi”: “Per sopravvivere i piccoli editori devono fare ricerca”</h2>
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<p>È la prima fiera italiana dedicata in maniera esclusiva all’<strong>editoria indipendente</strong>, piccola e media, coinvolgendo ogni anno circa cinquecento editori. Parliamo della fiera nazionale “<strong>Più libri più liberi” </strong>che si tiene a Roma nel mese di dicembre; l’unica tappa saltata è stata quella del 2020 causa pandemia.</p>
<p>Contattiamo <strong>Fabio Del Giudice</strong>, direttore della fiera dal 2002, anno in cui è nata, e che da gennaio di quest’anno ricopre anche il ruolo di direttore dell’<strong>Associazione Italiana Editori (AIE)</strong>. Proprio in AIE il <strong>Gruppo Piccoli Editori</strong> ebbe l’idea di far nascere la fiera, che nel tempo ha raccolto grandi riconoscimenti e sempre più pubblico.</p>
<p>Del Giudice fa una premessa che traccia i lineamenti dell’editoria di cui stiamo parlando: “Per <strong>piccola editoria</strong> intendiamo aziende con un fatturato che va da 0 a 10 milioni di euro annui; per <strong>microeditoria</strong> invece quel segmento che va da 0 a 2 milioni di fatturato. In Italia continua a essere importante il <strong>pluralismo editoriale</strong>, con una parte di forte fatturato intercettata dalla piccola e media editoria”.</p>
<p>A proposito della metafora dell’essere in movimento, la piccola editoria ha questo come valore aggiunto? “Non vado per assoluti, ma posso dire che la piccola editoria è più votata alla <strong>sperimentazione</strong> e allo<strong> scouting</strong>; questo non significa che i grandi editori non lo facciano, ma i costi di gestione di una piccola casa editrice sono minori e ciò consente di sperimentare su titoli che hanno magari in prima uscita tirature più basse. I piccoli editori per sopravvivere devono fare <strong>ricerca</strong>”.</p>
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<h2 id="h-le-fiere-sono-un-occasione-di-confronto-tra-editori-e-pubblico">“Le fiere sono un’occasione di confronto tra editori e pubblico”</h2>
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<p>Proseguiamo chiedendo se le <strong>fiere</strong> si confermano come un servizio essenziale per l’editoria: “Da un punto di vista prettamente commerciale e di marketing sono di <strong>vitale importanza</strong> per la microeditoria”, spiega. “Se la fiera funziona, cosa che non si può dire di tutte, permette ai piccoli e ai microeditori di avere un saldo attivo dal punto di vista economico. Nella nostra fiera, ad esempio, si vendono sempre molti libri, e ciò consente agli editori che espongono di avere un riscontro positivo rispetto al loro investimento”.</p>
<p>Non manca un altro tassello fondamentale: “Le manifestazioni fieristiche sono un’occasione importante di <strong>incontro</strong> e <strong>confronto diretto</strong> tra editore e pubblico senza la mediazione dei distributori. Diventano inoltre l’opportunità per l’editore di <strong>cogliere suggerimenti</strong> dai lettori e capire quanto siano effettivamente apprezzate o meno le proprie scelte editoriali”.</p>
<p>La fiera si conferma così una voce fondamentale nel bilancio complessivo di una piccola casa editrice. La <strong>pandemia</strong> ha evidenziato questo aspetto: “<strong>È stato uno tsunami</strong>, la totale sospensione delle manifestazioni ha provocato un danno soprattutto alle piccolissime case editrici”.</p>
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<h2 id="h-una-palestra-per-gli-editori-come-le-fiere-aiutano-i-piccoli-a-sopravvivere">“Una palestra per gli editori”: come le fiere aiutano i piccoli a sopravvivere</h2>
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<p>Dal 2002 – anno di nascita di “Più libri più liberi” – al 2021 sono passati quasi vent’anni: è cambiato il modo di fruire delle fiere da parte degli editori?</p>
<p>“<strong>I cambiamenti sono stati tanti</strong>. Noi stessi come fiera abbiamo raggiunto l’obiettivo di avere un respiro nazionale restando al contempo focalizzati sulla piccola editoria: raro all’estero trovare progettualità di questo tipo. Gli editori invece <strong>hanno imparato a stare in fiera</strong>, per loro ha rappresentato una palestra. Hanno capito quali siano i libri da portare e anche quali autori presentare. Abbiamo la sensazione che abbiano migliorato anche la veste grafica dei loro libri, e questo sempre grazie al riscontro da parte del pubblico. La fiera è sempre più un’occasione importante di confronto per la comunità del libro. Noi abbiamo sin da subito lavorato affinché tutti gli editori si sentissero protagonisti senza differenze”.</p>
<p>Il confronto diventa così veicolo per concretizzare risultati importanti: “In fiera i lettori scoprono libri che in libreria avrebbero difficilmente trovato, e dopo l’incontro magari si <strong>fidelizzano </strong>alla casa editrice. Gli editori possono attivare progettualità con altri colleghi”.</p>
<p>In qualità di direttore di AIE ha un nodo al fazzoletto da sciogliere rispetto al lavoro che si sta facendo con la piccola editoria, qualcosa che vorrebbe fosse sviluppato? “Spesso nella piccola editoria la passione prevale sulle logiche economiche, ma non bisogna dimenticare che parliamo di imprese per le quali sono necessari due aspetti. Da un lato che si lavori sulla <strong>formazione</strong>, indispensabile per gli editori per affrontare un mercato sempre più competitivo; dall’altro che si concretizzino <strong>progetti collettivi</strong>. Per realtà piccole determinate iniziative si possono realizzare solo se si uniscono le forze: la nostra fiera è un esempio lampante con un’idea fantastica partita da piccoli editori e tramutata in realtà”.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-Fiera-Roma-Libri-Liberi.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="682" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Foto-Fiera-Roma-Libri-Liberi-1024x682.jpg" alt="" class="wp-image-43804" /></a><figcaption>Roma, Fiera &#8220;Più Libri Più liberi&#8221;.</figcaption></figure>
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<h2>Daniela Mena, fiera della Microeditoria di Chiari: “Vetrine strategiche anche per chi punta sul digitale”</h2>
<p>Ha compiuto 18 anni, il primo vagito l’ha dato in presenza di Alda Merini, è definita la più grande manifestazione fieristica dei libri in Lombardia. È un curriculum fatto di tanti traguardi quello della fiera della <strong>Microeditoria di Chiari</strong>, sul territorio bresciano, eletta <strong>prima Capitale del Libro 2020</strong> con riconoscimento alla microeditoria e alla produzione degli editori indipendenti.</p>
<p>L’organizzazione è a cura dell’associazione l’<strong>Impronta</strong>, in collaborazione con il <strong>Comune di Chiari</strong>. Proprio nel 2020 la fiera ha dovuto saltare l’attesissimo appuntamento di novembre, che verrà recuperato il 26 e il 27 giugno. “Avremo gazebi all’aperto per garantire la sicurezza al 100%”, sottolinea <strong>Daniela Mena</strong>, direttrice artistica della fiera, appassionata di contaminazioni culturali e ideatrice del nome stesso.</p>
<p>Dal suo osservatorio ci illustra l’impatto che la fiera ha sui piccoli editori: “Rappresenta una <strong>vetrina strategica</strong> dal punto di vista della <strong>vendita</strong>, soprattutto per chi non riesce a reggere una distribuzione capillare; la dimostrazione è data dagli editori stessi, che ritornano l’edizione successiva. Inoltre è per loro un’occasione importante di fare <strong>talent scouting</strong> incontrando direttamente gli autori. Diversi di questi hanno trovato il proprio editore così”.</p>
<p>C’è un target di riferimento che ha colto rispetto alla vostra fiera? “Quando siamo partiti la maggior parte del pubblico proveniva dal Milano; poi negli anni è cresciuto in maniera significativa quello locale di Chiari, Brescia e Bergamo. Inoltre abbiamo coinvolto sempre più le <strong>scuole </strong>con convenzioni e stage, aumentando così la partecipazione del <strong>pubblico giovane</strong>”.</p>
<p>Riguardo ai cambiamenti intercettati in questi quasi 19 anni di attività, rivela: “L’altro aspetto importante è lo sviluppo del <strong>lavoro di rete</strong> con altre associazioni per noi ricco di soddisfazioni. Di solito infatti le fiere sono gestite da aziende o cooperative; nel nostro caso è guidata da un’associazione e la sinergia resta essenziale”. E aggiunge: “Nel tempo c’è stata una forte diffusione degli <strong>e-book</strong>, ed è interessante constatare come anche i piccoli editori che puntano la quasi totalità del loro catalogo sul <strong>digitale</strong> trovino riscontri fondamentali nelle fiere”.</p>
<p>Lampanti i <strong>riflessi positivi sul territorio</strong>: “La fiera porta vivacità e maggior indotto economico agli esercizi commerciali, perché chi vi partecipa mangia, pernotta e fa acquisti. È stata inoltre per noi l’occasione per mettere in luce la bellezza del centro medievale di Chiari, abbiamo fatto sinergia anche con le realtà museali locali”.</p>
<p>L’online nel 2020 l’ha fatta da padrone. <strong>Parlare di fiera online non è un ossimoro</strong>? “Concordo, <strong>la fiera ha senso solo se è in presenza</strong>, compreso il discorso vendite: se dal vivo vendi dieci libri, in online forse arrivi a uno. Lo scorso autunno abbiamo organizzato un semplice programma di incontri online giusto per mantenere continuità di rapporto con il pubblico e abbiamo dovuto convincere gli editori, che alla fine sono stati contenti: in due giorni abbiamo avuto diecimila visualizzazioni. È stato un modo per non cedere allo sconforto in attesa che finalmente si ritornasse alla presenza per respirare libri e incontri dal vivo”.</p>


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Fabio Del Giudice, direttore di &#8220;Più libri più liberi&#8221;: &#8220;Senza fiere soffrono soprattutto gli editori piccoli e piccolissimi, la parte del settore più votata alla sperimentazione e allo scouting&#8221;.

Fiere editoriali ferme, piccole case editrici muoiono - Informazione senza filtro

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<p>“Si parla tanto del <strong>Ministero della Transizione ecologica</strong>, affidato a un ministro-tecnico. Per ora è soltanto un nome nuovo, scelto per far credere che sapremo spendere i fondi europei destinati alla ripresa dopo la pandemia. <strong>Purtroppo dietro, a livello politico, c’è il nulla</strong>: mancano del tutto un pensiero, un’elaborazione, qualcosa che vada al di là dell’aria fritta”.</p>



<p>Non usa mezzi termini il presidente internazionale e fondatore di <strong>Slow Food</strong>, <strong>Carlo Petrini</strong>, mentre con <em>SenzaFiltro</em> discute del presente e del futuro, dopo più di un anno di emergenza sanitaria mondiale.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Carlo-Petrini3-scaled.jpg"><img width="1024" height="682" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Carlo-Petrini3-1024x682.jpg" alt="" class="wp-image-43757" /></a><figcaption>Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images for Slow Food Terra Madre</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-carlo-petrini-slow-food-con-il-nuovo-ministero-la-politica-vuole-apparire-credibile-per-accedere-alle-risorse-europee">Carlo Petrini, Slow Food: “Con il nuovo ministero la politica vuole apparire credibile per accedere alle risorse europee”</h2>



<p></p>



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<p>Langarolo doc, nato a Bra (Cuneo) nel 1949, detto <em>Carlin</em>, Petrini oggi è <strong>tra le personalità più influenti a livello globale</strong>, tanto che già nel 2008 è stato l’unico italiano inserito dal quotidiano inglese<em> The Guardian</em> tra le cinquanta persone che “potrebbero salvare il pianeta”. Con lui si confrontano e dialogano molti potenti della Terra. Parla anche con papa Francesco, che lo ha definito un “agnostico pio”, perché è mosso da “un atteggiamento nobile”, quello della “pietà per la natura”.</p>



<p>Oggi <strong>Slow Food</strong>, nata nel 1986 come ArciGola (in seno all’associazionismo di sinistra), è divenuta internazionale nel 1989 e ha radici in 160 Paesi (con oltre 1 milione di attivisti, di cui 24.000 soci in Italia). Da allora il suo cuore batte a Bra, dove è stata tenuta a battesimo. È sempre in prima linea: nella difesa del cibo “buono, pulito e giusto” (slogan che ne riassume la visione del mondo) e della biodiversità; nel rispetto di chi produce in armonia con l’ambiente e gli ecosistemi.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Carlo-Petrini2-1.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/04/Carlo-Petrini2-1-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-43767" /></a></figure>



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<p><strong>Presidente, più di un anno dopo l’inizio della pandemia in Italia, come vede la situazione delle aziende, dei contadini, delle osterie che seguono il modello di Slow Food?</strong></p>



<p>È stata ed è una botta enorme. A livello economico siamo agli sgoccioli. La vendita diretta – nei mercati e non solo – era un punto di forza per produttori, contadini, trasformatori. Ma è tutto fermo da fine febbraio 2020 e non credo che vogliano farli ripartire prima di un mese e mezzo. La pandemia ha emarginato particolarmente i sistemi locali di produzione del cibo. Pure la ristorazione e l’alberghiero, cardini di tutto il settore turistico, hanno subito una profondissima ferita. Vedo, nel settore, gente che campa alla giornata, che dà fondo a tutte le risorse. Spesso le saracinesche rischiano di rimanere abbassate. Per giunta, anche chiudere costa ed è difficile sostenere persino questa spesa.</p>



<p><strong>Ne ha tratto vantaggio la grande distribuzione?</strong></p>



<p>La maggior parte dei cittadini ha aumentato il consumo di cibo industriale e a lunga conservazione. La grande distribuzione italiana ha avuto un incremento degli affari del 3-4%. Il botto vero lo ha fatto Amazon, che ha toccato un +20%; infatti la pandemia ha spinto verso un aumento degli acquisti online e, quindi, degli imballaggi, plastica monouso inclusa.</p>



<p><strong>Meno di un anno fa, nel pieno della prima ondata pandemica, l’Alleanza Slow Food dei cuochi aveva lanciato un appello al governo e alle regioni per il sostegno alla ristorazione di qualità e ai produttori che la riforniscono. Qualcuno ha mai risposto?</strong></p>



<p>Ovviamente, no. Chiedevano di sostenere gli acquisti di prodotti agricoli e di artigianato alimentare di piccola scala, legati a filiere locali. La parte migliore dell’agricoltura italiana dipende moltissimo dalla ristorazione di qualità.</p>



<p><strong>Però, grazie alle vaccinazioni, sembra che presto potrà esserci una ripresa…</strong></p>



<p>Certo. Sarà una prima boccata di ossigeno. Il problema però è un altro, di fondo.</p>



<p><strong>Qual è?</strong></p>



<p>Se manca una visione d’insieme, è difficile ricostruire. Eppure occorre fare le scelte adesso, mica tra dieci anni, se vogliamo che l&#8217;emergenza sanitaria diventi un’occasione di rinascita.</p>



<p><strong>Nel senso che è un’opportunità?</strong></p>



<p>Ci offre l’opportunità per pensare sul serio a un altro modello di sviluppo. Quello adottato finora ci ha trascinati nella gigantesca crisi – climatica, sanitaria e non solo – che stiamo vivendo. Semmai, sarebbe drammatico se la pandemia diventasse l’alibi per portare ancora avanti, in nome della ripresa, politiche sciagurate: quelle che negli ultimi cinque o sei decenni hanno devastato il pianeta. Non è possibile che la parola d’ordine, anche in Italia, sia solo il cosiddetto “ritorno alla normalità”. Non può essere questa la speranza. Come se quella normalità non c’entrasse niente con ciò che sta succedendo.</p>



<p><strong>Proprio per pensare a un nuovo modello di sviluppo in Italia è nato, col Governo Draghi, il Ministero della Transizione ecologica. Non è un buon segno?</strong></p>



<p>Bah. Da qualche settimana, a certi livelli, si fa un gran parlare di questo nuovo ministero, che sarebbe quello dell’Ambiente con un nome diverso e un tecnico come ministro (<em>il fisico Roberto Cingolani,</em> <em>N.d.R.</em>). Sa cosa penso?</p>



<p><strong>Che cosa pensa?</strong></p>



<p>Proviamo a chiedere per strada, a dieci italiani, se sono a conoscenza di ciò che fa quel ministero. Secondo me, non lo sanno. Forse manco sanno che esiste. Mi dicono però che il ministro sia una brava persona. Ci credo. Certo, a volte rimango un po’ perplesso&#8230;</p>



<p><strong>Perché?</strong></p>



<p>Perché il ministro è stato sentito affermare che, per arrivare alla transizione, la cosa più sostenibile sia il gas; ha anche detto che bisogna mangiare la carne artificiale, fatta in vitro, per diminuire il consumo di proteine animali. Vabbè. Sono le idee di un tecnico, collocato lì senza che dietro ci sia niente a livello politico: c’è il nulla; mancano un pensiero, un’elaborazione, qualcosa che vada al di là delle frasi fatte. Di certo, non basta il cambiamento del nome di un ministero.</p>



<p><strong>Insomma, quel ministero le pare insufficiente?</strong></p>



<p>Diciamo che, inventandosi un nuovo nome, il mondo politico vorrebbe mettersi in pace la coscienza. Vorrebbe anche apparire credibile per accedere alle risorse europee, visto che il piano Next Generation cita proprio la necessità della transizione ecologica. Si cerca di far credere che l’Italia saprà spendere quei fondi, destinati alla ripresa dopo la pandemia. D’altra parte persino le multinazionali stanno recitando la stessa parte.</p>



<p><strong>In che senso?</strong></p>



<p>Per esempio, se si guarda la pubblicità di Amazon in questi ultimi tempi, sembra che sia la punta di diamante della sostenibilità. Ma va’ là… insomma, per ora si sta parlando solo di aria fritta. Serve ben altro.</p>



<p><strong>Che cosa serve?</strong></p>



<p>Anche in Italia, per realizzare la transizione ecologica, occorre una mobilitazione politica, culturale, empatica. Decine di milioni di persone devono cambiare stile di vita. Si deve conciliare la ripresa con le buone pratiche di una società che si trasforma.</p>



<p><strong>Eppure lo slogan che va per la maggiore è “ne usciremo migliori di prima”.</strong></p>



<p>Ne usciremo meglio di prima? È una balla galattica, senza una mobilitazione politica e culturale. D’altra parte nel nostro Paese su questi temi i partiti di sinistra non sono aggiornati, tentennano, non hanno argomenti forti. Il Movimento 5 Stelle sembrava avere argomenti, ma una volta arrivato al governo non ha saputo interpretarli. I Verdi di fatto in Italia non esistono. Per non parlare degli altri. Ho poca fiducia nella politica di questi partiti, se l’obiettivo è quello di giungere a un vero cambiamento. Occorre avviare una mobilitazione in modo capillare.</p>



<p><strong>Sembra piuttosto pessimista. O è solo un’impressione?</strong></p>



<p>Pessimista? Io? No, tutt’altro. La mia presa di posizione vuole essere una provocazione, un incitamento alla mobilitazione. Perché vanno ridisegnate le politiche agroalimentari, quelle ambientali, le attività industriali e artigianali di trasformazione, la piccola e grande distribuzione, il turismo, l’educazione alimentare, la salute e tanto altro.</p>



<p><strong>Certo. Ma chi dovrebbe provvedere alla mobilitazione, se lei dice che i partiti per ora non sono all’altezza della situazione?</strong></p>



<p>Io penso che si debba iniziare dal basso per arrivare in alto. Dai movimenti, incluso il nostro. E poi dai comuni, da sindaci, dalle amministrazioni locali. Ecco, credo molto nel ruolo dei sindaci come interpreti del loro territorio, della loro gente e delle esigenze reali. Insomma, viva la politica a livello locale.</p>



<p><strong>Anche Slow Food uscirà cambiato da questa tremenda esperienza?</strong></p>



<p>Noi siamo in tutto il mondo, anche in aree dimenticate, con una situazione disperata, cui nessuno sembra fare caso. Intanto, mentre stiamo chiacchierando, le multinazionali stanno ragionando, e investendo, sul metodo tecnologico per risolvere, si fa per dire…, i problemi causati dall&#8217;impatto sull&#8217;ambiente dei loro allevamenti e delle loro colture intensive. Come? Spendono milioni negli investimenti sulla carne in vitro, sull’agricoltura cellulare. Vogliono produrre alimenti che non hanno bisogno di terra, né di allevatori, né di agricoltori. Con tanti saluti al cibo come espressione della collettività, della cultura, della diversità biologica, del territorio, della storia. Per Slow Food, dunque, il punto centrale è la difesa della biodiversità.</p>



<p><strong>Come coinvolgere cittadini, istituzioni e Stati?</strong></p>



<p>Per noi è importante promuovere un ragionamento – a livello locale e internazionale – su tematiche che tocchino il cambiamento del modello di sviluppo. Inoltre dobbiamo essere in grado di far comprendere facilmente quale nesso ci sia tra sostenibilità, biodiversità e cibo. Questo è il dovere di Slow Food. Altrimenti che cavolo ci stiamo a fare?</p>

Carlo Petrini, presidente Slow Food: “Dietro il Ministero per la Transizione ecologica c’è il nulla”

<p>Il loro luogo di lavoro è la <strong>strada</strong>. Il loro mestiere è vendere cultura di ogni genere e grado sotto forma di <strong>libro cartaceo</strong>, sia nuovo che usato. Dai gialli di Agatha Christie alla prima edizione della vita di Casanova, dall&#8217;enciclopedia Treccani al Manuale delle Giovani Marmotte, passando per il prezioso manoscritto di Marcel Proust e il libro per bambini.</p>
<p>Sono dappertutto, da Milano ad Asti, da Torino a Trento, da Brindisi a Messina, fino a Catania. I nomi delle loro “<strong>aziende</strong>” <strong>itineranti</strong> sono fantasiosi come il loro mestiere: Librisottocasa, Dynamite Books, Fabiolandia, Pagine Erranti, Il bookpostino di Torino, l’Isola di Arturo, Happiness on the road, Bibliolibrò, Taberna Libraria, Ambulanza Letteraria. C’è anche chi opera da solo utilizzando come deposito libri un box, e c’è anche chi da qualche tempo ha abbandonato la strada per vendere libri online.</p>
<p><strong>Nessuno sa quanti sono</strong>: gli ambulanti hanno il sindacato FIVA, ma i <strong>librai di strada</strong> non compaiono come categoria. Per trovarli bisogna andare nelle vicinanze dei mercati, agli angoli delle strade, in genere sotto i portici per prevenire il maltempo, oppure dove ci sono eventi che hanno qualcosa a che fare con la cultura. Poi ci sono gli appuntamenti fissi: a Milano, tanto per fare un esempio, una volta li trovi in piazza Diaz, accanto a piazza del Duomo; un’altra volta li trovi sui Navigli quando c’è il mercato dell’antiquariato, alla fine di ogni mese.</p>
<p><strong>L’origine di questo mestiere</strong> in Italia pare che abbia origine a <strong>Pontremoli</strong>, nell’alta Lunigiana, quando i librai di strada ambulanti provenienti da paesi limitrofi esordirono nella regione disseminando il territorio di bancarelle che tra l’altro diedero il nome al prestigioso premio Bancarella.</p>
<p>I più itineranti dei librai di strada, quelli che non hanno rinunciato a lavorare <em>on the road</em> con l’avvento di Internet, si muovono in bicicletta, come <strong>Luca Santini </strong>di Milano, titolare della libreria itinerante Librisottocasa, o con il calessino a tre ruote, come <strong>Valentina Rizzi</strong> di Ostia, titolare della libreria Bibliolibrò e editore con lo stesso marchio.</p>
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<h2 id="h-a-volte-sono-pi-veloce-di-amazon-ma-i-guadagni-la-vita-dei-librai-di-strada">“A volte sono più veloce di Amazon, ma i guadagni…”: la vita dei librai di strada</h2>
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<p><strong>Luca Santini</strong> fino al 2013 era un libraio al chiuso e gestiva una piccola libreria in largo Mahler dove ora c’è una lavanderia gestita da cinesi.</p>
<p>“I <strong>costi di gestione</strong> erano troppo alti. È il destino delle piccole librerie in grandi città. Ma la mia passione per i libri e per il contatto diretto con la gente era talmente forte che una volta chiusa la libreria decisi di prendermi una <strong>licenza di ambulante</strong> e una <strong>bicicletta</strong> con un piccolo espositore e di vendere i libri nuovi dove si poteva. Ho aperto come tutti noi una <strong>partita Iva</strong> e mi sono messo per strada o in qualche bar che accettava la mia presenza”.</p>
<p>Ce la fai a vivere con quello che guadagni? “Diciamo che grazie al fatto che mia moglie ha uno stipendio fisso <strong>riesco a dare un buon contributo</strong> al reddito famigliare. <strong>Una giornata tipo?</strong> A tutte le ore arrivano ordini online o per telefono. Spesso mi fermano per strada, beviamo un caffè, discutiamo del libro che mi viene richiesto, passo dai grossisti e a fine giornata consegno. A volte sono più veloce di Amazon”, dice Luca con il sorriso sulle labbra.</p>
<p>“Il bello di questo mestiere è il <strong>rapporto diretto con il lettore</strong>. È un lavoro faticoso ma ti lascia molta indipendenza”. La <strong>pandemia</strong> quanto vi ha danneggiato? “All’inizio eravamo tutti chiusi in casa e i lettori sono addirittura cresciuti, ma il danno più grosso è stato causato dal fatto che <strong>tutti gli eventi sono saltati</strong>. <strong>Io ho perso il 35% del mio fatturato abituale</strong>”.</p>
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<h2 id="h-sfatare-il-mito-dei-bassi-costi-per-gli-ambulanti-paghiamo-tasse-come-i-negozi">“Sfatare il mito dei bassi costi per gli ambulanti: paghiamo tasse come i negozi”</h2>
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<p><strong>Valentina Rizzi</strong>, di Ostia, quarantatreenne scrittrice e titolare di Bibliolibrò, ha fatto il percorso inverso a quello di Luca Santini: è nata come libraia itinerante e ora lavora in una libreria a Ostia.</p>
<p>“Io vengo dal teatro, scrivevo libri per bambini e gestivo laboratori per i più piccoli. Poi le cose non sono andate per il verso giusto e così <strong>ho deciso di prendermi un’ape</strong>, aprire un conto deposito presso i fornitori ufficiali e con la licenza di ambulante ho iniziato, diciamo così, a fare <strong>incursioni artistiche sul territorio</strong>, presentando libri per bambini e video. <strong>Non potrei vivere soltanto con questa attività</strong>, ma la passione per la strada è troppo forte, è una scelta di vita. Hai presente <em>La strada</em> di Federico Fellini?”</p>
<p>Deve essere dura lavorare per strada sul vostro territorio. “Lo so a cosa ti riferisci. Al commissariamento per mafia della zona ostiense, in effetti, è assai difficile lavorare per strada dalle mie parti. E poi bisogna <strong>sfatare il mito dei bassi costi per il lavoro ambulante</strong>: noi paghiamo le tasse come se avessimo un negozio. Ci sono le rate Inps, c’è la partita Iva. Altro che la leggenda dell’ambulante libero e felice”.</p>
<p>“Detto questo, non rinuncerei del tutto alla strada: <strong>è troppo suggestivo questo mestiere</strong>, hai a che fare con la gente. Purtroppo da noi non c’è la tradizione dei mercati fissi, lo stipendio te lo devi guadagnare sul campo. E spesso la gente quando ti vede a un angolo di strada sull’ape crede che tu sia lì per chiedere l’elemosina.”</p>
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<h2 id="h-il-mercato-di-libri-online-non-riesce-a-sostituire-quello-fisico">Il mercato di libri online non riesce a sostituire quello fisico</h2>
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<p><strong>Paolo Tonnarelli</strong> e <strong>Luciano Zagari</strong> sono invece ambulanti milanesi della vecchia guardia. Il loro rifornimento di libri usati per anni sono stati gli appartamenti di anziane signore o signori che decidevano di svuotare le loro librerie senza neppure guardare se tra le centinaia di vecchi libri ne esisteva qualcuno di valore.</p>
<p>“A me è capitata la fortuna – racconta Luciano Zagari – di trovare un libro d’arte di Alighiero Boetti che valeva 20.000 euro. Ma è una fortuna molto rara”. Luciano ormai in veste di ambulante fa soltanto i <strong>mercati che si tengono una volta al mese</strong> a Milano e a Torino; per il resto la sua strada è <strong>la rete</strong>. “Ho costruito un <strong>sito</strong> dove si trovano libri politici che risalgono alla stagione degli anni Settanta. Poi è nato Maremagnum, riservato alla vendita di libri online. Con l’avvento di Internet – mi fa capire Luciano – c’è stato un salto anche dal punto di vista economico, ben più redditizio che in passato”.</p>
<p>Paolo Tonnarelli, ex commesso di Buscemi, ambulante di strada e nei mercati con libri usati, è pessimista rispetto al futuro di questo mestiere: “Il crollo è dovuto al fatto che <strong>non c’è ricambio generazionale</strong>. Ai giovani interessa poco intraprendere questa attività, anche perché non leggono libri, preferiscono stare sul web. <strong>Non è un caso che l’Ikea abbia drasticamente diminuito la produzione di librerie</strong>”.</p>
<p>“E poi parliamoci chiaro; <strong>per fare questo mestiere devi investire soldi, studiare e fare fatica senza grandi prospettive</strong>. Io tanto per capirci ho investito il TFR di ventidue anni di lavoro in un negozio di dischi e mi sono dovuto mettere a studiare i libri che mi passavano per mano. Non mi pare che i giovani coltivino questa passione. Ci sono giovani che vendono l’usato, ma le prospettive non mi sembrano rosee.”</p>
<p>“Poi è arrivato il <strong>COVID-19</strong>, che ha chiuso tutti i mercati. <strong>Io ho perso il 60-70% del mio fatturato</strong>. All’inizio la vendita online è esplosa, ma poi si è stabilizzata, mentre la perdita degli introiti dovuta alla chiusura dei mercati non la recuperiamo più. Credo che l’ambulante libraio resti <strong>un bel lavoro, ma di nicchia</strong>”.</p>


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