Da chi non trova lavoro a chi lo lascia: più di 2.200.000 italiani hanno dato le dimissioni nel 2022, in aumento del 13,8% rispetto all’anno precedente. È il fenomeno, discusso in ogni dove, della Great Resignation. Il tasso di disoccupazione è sceso al 7,8%, ai minimi storici da anni, ed è al 22,3% tra i giovani; quello di occupazione ha raggiunto e superato quota 60%. C’è un esercito di dipendenti che non si trovano: muratori, cuochi e camerieri, manutentori, educatori. Addirittura preti. SenzaFiltro ne ha parlato nell’ultimo reportage, Dove mancano i lavoratori.
E poi, controcorrente, l’articolo 24 del decreto lavoro, che torna a parlare di contratti a termine, semplificando la possibilità del ricorso alle causali, in particolare per le proroghe dopo i dodici mesi. Superata la dignità del fu ministro Di Maio, la scelta del Governo è stata di agevolare il ricorso alla flessibilità fino ai 24 mesi, attraverso l’utilizzo di una formula piuttosto generica: “Esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”.
Così, se fino a ieri era quasi impossibile scollinare l’anno con un contratto a termine (se non per sostituzioni di assenze), con i datori di lavoro costretti ad assumersi la responsabilità delle loro scelte di investimento, adesso i tempi tornano ad allungarsi.
Già, ma a che pro? Se risaliamo alla maggior riforma sui contratti a termine degli ultimi dieci anni – il decreto Poletti strutturato all’interno del Jobs Act, l’81 del 2015 – troviamo almeno un precariato proposto a chiare lettere: trentasei mesi senza l’onere delle causali. Un liberi tutti che, a torto o ragione, ha evidenziato le idee della maggioranza di allora. Il punto, però, è che si trattava di un mercato del lavoro diverso, con caratteristiche altrettanto diverse.
Su questo le maglie ristrette del decreto dignità, invece, hanno portato qualche anno dopo una certezza in dote, che oggi si può sottoscrivere senza remore: dodici mesi sono più che sufficienti per un’azienda che deve valutare un lavoratore, per un lavoratore che deve valutare un’azienda, e anche per una realtà organizzativa che deve far fronte a picchi o necessità specifiche a tempo determinato. Chi non riesce a pianificare un’idea di sviluppo con un proprio collaboratore entro 365 giorni è probabilmente bene che cambi mestiere.
Al di là delle competenze organizzative delle imprese, comunque, a che cosa serve garantire agli imprenditori strumenti di maggiore flessibilità nei confronti dei propri collaboratori, quando a stento riescono a trattenere quelli che già prestano servizio a tempo indeterminato, e allo stesso tempo faticano a essere attrattivi sul mercato?
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