Il dato italiano dei morti sul lavoro correlati al caldo è il più alto in Europa; dai 35° le imprese potrebbero avvalersi della cassa integrazione, mentre nel resto dell’UE ne bastano 30. Il quadro impressionante fotografato con Francesco Tuccino e Massimo Pedretti di USB, e con il sociologo Marco Omizzolo
Le morti sul lavoro vanno in prescrizione, ma i dati sui processi sono un mistero
La durata media dei procedimenti penali sugli incidenti lavorativi supera molto spesso i sette anni e mezzo previsti, con la riforma Cartabia ad aggravare la situazione, e le poche condanne sono tutt’altro che esemplari. In questo scenario, il ministero della Giustizia non diffonde informazioni statistiche sull’esito dei processi
Quanti imprenditori negli ultimi dieci anni sono stati condannati in Italia per essere stati responsabili di morti sul lavoro nelle loro aziende? Quanti sono stati assolti e con quali motivazioni? Quanto durano in media i processi per omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, e quanti sono stati prescritti? Nessuno conosce questi numeri e non esiste alcun dato ufficiale che possa fornire queste informazioni, che pure sarebbero fondamentali per orientare le politiche di contrasto alle morti sul lavoro. Il ministero della Giustizia, pur essendo tenuto a farlo secondo le norme europee sulla trasparenza, non ha mai pubblicato alcun documento che possa rispondere a queste cruciali domande, cosa di una gravità inaccettabile.
La premessa è sempre d’obbligo: i morti sul lavoro non sono numeri, ma persone, e storie di famiglie rovinate. Averne anche solo uno è una sconfitta per un Paese civile. Tuttavia, analizzare l’andamento delle fredde statistiche resta il miglior metodo per studiare a monte azioni di prevenzione e deterrenza e valutarne, a valle, i risultati ottenuti. Ecco perché sarebbe di estrema importanza conoscere qual è, oggi, la risposta repressiva – che non deve essere l’unica – data dallo Stato alla tragedia che si compie quotidianamente nei cantieri, nelle fabbriche, nei magazzini, sulle strade, nei campi.
Processi per morti sul lavoro: perché la prescrizione è così frequente?
L’avvocato Roberto De Vita, dello studio Devitalaw, ha partecipato a un’iniziativa della UIL in cui il segretario Pierpaolo Bombardieri ha chiesto formalmente al ministero di rendere pubbliche queste statistiche. Il legale ha una sua personale spiegazione sul motivo per cui finora sono state tenute nascoste: la necessità di coprire l’imbarazzo che deriverebbe dal far sapere a tutti che la gran parte di processi per morti sul lavoro finisce in prescrizione. Un po’ perché molte procure ancora non possiedono speciali competenze per affrontare una materia spesso tecnica; un po’ perché le pene andrebbero aumentate per far allungare di conseguenza i termini di prescrizione.
Sono le motivazioni che portano oggi buona parte dei partiti di sinistra e dei sindacati a chiedere due riforme: l’istituzione della procura nazionale sulla sicurezza sul lavoro e l’introduzione dell’omicidio sul lavoro.
Torniamo però al problema delle statistiche mancanti. Il nodo focale è capire quanti processi riescono ad arrivare a sentenza, per capire quante volte lo Stato riesce, in un senso o nell’altro, a stabilire le responsabilità di un infortunio o di una morte sul lavoro. I dati, come visto, non sono disponibili, ma lo studio Devitalaw ha comunque provato a effettuare una stima tentando di unire un po’ di evidenze e costruendo un ragionamento logico.
Guardiamo innanzitutto al reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, l’articolo 590 comma 3 del Codice penale. Per questo reato la prescrizione arriva dopo sette anni e mezzo. Partiamo dalle indagini preliminari, che in genere durano dai 24 ai 36 mesi. Considerando quanto accade nel Tribunale di Roma, poi, la fase dibattimentale di primo grado dura oltre due anni per più del 30% dei processi, mentre l’appello dura in media 1.106 giorni. La durata media della fase della Cassazione è di 134 giorni. Ecco quindi chiarito come la gran parte dei processi avviati prima del 2017 non arriverà a sentenza. Se invece consideriamo quelli iniziati dopo il primo gennaio 2020, avranno anche questi un problema: diventeranno improcedibili a causa della mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni, così come previsto dalla riforma Cartabia. Solo a Roma, infatti, la durata media in secondo grado è di tre anni.
Oltre a non esistere un dato nazionale raccolto dal ministero della Giustizia, è quasi impossibile ricavarlo tramite le singole relazioni territoriali delle Corti d’Appello.
Quella di Roma si limita a dire che nel 2023 sono sopravvenuti 499 procedimenti per una serie di reati colposi, tra i quali gli incidenti stradali, le colpe mediche e gli infortuni sul lavoro. Dalla Corte d’Appello di Milano sappiamo solo che i procedimenti iscritti per reati in materia di “tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente”, senza distinzioni, sono pari a 155. Secondo la relazione annuale della Corte d’Appello di Napoli risulta che nel tribunale del capoluogo campano sono stati iscritti, in tutto il 2023, soltanto tre procedimenti per omicidio colposo sul lavoro; eppure i dati INAIL dicono che, solo considerando il primo trimestre di quell’anno, nel Napoletano si sono verificati ben nove incidenti mortali sul lavoro, quindi a Napoli vi è anche una palese incongruenza. L’eccezione virtuosa, che tuttavia serve solo a confermare la regola, è rappresentata dal Tribunale di Sondrio, che riporta il dato sui processi sopravvenuti, definiti o pendenti per l’omicidio colposo aggravato – 386 giorni – e lesioni colpose aggravate – pari a 166 giorni.
Quando le condanne ci sono: pene tutt’altro che esemplari
Questi, dunque, sono i dati (che mancano). Ma che cosa dice, invece, la cronaca quotidiana? Qui possiamo solo citare casi singoli, ma indicativi.
Xhafer Sahitaj era rocciatore albanese; nel 2019 morì a 39 anni dopo una caduta di 20 metri avvenuta mentre lavorava per il Terzo Valico nella cava del monte Gazzo. Ad aprile 2024, cinque anni dopo l’evento, il pubblico ministero di Genova ha chiesto le condanne a tre anni per i rappresentanti legali della ditta e a due anni per il direttore dei lavori.
Dino Corocher era un operaio di 49 anni quando, nel 2017, morì nella Garbellotto Botti di Conegliano (Treviso): a settembre 2023 i tre fratelli Garbellotto sono stati condannati a un anno; stessa pena per il direttore generale, otto mesi per il responsabile del servizio di prevenzione.
Meriglen Hoxha era un dipendente della ditta D.R.D. di Desio (Monza Brianza), morto nel 2017 a 34 anni. A maggio 2024, il Tribunale di Sondrio ha condannato a quattro mesi di reclusione ciascuno – pene sospese – il titolare dell’azienda e il collega che si trovava con lui al momento dell’infortunio.
Ancora, Lorenzo Brisotto è morto nel settembre del 2017 a causa delle esalazioni mentre stava lavorando all’interno di un silos delle Distillerie Nardini in provincia di Treviso. Le condanne del tribunale sono arrivate ad aprile 2024: il giudice ha stabilito un anno e quattro mesi con la sospensione condizionale per il presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante, oltre che per il direttore dello stabilimento.
A causa di un’esplosione alle Acciaierie Venete, il 13 maggio 2018 morirono due operai, uno di 39 anni e l’altro di 44. Anche qui il processo di primo grado si è concluso sei anni dopo con quattro condanne: due anni e mezzo per il presidente di Acciaierie, e per l’allora direttore; l’amministratore delegato dell’impresa incaricata delle manutenzioni, invece, è stato condannato a sei mesi e quindici giorni, con pena sospesa. L’ex consigliere con delega all’esecuzione dei collaudi per Danieli Centro Cranes – ditta ritenuta responsabile dell’inadeguatezza del perno che sosteneva la siviera poi rovesciata – è stato condannato a quattro anni e sei mesi, oltre all’interdizione di cinque anni dai pubblici uffici.
Poiché lo Stato italiano non garantisce la trasparenza su questi temi, per farsi un’idea tocca arrangiarsi con metodi meno scientifici, come appunto l’analisi delle notizie apparse sui giornali, che raccontano diversi casi in cui, solo per arrivare alla sentenza di primo grado, passano sette anni dalla morte. L’entità delle pene va circostanziata caso per caso, ma di certo – pur volendo evitare il populismo penale – dalle vicende citate non appare mai severa, a fronte del fatto che parliamo pur sempre di persone che hanno perso la vita.
La repressione, dicevamo in apertura, con ogni probabilità non è l’unico né il più efficace strumento per prevenire le morti sul lavoro. Allo stesso tempo, però, è giusto chiedersi quanta deterrenza oggi riesca a raggiungere il complesso di norme penali che tutelano la sicurezza sul lavoro, in un Paese in cui solo le sottostimate statistiche INAIL parlano di oltre mille decessi all’anno in azienda.
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