Occupabili, flessibilità e tanta vaghezza: ci serve un decreto lavoro serio

Il governo Meloni interviene sul lavoro con un decreto che taglia i sussidi e favorisce la “flessibilità”, strizzando l’occhio ai datori di lavoro senza strategie concrete per favorire l’occupazione. E senza attenzione ai profondi cambiamenti del mercato del lavoro

Il governo Meloni discute il decreto lavoro, il primo maggio

La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 4 maggio conferma l’entrata in vigore, dal giorno successivo, dell’atteso decreto lavoro firmato dal governo Meloni. E già alle prime analisi emergono alcune inconsistenze e criticità.

Decreto lavoro, delineato il nuovo assegno di inclusione: la solitudine degli occupabili

In tema di sostegno alla povertà i primi undici articoli confermano di fatto l’impianto, discusso in questi mesi, sull’assegno di inclusione. L’aspetto positivo è l’assenza, almeno nel testo, di tutti i grotteschi acronimi che si sono susseguiti con costanza sulle pagine dei giornali, dalla MIA al GIL. Quanto ai requisiti, soprattutto gli economici – con una soglia ISEE a euro 9.360 e un beneficio massimo di 6.000, estendibile fino a 7.560 per chi non ha occupabili in famiglia – non si discostano molto dall’avventura ormai al capolinea del Reddito di Cittadinanza. Quel che cambia è la platea.

Sì, perché i nuclei famigliari coinvolti saranno, in via esclusiva, quelli con almeno un componente con disabilità, un minorenne o un over 60. Rimangono fuori dalla partita i cosiddetti occupabili, poiché il pensiero dell’attuale maggioranza è, da sempre, quello di separare gli inabili dagli arruolabili, recitando un mantra divenuto ormai un grande classico: sussidio e politiche attive non possono andare di pari passo. Peccato che l’articolo 1 del decreto reciti: “È istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2024, l’Assegno di inclusione, quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro”.

Misura di politica attiva del lavoro. Una retromarcia? “La vera differenza con il Reddito di Cittadinanza è che queste persone saranno lasciate sole. Mentre prima erano stati individuati dei tutor nelle figure dei navigator, adesso il decreto prevede l’iscrizione a una piattaforma che dovrebbe incrociare domanda e offerta. Non c’è alcuna garanzia che profili in genere di bassa scolarizzazione e bassissima alfabetizzazione digitale riescano nell’intento, soprattutto per le note carenze, in termini di risorse umane, dei centri per l’impiego. Si è provveduto a modificare la legge, ma non a potenziare il sistema di supporto”. Il commento è di Enrica Alterio, a capo di A.N.N.A., l’associazione che riunisce gli ex navigator.

"Gli 'occupabili'? La vera differenza con il Reddito di Cittadinanza è che queste persone saranno lasciate sole"
Enrica Alterio, Associazione Nazionale Navigator

“Accompagnati al lavoro” con progetti di formazione e 350 euro

La sensazione che il decreto sia molto generico è in effetti tangibile, così come l’urgente necessità dei decreti attuativi da parte del ministero del Lavoro.

Una sensazione che si rafforza a maggior ragione leggendo l’articolo 12, che racconta dei famosi occupabili, categoria esclusa dal sussidio ma coinvolta in un fantomatico supporto per la formazione, mediante la partecipazione a progetti di formazione e di accompagnamento al lavoro. In caso di partecipazione ai programmi formativi è previsto, per tutta la durata (e non oltre i dodici mesi), un importo mensile di 350 euro; una mancia non rinnovabile e inutile ai fini del sostentamento personale.

Per i datori di lavoro che assumono percettori dell’Assegno di inclusione, invece, sono previsti esoneri dei contributi al 100% per chi propone contratti a tempo indeterminato, e al 50% per quelli a tempo determinato – che tuttavia sono incentivati in altro modo dallo stesso decreto.

Con il programma GOL che segna a singhiozzo (nonostante l’ingente sfruttamento di risorse derivanti dal PNRR), pensare che un corso attivato digitalmente cancelli con un colpo di spugna tutte le inefficienze sembra pura utopia. Lungi da noi giudizi troppo affrettati: si attendono con ansia gli attuativi chiarificatori.

24 mesi per i contratti a termine: è tornata la flessibilità

Da chi non trova lavoro a chi lo lascia: più di 2.200.000 italiani hanno dato le dimissioni nel 2022, in aumento del 13,8% rispetto all’anno precedente. È il fenomeno, discusso in ogni dove, della Great Resignation. Il tasso di disoccupazione è sceso al 7,8%, ai minimi storici da anni, ed è al 22,3% tra i giovani; quello di occupazione ha raggiunto e superato quota 60%. C’è un esercito di dipendenti che non si trovano: muratori, cuochi e camerieri, manutentori, educatori. Addirittura preti. SenzaFiltro ne ha parlato nell’ultimo reportage, Dove mancano i lavoratori.

E poi, controcorrente, l’articolo 24 del decreto lavoro, che torna a parlare di contratti a termine, semplificando la possibilità del ricorso alle causali, in particolare per le proroghe dopo i dodici mesi. Superata la dignità del fu ministro Di Maio, la scelta del Governo è stata di agevolare il ricorso alla flessibilità fino ai 24 mesi, attraverso l’utilizzo di una formula piuttosto generica: “Esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”.

Così, se fino a ieri era quasi impossibile scollinare l’anno con un contratto a termine (se non per sostituzioni di assenze), con i datori di lavoro costretti ad assumersi la responsabilità delle loro scelte di investimento, adesso i tempi tornano ad allungarsi.

Già, ma a che pro? Se risaliamo alla maggior riforma sui contratti a termine degli ultimi dieci anni – il decreto Poletti strutturato all’interno del Jobs Act, l’81 del 2015 – troviamo almeno un precariato proposto a chiare lettere: trentasei mesi senza l’onere delle causali. Un liberi tutti che, a torto o ragione, ha evidenziato le idee della maggioranza di allora. Il punto, però, è che si trattava di un mercato del lavoro diverso, con caratteristiche altrettanto diverse.

Su questo le maglie ristrette del decreto dignità, invece, hanno portato qualche anno dopo una certezza in dote, che oggi si può sottoscrivere senza remore: dodici mesi sono più che sufficienti per un’azienda che deve valutare un lavoratore, per un lavoratore che deve valutare un’azienda, e anche per una realtà organizzativa che deve far fronte a picchi o necessità specifiche a tempo determinato. Chi non riesce a pianificare un’idea di sviluppo con un proprio collaboratore entro 365 giorni è probabilmente bene che cambi mestiere.

Al di là delle competenze organizzative delle imprese, comunque, a che cosa serve garantire agli imprenditori strumenti di maggiore flessibilità nei confronti dei propri collaboratori, quando a stento riescono a trattenere quelli che già prestano servizio a tempo indeterminato, e allo stesso tempo faticano a essere attrattivi sul mercato?

 

 

 

Photo credits: www.governo.it con licenza CC BY-NC-SA 3.0 IT

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