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<p>Riflessioni e articoli sull&#8217;edizione 2022 del Festival di Nobìlita.</p>


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Alberto De Toni

E’ Rettore e professore ordinario presso l’Università degli Studi di Udine. Insegna “Organizzazione della Produzione” e “Gestione dei Sistemi Complessi” nel corso di Laurea di Ingegneria Gestionale. Ha conseguito la laurea “magna cum laude” in Ingegneria Chimica e il dottorato di ricerca in Scienza dell’Innovazione Industriale presso l’Università di Padova. È stato Preside della Facoltà di Ingegneria, Presidente dell’Associazione Scientifica Italiana di Ingegneria Gestionale, Presidente della Commissione Nazionale del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) per la Riorganizzazione dell’Istruzione Tecnica e Professionale, Presidente dell’Agenzia per lo Sviluppo Economico della Montagna del Friuli Venezia Giulia, Vice Presidente di Area Science Park di Trieste. E’ membro del Comitato Nazionale per lo Sviluppo della Cultura Scientifica e Tecnologica del MIUR. È autore di oltre 280 pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali. Le principali aree di ricerca sono Organizzazione della Produzione, Gestione dell’Innovazione e Gestione della Complessità.

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Numero 112 &#8211; Nobìlita

Riflessioni e articoli sull&#8217;edizione 2022 del Festival di Nobìlita.

Numero 112 - Nobìlita

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Numero 61 &#8211; Cosa succede in città

Numero 61 - Cosa succede in città

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<p>Dentro l&#8217;Italia dei venditori e dei mercati ambulanti, una realtà consolidata che ha rischiato di sparire con l&#8217;ondata del COVID-19.</p>


Numero 102 &#8211; L&#8217;Italia ambulante

Dentro l&#8217;Italia dei venditori e dei mercati ambulanti, una realtà consolidata che ha rischiato di sparire con l&#8217;ondata del COVID-19.

Numero 102 - L'Italia ambulante

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Numero 34 &#8211; Il rientro perfetto

Numero 34 - Il rientro perfetto

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<p>Dietro il cibo c’è molto di più di quanto riportato per legge in etichetta: è tempo di spostare l’attenzione sui grandi volumi e sui grandi numeri e capire i meccanismi dietro alla produzione del nostro pane quotidiano.</p>


Numero 104 &#8211; Mangiare per credere

Dietro il cibo c’è molto di più di quanto riportato per legge in etichetta: è tempo di spostare l’attenzione sui grandi volumi e sui grandi numeri e capire i meccanismi dietro alla produzione del nostro pane quotidiano.

Numero 104 - Mangiare per credere

Numero 104 - Mangiare per credere - Informazione senza filtro

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<p>Da 122 giorni sono in <strong>presidio</strong> davanti allo stabilimento dove lavoravano fino a tre mesi fa. Sono i <strong>dipendenti delle Officine Meccaniche Giovanni Cerutti</strong>.</p>



<p>Attendono una soluzione a una vicenda che orma si trascina da anni, cioè dal settembre 2020, quando i libri erano già stati portati in tribunale e si cercò di ripartire con una nuova società. Il 31 agosto di quell&#8217;anno, a seguito di due istanze depositate da altrettante società in concordato preventivo (la Officine meccaniche G.Cerutti e la Cerutti Packaging Equipment), il tribunale di Vercelli diede la possibilità di creare una <strong>Newco</strong>: il <strong>Gruppo Cerutti S.r.l.</strong>, che riprendesse a lavorare conservando 134 posti lavoro.</p>



<p>L&#8217;obiettivo era anche quello di tutelare un <strong>marchio storico</strong> di Casale, con alle spalle quasi cento anni di storia; uno dei simboli della città, ma anche una fabbrica che dava lavoro a molti casalesi.</p>



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<h2 id="h-addio-alle-officine-cerutti-la-fine-di-una-storia-lunga-cent-anni">Addio alle Officine Cerutti. La fine di una storia lunga cent’anni</h2>



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<p>Nata nel 1920 grazie a Giovanni Cerutti, la società era la naturale prosecuzione dell&#8217;attività intrapresa nel 1800 dal padre. La vicenda della Cerutti iniziò con la produzione di <strong>macchine per la</strong> <strong>tipografia</strong>, e per tutto il Novecento fu un crescendo, grazie alla costruzione di macchine per stampare i rotocalchi, come ad esempio il quotidiano <em>il Tempo</em>, ma anche i giornali della Arnoldo Mondadori.</p>



<p>Negli anni la società si è sviluppata inglobando stabilimenti a Barcellona, Milwaukee e Detroit, ma rimanendo ancora in Piemonte con i siti di Casale e di Vercelli e in Lombardia a Candia e Tavazzano. Oggi rimane solo un capannone in dismissione a Vercelli e la fabbrica di Casale, quella dalla quale tutto è partito, dove i lavoratori sperano di poter tornare a lavorare anche grazie a due offerte che sono sul piatto dal 3 maggio e ad altre eventuali che potrebbero arrivare per <strong>l&#8217;asta del 30 giugno</strong>.</p>



<p>«Al 30 giugno – dice <strong>Maurizio Canello</strong> della CGIL – si va all&#8217;asta e si chiude la gara. La <strong>Boost</strong>, un&#8217;azienda Svizzera che ha uno stabilimento a pochi chilometri, ha fatto un&#8217;offerta di cinque milioni. <strong>Rinascita</strong>, una cordata italiana della quale fanno parte Ernesto Pellegrini e Diana Bracco, si è manifestata più volte ma non ha ancora fatto un&#8217;offerta vincolante.»</p>



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<h2 id="h-gli-interessi-dei-potenziali-compratori-brutte-notizie-per-i-lavoratori">Gli interessi dei potenziali compratori: brutte notizie per i lavoratori</h2>



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<p>Dagli incontri dei lavoratori con i due potenziali acquirenti è emerso che la cordata svizzera sarebbe interessata in prevalenza al <strong>marchio</strong>. Assumerebbe, infatti, soltanto 30 lavoratori e non utilizzerebbe lo stabilimento.</p>



<p>«Ciò che gli interessa – dice <strong>Luca Barbero</strong>, uno degli operai della Cerutti – è avere il marchio, avere un concorrente in meno e i nostri disegni e progetti, oltre che i nostri clienti. Le macchine per la tipografia sono un settore che sta lentamente scomparendo, ma negli ultimi anni avevamo iniziato a lavorare nelle macchine per il packaging, e quello è comunque un mercato in crescita».</p>



<p>Rinascita, cioè l&#8217;altra cordata, invece si è detta interessata a mantenere 54 lavoratori e lo storico stabilimento di via Adam. Ma al momento sembra la <strong>proposta meno concreta</strong>, anche perché il gruppo di imprenditori era già entrato nella composizione societaria un anno fa, non riuscendo però a sistemare la situazione, che oggi è sfociata in un altro fallimento. Ma la crisi arriva da lontano: già dal 2013 si è ricorso a contratti di solidarietà e cassa integrazione, e addirittura si introdusse il part time.</p>



<p>«Abbiamo organizzato – dice <strong>Roberto Annarratone</strong>, un altro operaio – dei turni tra noi lavorando un po&#8217; tutti. Ce li eravamo inventati pur di evitare i licenziamenti.»</p>



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<h2 id="h-lo-stillicidio-degli-operai-nella-cerutti-da-1-500-a-134">Lo stillicidio degli operai nella Cerutti: da 1.500 a 134</h2>



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<p>In questi anni il <strong>numero di impiegati</strong> della Cerutti si è via via <strong>assottigliato</strong>.</p>



<p>Si è partiti da 1.500 in tutto il gruppo fino a rimanere ai 500 di Casale, e ora ai 134 che stanno organizzando il presidio. A giugno 2020 i lavoratori erano 290. Per 160 di loro c&#8217;è stata la cassa a zero ore; quando è nata la Newco ne sono stati assunti 134. La maggior parte dei 160 che erano avviati al licenziamento si è ricollocata, o con nuovi lavori o con i prepensionamenti, ma ne rimangono altri <strong>54</strong> che oggi si assommano ai <strong>134</strong> in attesa di sapere quale sarà il loro futuro.</p>



<p>«La cosa positiva – dice Luca Barbero – è che ad esempio per me, che sono un montatore meccanico, c&#8217;è mercato, ma non in zona. Stiamo lottando non solo per i nostri <strong>posti di lavoro</strong>, ma anche per mantenere a Casale una delle sue <strong>industrie storiche</strong>. Io ho 50 anni e lavoro qui dal 1995. Da tempo ci battiamo per conservare questo patrimonio. La politica ci ha anche aiutato, la questione è arrivata fino in Parlamento, ma <strong>una soluzione non si trova</strong>.»</p>



<p>Gli fa eco <strong>Fulvio Foglia</strong>: «Questo quartiere – racconta – si chiama Oltreponte. C&#8217;erano almeno quattro fabbriche, era il cuore produttivo di Casale. Oggi <strong>siamo rimasti solo noi</strong> e siamo in procinto di chiudere. Nella fabbrica davanti alla nostra a settembre arriverà un altro supermercato. Una volta Casale era la città delle fabbriche: la chiamavano la “Piccola Milano”. Oggi è la città dei supermercati. Continuano a costruirne, ma se la gente non ha lavoro mi chiedo chi vada farci la spesa».</p>



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<h2 id="h-il-lavoro-c-ma-chiuso-dentro-la-fabbrica-operai-fermi-e-commesse-in-sospeso">Il lavoro c’è, ma è chiuso dentro la fabbrica. Operai fermi e commesse in sospeso</h2>



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<p>Nel presidio continuo degli operai c&#8217;è un misto di rabbia per le loro condizioni personali e di voglia di conservare un patrimonio tecnico, lavorativo e di sapere della città.</p>



<p>«Sono 34 anni che lavoro qui», dice Roberto Annarratone. «Prima al montaggio, anche in giro per il mondo, e ora come mulettista. Sono cresciuto in questa azienda, ma gli ultimi mesi sono stati davvero duri. Stiamo aspettando la cassa integrazione del mese di aprile. Per fortuna che mia figlia è sposata e mia moglie sta lavorando. <strong>Andrò in pensione nel 2026. Per me non è semplice ricollocarmi</strong>».</p>



<p>Per i lavoratori poi c&#8217;è la rabbia di sapere che il loro <strong>prodotto</strong> è comunque <strong>richiesto dai clienti</strong>. «Abbiamo nove commesse ferme», continua Annarratone. «Una macchina abbandonata a metà che aspetta di essere finita. E poi ci sono le nostre famiglie. Fortunatamente mia moglie lavora, ma qui ci sono anche delle coppie che erano dipendenti della Cerutti. All&#8217;inizio la gente ci ha aiutato e ci ha sostenuto, ma dopo 122 giorni ci si dimentica anche di noi».</p>



<p>L&#8217;apprensione riguarda poi anche il futuro. «Più passa il tempo – spiega Canello – più si rischia di <strong>perdere delle commesse</strong>. È importante che si trovi una soluzione il prima possibile, per non disperdere un patrimonio».</p>



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<h2 id="h-senza-la-sua-ultima-fabbrica-anche-la-citt-rischia-di-svuotarsi">Senza la sua ultima fabbrica, anche la città rischia di svuotarsi</h2>



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<p>I lavoratori intanto ogni giorno si ritrovano nell&#8217;androne della fabbrica chiusa, dove nessuno può entrare. Dentro ci sono le loro macchine, fuori un tavolo dove si chiacchiera, si beve il caffè, si taglia un salume e si discute di quello che un tempo a Casale era molto di più che un distretto industriale: era un vero e proprio orgoglio. La fabbrica era arrivata ad avere filiali in tutto il mondo, mentre oggi, dopo cent’anni, potrebbe sparire da Casale.</p>



<p>«Non è solo la questione di trovare un altro lavoro», dice Barbero. «Il problema è che chi si reimpiega lo fa di sicuro lontano da Casale, e <strong>a poco a poco la città si svuota</strong>. In un posto che ha 25.000 abitanti la chiusura dell&#8217;ultima fabbrica di duecento lavoratori si sente».</p>



<p>Nei discorsi tra le bandiere penzoloni della CGIL e gli striscioni dall&#8217;altra parte della strada, però, ricorre un incessante interrogativo, che non trova risposta nemmeno dopo mesi di analisi e di discussioni: <strong>come è stato possibile perdere anche la Cerutti?</strong></p>



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<p><em>Photo credits: weeklymagazine.it</em></p>


Officine Cerutti, le spoglie vanno ai compratori. E i licenziamenti salgono a 1.366


<p><strong>Lorenzo Fioramonti</strong>, che si forma e nasce come economista, molti lo ricordano senz’altro come Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca dal settembre 2019 nel secondo governo Conte. Il suo vangelo si chiama “<strong>economia del benessere</strong>” e lo incoraggia a istituzioni pubbliche e aziende per invertire un modello di crescita. Sua, poi, era stata la proposta della tassa di scopo sulle merendine e bibite gassate (la sugar tax sarà ufficialmente in vigore dal 1° gennaio 2022).</p>



<p>“Si parla tanto di degrado ambientale, perdita della biodiversità e cambiamenti climatici, ma pochi sanno che una delle principali cause è proprio l’<strong>industria del cibo</strong>: dagli allevamenti intensivi alle produzioni monocolturali, dall’olio di palma del sud-est asiatico fino alle piantagioni di riso, giusto per fare qualche esempio. Abbiamo creato un sistema dove anche la produzione di cibo diventa una minaccia alla sostenibilità della vita sul nostro pianeta. Non sto togliendo valore a cause ben pesanti come il petrolio o l’inquinamento dovuto al consumo di energia, però c’è <strong>un mondo che non viene messo davanti alla propria responsabilità</strong> e che, a conti fatti, pesa moltissimo già solo in termini di fertilizzanti, pesticidi, consumo massivo di acqua”.&nbsp;</p>



<p>Oltre a questo, l’altro paradosso che circa il <strong>30% del cibo che produciamo</strong> viene scartato, <strong>buttato</strong>, ritenuto non idoneo al commercio per standard estetici. Che sommato all’altro <strong>25% circa</strong> <strong>di media nazionale</strong> di rifiuto organico che viene disperso nei rifiuti indifferenziati rende l’idea dell’immensità del danno.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Lorenzo-Fioramonti-Hi-Res-Mar-2019-IV.jpeg"><img width="682" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Lorenzo-Fioramonti-Hi-Res-Mar-2019-IV-682x1024.jpeg" alt="" class="wp-image-45208" /></a><figcaption>L&#8217;Onorevole Lorenzo Fioramonti, ex Ministro dell&#8217;Istruzione, università e ricerca. Politico e accademico.</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-lorenzo-fioramonti-nessuna-sanzione-per-chi-spreca-nessun-incentivo-per-chi-rimette-in-circolo">Lorenzo Fioramonti: “Nessuna sanzione per chi spreca, nessun incentivo per chi rimette in circolo”</h2>



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<p><strong>Lei, da cittadino sensibile al tema e da politico attivista, sa darmi una spiegazione sensata al perché in Italia si fatichi ancora a rendere disponibile – e in totale sicurezza e salubrità – il cibo che avanza nei supermercati per via della scadenza e del termine minimo di conservazione?</strong></p>



<p>Cosa ne penso? Una follia, uno scaricabarile. E questo perché al supermercato non viene dato alcun incentivo economico o fiscale a fare un uso intelligente del cibo di cui dispone. Col mio gruppo politico più volte abbiamo proposto ai supermercati e alla grande distribuzione di invertire la logica anche sul discorso del 3&#215;2, provando a portarli verso l’1&#215;1: ma perché devo essere spinto a comprare tre se mi serve due? Perché devo comprare una cosa in più se me ne serve una in meno? Perché non iniziamo tutti a rifiutare queste spinte verso lo spreco inevitabile? Invece il consumo di massa è continuamente stimolato. Di fatto si tratterebbe di incentivare a livello economico e di prezzo e di fisco una politica dello sfuso che di certo richiederebbe una rieducazione del consumatore e una gestione più complessa, questo è indubbio. Ma il vantaggio sarebbe alla lunga collettivo. Così come è enorme l’impegno che serve da parte del supermercato se vuoi rimettere in circolo il cibo avanzato e ancora in buono stato: gli serve di certo un intermediario, che vuol dire costi a suo carico, visto che lo Stato è assente, a meno che non ci sia un soggetto parallelo, impresa o associazione, che si incarica di ritirare e rivendere.&nbsp;La verità è solo una: se butti, il nostro sistema fiscale non ti sanziona; se vuoi rimettere in circolo, devi sobbarcarti i costi senza incentivi.</p>



<p><strong>Lei è un economista prima ancora che un politico. Come si potrebbero influenzare diversamente i comportamenti delle persone di fronte al cibo?</strong></p>



<p>Sono tre le strade con cui i cittadini vengono portati a prendere decisioni: l’obbligo quindi la legge, l’incentivo quindi il fisco, la cultura quindi la consapevolezza. Sono indispensabili tutte e tre perché vanno a bilanciarsi laddove alcuni dei tre elementi scarseggiano. Nelle scuole va garantita sia cultura che convenienza economica; iniziai la mia battaglia da Ministro dell’Istruzione proponendo di alzare l’Iva su tutti i prodotti alimentari di cattiva qualità. Torno a battere sulla leva fiscale dato che in Italia siamo ancora al 22% sugli assorbenti e al 4% o 10% su prodotti che fanno male alla salute. A breve presenteremo una riforma fiscale su questo tema.</p>



<p><strong>Manca una lobby politica pura e seria, in Italia, che spinga verso un cambio di rotta culturale e anche economico a tutela del cibo e della salute. Perché?&nbsp;</strong></p>



<p>Per mia esperienza, portare nell’aula del Parlamento simili proposte in controtendenza vuol dire prendere schiaffi a destra e sinistra. Significa esporsi ad attacchi convergenti di gran parte dei partiti che tendono a ridicolizzare la questione della giusta alimentazione, che a cascata vuol dire anche tutela dell’ambiente. E ci sarebbe molto da dire anche sul legame tra editoria e industrie del cibo, dato che la maggior parte dei giornali e degli organi di informazione vive di pubblicità di prodotti e alimenti e bevande che, di certo, bene alla salute non fanno.</p>



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<h2 id="h-matteo-martini-presidente-frascati-scienza-ai-castelli-romani-una-silicon-valley-della-ricerca-sui-materiali-compostabili">Matteo Martini, presidente Frascati Scienza: “Ai Castelli Romani una Silicon Valley della ricerca sui materiali compostabili”</h2>



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<p><strong>Matteo Martini</strong> è il presidente di Frascati Scienza e, appena posso, lo sento per avere un suo parere su temi di attualità riletti con un occhio tecnico ma estremamente divulgativo di cui lui e il suo team sono maestri. L’ho raggiunto al telefono mentre chiudevamo in redazione il timone di questo mensile dedicato all’industria del cibo. Ero partita dall’idea del <strong>packaging</strong> dei prodotti, dal peso degli <strong>imballaggi</strong>: bolle qualcosa in pentola di innovativo e rivoluzionario?</p>



<p>“Quando parliamo di <strong>materiale biodegradabile</strong> e comunque compostabile, dobbiamo tenere a mente che dal punto di vista scientifico questi materiali hanno richieste molto stringenti e particolari; soprattutto per le applicazioni alimentari, questi materiali devono avere un’ottima resistenza sia alle alte che alle basse temperature. Inoltre devono avere una importante inerzia chimico-fisica, cioè non si devono modificare e non devono contaminare i cibi contenuti. Poi devono potersi dissolvere in mare. È fondamentale anche l’educazione delle persone, perché pensare che il materiale è compostabile non vuol dire che posso buttarlo in mezzo all’ambiente: molto spesso quei materiali sono compostabili sopra una certa temperatura, quindi è importante che il materiale sia riciclato in maniera corretta dopo essere stato buttato come rifiuto in maniera corretta.”</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/matteo-martini.jpg"><img width="1024" height="767" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/matteo-martini-1024x767.jpg" alt="" class="wp-image-45290" /></a><figcaption>Il presidente di Frascati Scienza Matteo Martini.</figcaption></figure>



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<p>“Nell’ottica dell’economia circolare, è quindi <strong>fondamentale usare materiali di scarto</strong>. Nell’area di ricerca Tuscolana, noi qui a Frascati e comunque nella zona dei Castelli Romani abbiamo la fortuna di ospitare le sedi dei più importanti enti di ricerca, dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare all’ENEA, dall’Agenzia Spaziale Europea al CNR. Questo è uno dei poli più importanti d’Europa per numero di ricercatori e per attività scientifica: col progetto DTT, che è un progetto ENEA per la fusione nucleare, ed Eupraxia, altra ricerca sul futuro degli acceleratori di particelle, siamo una sorta di <strong>Silicon Valley dei Castelli Romani</strong>. Dico questo perché, in questa logica dell’innovazione, è importante fare anche applicazioni dei materiali, e quindi avere risultati e leggerli nella ricaduta nella vita di tutti i giorni.”</p>



<p>“Vogliamo creare incubatori che servano a promuovere l’apprendimento dei nostri ragazzi soprattutto stimolando la nascita di <strong>startup e di progetti intorno ai materiali compostabili</strong>, appunto, per applicazioni <strong>alimentari</strong>. È un aspetto estremamente importante che racchiude non solo scienze di base e non solo la ricerca applicata, ma soprattutto è importante in ottica di uno sviluppo sostenibile incentrato intorno a un concetto di economia circolare.”</p>



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<h2 id="h-il-gelato-sostenibile-di-dario-rossi-niente-plastica-n-polistirolo-una-predica-nel-deserto">Il gelato sostenibile di Dario Rossi: niente plastica né polistirolo. Una predica nel deserto?</h2>



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<p>La voce di chi lavora tutti i giorni tra <strong>cibo e rifiuti da gestire</strong> è l’altra faccia della medaglia.</p>



<p>È nel quotidiano e all’atto pratico che un Paese misura davvero il senso dello straparlare di sostenibilità.&nbsp;</p>



<p>Anche <strong>Dario Rossi</strong> è un nome di imprenditore legato cuore e testa a Frascati. Dalla sua gelateria Greed ormai da anni ha stravinto la sfida di portare residenti, turisti e stranieri verso un <strong>consumo intelligente del prodotto</strong>. Diciamo che, mentre fa i gelati, fa pure cultura al cono e in coppetta in una logica di estrema purezza degli ingredienti e di rieducazione al consumo.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/greed.jpg"><img width="770" height="513" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/greed.jpg" alt="" class="wp-image-45169" /></a><figcaption>Dario Rossi al bancone della sua gelateria Greed, a Frascati.</figcaption></figure></div>



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<p>“Sono anni che cerco di portare avanti il <strong>compostabile</strong> e <strong>biodegradabile</strong> eliminando plastica e tutto ciò che non va nell’organico. Inizialmente tutto il rifiuto del mio lavoro andava nell’indifferenziato appunto perché retava residuo di cibo. Appena ho potuto, anni fa ho anche eliminato il polistirolo, al punto che il rivenditore delle vaschette compostabili mi disse che ero stato il primo su Roma. Però non posso nasconderti le difficoltà: i <strong>costi</strong> delle vaschette, che erano di per sé già assurdi, quest’anno sono <strong>aumentati del 20%</strong>.”</p>



<p>“Una piccola realtà come la mia fa fatica, e molti miei colleghi che avevo convinto sono già tornati indietro anche a fronte dei margini sul gelato rimasti del tutto invariati. Qui in Italia quando si parla di sostenibilità si parla magari solo di sconti sulle automobili, ma non si fanno mai ragionamenti seri di natura politica, economica e culturale sull’organico, che è la vera risorsa e il vero problema. <strong>Non possiamo continuare a retrocedere a favore della plastica</strong>”.</p>



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<p><em>Photo by <a href="https://unsplash.com/@marjan_blan?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Marjan Blan | @marjanblan</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/food-packaging?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></em></p>


L&#8217;ex ministro Lorenzo Fioramonti: &#8220;In Italia sprechiamo cibo perché non abbiamo incentivi fiscali. E, se butti, nessuno ti sanziona&#8221;

<p>«Un libro per chi pensa che il beta-carotene si prenda in pillole».</p>
<p>La frase era uscita sul Washington Post per recensire qualche anno fa il libro <em>Un piacere selvaggio</em> di Jo Robinson, da leggere e da tenere in cucina: uno snello manuale di guerriglia alimentare per aprire gli occhi senza farsi abbagliare dall’ardore integralista. </p>
<p>Il paradosso è che, a livello di massa, l’industria del cibo ha soppiantato il cibo stesso anche se continuiamo a fingere di non accorgercene. Ci siamo fatti convincere che consumare fosse più importante del nutrire e che guardare il cibo fosse più gratificante del gustare; i social e i media hanno poi messo il carico sulle logiche deviate che il mercato aveva già imposto.</p>
<p>Sul cibo si scrivono fiumi di libri, si&nbsp;realizzano serie televisive, ci si fanno i talent show, ci si consumano milioni di selfie al giorno. Gli italiani parlano di cibo anche mentre sono in tavola a mangiare; ho un&#8217;amica austriaca, sposata con un italiano, che dopo quindici anni mi fa ancora la battuta.</p>
<p><em>Mangio dunque sono</em> era un&#8217;altra storia: oggi Feuerbach avrebbe seri problemi a prendere una posizione tanto forte. Se ci dovessimo dare un’identità a partire dal cibo, ne usciremmo quasi tutti con le ossa rotte e sarebbe un po&#8217; colpa anche del poco calcio rimasto nei prodotti. </p>
<p>Il punto è un altro: è tempo di spostare l&#8217;attenzione sui grandi volumi e sui grandi numeri. La storia del chilometro zero e della filiera corta non fa una piega nella misura in cui diventa stimolo per mettere all&#8217;angolo la grande industria e costringerla a ragionare non solo per scontistica e profitti ma per consapevolezza e pretesa dei consumatori. Se le parole parlano, dovremmo imparare ad essere più mangiatori che consumatori.</p>
<p>Dietro il cibo c&#8217;è molto di più di quanto riportato per legge in etichetta.</p>
<p>C&#8217;è il caporalato.</p>
<p>C&#8217;è il benessere o il malessere animale.</p>
<p>C&#8217;è lo spreco e c&#8217;è il rifiuto.</p>
<p>C&#8217;è l&#8217;ignoranza quasi collettiva dei giornalisti di settore.</p>
<p>C&#8217;è il disconoscimento di genere.</p>
<p>C&#8217;è la trappola mentale nel nome di bio.</p>
<p>C&#8217;è una catena del lavoro che scompare sottotraccia.</p>
<p>C&#8217;è la guerra delle associazioni di categoria e delle lobby.</p>
<p>C&#8217;è anche chi l&#8217;industria del cibo la nobilita ogni giorno e merita di essere detto.</p>
<p>Iniziare a informarsi, a chiedere e a capire sarebbe l&#8217;atteggiamento giusto: <em>SenzaFiltro</em> un&#8217;occasione ve la offre.</p>
<p><em>Mangiare meglio per credere meno alle menzogne</em> sarebbe stato il titolo migliore per questo mensile ma indubbiamente troppo lungo. E nel giornalismo digitale, come per la UE che fa le pulci a lunghezze e diametri tra pesca e ortaggi, le dimensioni contano.</p>


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Stefania Zolotti

Direttrice responsabile di SenzaFiltro e giornalista con il debole per le relazioni e le persone. Studiosa e appassionata di geografie umane e di paesi. Con la laurea in giurisprudenza non ha mai intrapreso le classiche strade: l&#8217;unico ufficio legale in cui ha lavorato è stato quello di Altroconsumo a Milano dal 2001 al 2003, con una parentesi nella sede di Bolzano grazie al patentino di bilinguismo tedesco. Dal 2002 Collabora come freelance con la rivista Business People e dal 2023 con Artribune dove racconta storie italiane di teatri di periferia. &#8220;Sentimenti precisi&#8221; è il nome del progetto con cui dal 2021 gira l&#8217;Italia tenendo laboratori contro i blocchi della scrittura: lo fa per aziende, associazioni, scuole, singole persone e gruppi. Dal 2008 al 2017 Responsabile Comunicazione e Segretaria di direzione per una grande azienda pubblica del settore ambiente dove ha sviluppato progetti di green marketing e di educazione sostenibile. Dal 2012 contribuisce a creare e coordinare progetti per la business community FiordiRisorse, che è anche l&#8217;Associazione editrice di SenzaFiltro. Autrice del libro &#8220;Ti fai male&#8221; (2020), romanzo generazionale scritto inizialmente come ghostwriter. Ha lavorato per 20 anni come giornalista nel campo del vino e del cibo collaborando con le principali testate nazionali e pubblicando due libri: &#8220;Vino a doppio senso. Guida ironica per uomini e donne&#8221; (Gabrio Marinelli Editore, 2006) e &#8220;Il Bicchiere mezzo pieno. Liberarsi dagli esperti è il primo passo per bere bene&#8221; (Le Lettere, 2020). L&#8217;ultimo libro, di cui è curatrice, è &#8220;Coaching, maneggiare con cura&#8221; di Carlo Bisi (Edizioni FiordiRisorse, 2023). &nbsp; E-mail: stefania.z@fiordirisorse.eu

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Editoriale 104. Mangiare per credere

«Un libro per chi pensa che il beta-carotene si prenda in pillole». La frase era uscita sul Washington Post per recensire qualche anno fa il libro Un piacere selvaggio di Jo Robinson, da leggere e da tenere in cucina: uno snello manuale di guerriglia alimentare per aprire gli occhi senza farsi abbagliare dall’ardore integralista. Il [&hellip;]

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<p>«Un libro per chi pensa che il beta-carotene si prenda in pillole».</p>



<p>La frase era uscita sul Washington Post per recensire qualche anno fa il libro <em>Un piacere selvaggio</em> di Jo Robinson, da leggere e da tenere in cucina: uno snello manuale di guerriglia alimentare per aprire gli occhi senza farsi abbagliare dall’ardore integralista. </p>



<p>Il paradosso è che, a livello di massa, l’industria del cibo ha soppiantato il cibo stesso anche se continuiamo a fingere di non accorgercene. Ci siamo fatti convincere che consumare fosse più importante del nutrire e che guardare il cibo fosse più gratificante del gustare; i social e i media hanno poi messo il carico sulle logiche deviate che il mercato aveva già imposto.</p>



<p>Sul cibo si scrivono fiumi di libri, si&nbsp;realizzano serie televisive, ci si fanno i talent show, ci si consumano milioni di selfie al giorno. Gli italiani parlano di cibo anche mentre sono in tavola a mangiare; ho un&#8217;amica austriaca, sposata con un italiano, che dopo quindici anni mi fa ancora la battuta.</p>



<p><em>Mangio dunque sono</em> era un&#8217;altra storia: oggi Feuerbach avrebbe seri problemi a prendere una posizione tanto forte. Se ci dovessimo dare un’identità a partire dal cibo, ne usciremmo quasi tutti con le ossa rotte e sarebbe un po&#8217; colpa anche del poco calcio rimasto nei prodotti. </p>



<p>Il punto è un altro: è tempo di spostare l&#8217;attenzione sui grandi volumi e sui grandi numeri. La storia del chilometro zero e della filiera corta non fa una piega nella misura in cui diventa stimolo per mettere all&#8217;angolo la grande industria e costringerla a ragionare non solo per scontistica e profitti ma per consapevolezza e pretesa dei consumatori. Se le parole parlano, dovremmo imparare ad essere più mangiatori che consumatori.</p>



<p>Dietro il cibo c&#8217;è molto di più di quanto riportato per legge in etichetta.</p>



<p>C&#8217;è il caporalato.</p>



<p>C&#8217;è il benessere o il malessere animale.</p>



<p>C&#8217;è lo spreco e c&#8217;è il rifiuto.</p>



<p>C&#8217;è l&#8217;ignoranza quasi collettiva dei giornalisti di settore.</p>



<p>C&#8217;è il disconoscimento di genere.</p>



<p>C&#8217;è la trappola mentale nel nome di bio.</p>



<p>C&#8217;è una catena del lavoro che scompare sottotraccia.</p>



<p>C&#8217;è la guerra delle associazioni di categoria e delle lobby.</p>



<p>C&#8217;è anche chi l&#8217;industria del cibo la nobilita ogni giorno e merita di essere detto.</p>



<p>Iniziare a informarsi, a chiedere e a capire sarebbe l&#8217;atteggiamento giusto: <em>SenzaFiltro</em> un&#8217;occasione ve la offre.</p>



<p><em>Mangiare meglio per credere meno alle menzogne</em> sarebbe stato il titolo migliore per questo mensile ma indubbiamente troppo lungo. E nel giornalismo digitale, come per la UE che fa le pulci a lunghezze e diametri tra pesca e ortaggi, le dimensioni contano.</p>



<p>In Italia si comincia a parlarne, ma lei, in Germania, l’ha frequentata vent’anni fa e per questo suo ruolo da pioniera è nota ancor oggi. È la <strong>pastora italo-tedesca Cheyenne Daprà</strong>, la prima donna ad aver seguito la scuola di formazione nazionale per accedere a questa professione, superando l’esame di fine corso che constava in una transumanza nella Foresta Nera. Aveva 27 anni. Con lei un suo compagno di classe, una roulotte, ottocento pecore e un carrettino per caricare gli agnellini nati durante il viaggio.</p>



<p>La sua specialità è la cura e il mantenimento del territorio con le sue pecore, con le quali ha a lungo lavorato per molti Comuni di montagna in Trentino, e allo scadere del mandato nell’amministrazione, spiega, un reimpiego non manca mai, grazie alla sua competenza estesa alla transumanza. Oggi è infatti pastora e “<strong>influencer di gregge</strong>”, come è stata definita su Instagram. Il suo titolo e la sua esperienza, le consentirebbero inoltre di diventare <strong>mastro pastore</strong>, cioè di poter formare altri professionisti del campo. Se ci fosse una scuola nazionale, però, che invece non c’è.</p>



<p>Cosa comporta questo? “È un po’ <strong>come se il nostro mestiere non fosse riconosciuto</strong>”, dice Cheyenne. “Non essendoci una scuola non c’è titolo. Come se fossimo delegittimati, diciamo. Eppure c’è necessità di farlo, e ci sono molti giovani interessati al settore della pastorizia. Inutile dire che il lavoro richiede spirito di sacrificio, per prendersi un po’ di vacanza serve una grande pianificazione perché gli animali hanno bisogno di cibo e cure ogni giorno e necessita quindi un collega che ti sostituisca, ma personalmente non rimpiango niente della mia scelta. Anzi. Mi sento fortunata per aver capito sin da giovanissima quale era il mio lavoro”.</p>



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<h2 id="h-perch-i-giovani-scelgono-la-pastorizia-mestiere-antico-e-necessario">Perché i giovani scelgono la pastorizia, mestiere antico e necessario</h2>



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<p>Un sentire sempre più diffuso, il suo, anche se non sempre altrettanto immediato. Sono infatti numerosissimi i <strong>giovani</strong>, soprattutto donne, che a un certo punto hanno rovesciato il proprio stile di vita. Alcuni di loro hanno una laurea in tasca, hanno lasciato laboratori scientifici all’interno di centri oncologici, hanno abbandonato studi dentistici e di architettura, studi di grafica, centri di bellezza, e sono <strong>passati alla pastorizia</strong>, concentrandosi sempre su specie autoctone.</p>



<p>Hanno scelto la strada delle transumanze o dell’allevamento stanziale, insieme ai coniugi e ai figli che sono nati e cresciuti tra i colori e con i tempi della natura e degli animali. Altri si sono specializzati come allevatori in stabulazione libera al pascolo (cioè allevatori che portano gli animali allo stato brado, per sei mesi in montagna e per altri sei in pianura), o di vacche e capre da alpeggio. O ancora, nella transumanza motorizzata (cioè non a piedi ma attraverso il trasporto con autocarri, pratica cui si è dovuto fare spesso ricorso durante il lockdown per non alimentare assembramenti). C’è poi chi ha scelto l’allevamento bio di alta montagna, chi la produzione del formaggio di malga, chi la transumanza come valore turistico.</p>



<p>Le loro storie, alcune note, altre del tutto inedite, si snodano letteralmente lungo tutto lo stivale, mosse da un’unica forza comune: la passione. Per la terra, per l’ambiente, per gli animali. A volte dietro c’è una storia di tradizione di famiglia; più spesso la voglia di fare <strong>un mestiere cruciale per la sopravvivenza dell’uomo</strong>, eppure in qualche modo ignorato, sebbene mai come nel nostro tempo la ricerca di cibo davvero sano prodotto nel rispetto dei cicli della natura sia spasmodica.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Remigio.jpg"><img width="1024" height="647" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Remigio-1024x647.jpg" alt="" class="wp-image-45124" /></a></figure>



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<h2 id="h-da-scienze-alimentari-all-allevamento-in-montagna">Da Scienze Alimentari all’allevamento in montagna</h2>



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<p>“Se soltanto mio marito e io avessimo avuto alcune informazioni dodici anni fa, quando abbiamo cominciato, quanto tempo ed energie avremmo risparmiato”.</p>



<p>Così parla oggi <strong>Laura Masciocchi</strong>, che una dozzina di anni fa, con in tasca una laurea in Scienze Alimentari, è partita dalla sua Varese affacciata sul Lago Maggiore per un tirocinio estivo in un’azienda casearia di montagna. Qui si è innamorata del <strong>formaggio</strong>. Per imparare a farlo si è inscritta all’Università dei Mestieri di Moretta (CN), dove si è innamorata di <strong>Enrico</strong>, diventato suo marito. Ora vive con lui e i loro piccoli, Leandro, di quattro anni e mezzo, e Remigio, di venti mesi, a&nbsp;Pez di Ragoli, piccolissimo centro abitato nelle Valli Giudicarie in Trentino. Uno scampolo di paradiso condiviso con qualche centinaio di abitanti e tanti servizi a misura d’uomo.</p>



<p>La coppia racconta la trasversalità di questa professione, che li vede <strong>pastori ma anche imprenditori agricoli</strong>. “Abbiamo imparato molto negli anni – dice Laura – consultandoci continuamente con quelli che a suo tempo sono stati i nostri professori, e con l’esperienza. Abbiamo ampliato i nostri interessi, oggi abbiamo circa settanta capre, venti pecore da latte e da un paio di mesi anche due mucche, per diversificare e accontentare tutti i nostri clienti. Ma se avessimo potuto aver accesso a tante informazioni prima di ora, ad esempio su come integrare l’alimentazione delle pecore con i mangimi giusti, nei momenti giusti, avremmo potuto produrre latte e formaggio migliori e a costi molto minori da subito”.</p>



<p>Confermano con gioia la loro scelta Laura ed Enrico, che tra la natura e gli animali possono avere ogni pomeriggio i loro figli accanto. Neanche questo mondo incantato, bucolico, si salva però da uno dei grandi mali del nostro Paese: la <strong>burocrazia</strong>. “Servono registratori di cassa elettronici che richiedono per la chiusura una linea internet, non sempre piena tra le nostre montagne”, spiega Laura. “E poi i sistemi di etichettatura, i tanti certificati, i permessi per gli spostamenti. La burocrazia richiede anche a noi tantissimo tempo”.</p>



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<h2 id="h-nicolda-di-niro-cos-abbiamo-preservato-la-pratica-della-transumanza">Nicolda Di Niro: “Così abbiamo preservato la pratica della transumanza”</h2>



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<p>Ancora una volta la salvezza di certe straordinarie eccellenze parte dal basso, come ci dimostra <strong>Nicola Di Niro</strong>, coordinatore del progetto internazionale che ha portato alla candidatura, e poi nel 2019 all’inserimento, della <strong>transumanza</strong> nella lista del <strong>patrimonio culturale immateriale dell’Unesco</strong>.</p>



<p>“Tutto è cominciato – spiega Di Niro – quando nei primi anni del 2000 ho assistito alla transumanza a piedi dell’ultima famiglia molisana che eseguiva questa pratica. Circa quattrocento capi di razza bovina podolica, che transumano dal tavoliere delle Puglie a Frosolone (Isernia) anche grazie alla <strong>prima donna pastore d’Italia</strong> che si è <strong>cimentata in questa pratica</strong>, <strong>Carmelina Colantuono</strong>. Un’icona per noi. Un totale di 180 km in cinque giorni, partendo con l’ultima luna piena di maggio. Un lavoro duro, difficile, specie per coloro che scelgono l’allevamento estensivo, cioè lo stato brado, che per questo va valorizzato, protetto, sottoposto alla passione dei giovani.”</p>



<p>“Attualmente si sono aggiunte al nostro partenariato anche la Francia, la Spagna e altri Paesi, con i quali abbiamo esteso un <strong>piano di salvaguardia</strong> di questa attività, all’interno del quale prevediamo la creazione di una scuola internazionale, principalmente per appassionare le nuove generazioni. Con un programma decennale e un progetto correlato, stiamo cercando di partire dopo la battuta d’arresto a causa del COVID-19. L’anno prossimo dovrebbe essere quello buono.”</p>



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<h2 id="h-la-pastora-carmelina-colantuono-a-questo-mestiere-serve-una-scuola-e-meno-burocrazia">La pastora Carmelina Colantuono: “A questo mestiere serve una scuola. E meno burocrazia”</h2>



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<p>A chiudere il cerchio della nostra transumanza virtuale lungo la pastorizia ai giorni nostri, è proprio quell’iconica <strong>Carmelina</strong>, che con la sua testimonianza rinforza la <strong>necessità di una scuola nazionale normata</strong> e le difficoltà causate dalla morsa della burocrazia.</p>



<p>“Io ci sono arrivata per <strong>tradizione di famiglia</strong> – dice – e francamente non mi sento così tanti meriti quanto mi vengono accreditati, anche se per me è un grande onore. Certamente credo sia necessario aiutare i giovani ad approcciarsi&nbsp;a questo mestiere, chiamandolo prima di tutto col nome giusto: <strong>imprenditore agricolo</strong>, perché si fa davvero di tutto nel nostro mestiere. E poi con una formazione a tutto tondo, comprese le norme veterinarie di base, le tecniche più innovative con le quali è possibile migliorare molto&nbsp;l’allevamento,&nbsp;l’agricoltura.&nbsp;C’è&nbsp;molto da studiare e da apprendere.”</p>



<p>“Quanto alla burocrazia, è davvero molta. Dai permessi ai certificati da chiedere a tutti i Comuni che si attraverseranno durante la transumanza, perché chiaramente non possiamo transitare ovunque. Me ne occupo quasi esclusivamente io. Il carico è tale che, se così non fosse, i miei fratelli e nipoti, con i quali conduco l’azienda,&nbsp;non riuscirebbero a dedicarsi ad attività chiave”.&nbsp;</p>



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<p><em>In copertina Laura Masciocchi con il marito </em></p>


Pastore, femminile plurale

<p><strong>Lorenzo Fioramonti</strong>, che si forma e nasce come economista, molti lo ricordano senz’altro come Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca dal settembre 2019 nel secondo governo Conte. Il suo vangelo si chiama “<strong>economia del benessere</strong>” e lo incoraggia a istituzioni pubbliche e aziende per invertire un modello di crescita. Sua, poi, era stata la proposta della tassa di scopo sulle merendine e bibite gassate (la sugar tax sarà ufficialmente in vigore dal 1° gennaio 2022).</p>
<p>“Si parla tanto di degrado ambientale, perdita della biodiversità e cambiamenti climatici, ma pochi sanno che una delle principali cause è proprio l’<strong>industria del cibo</strong>: dagli allevamenti intensivi alle produzioni monocolturali, dall’olio di palma del sud-est asiatico fino alle piantagioni di riso, giusto per fare qualche esempio. Abbiamo creato un sistema dove anche la produzione di cibo diventa una minaccia alla sostenibilità della vita sul nostro pianeta. Non sto togliendo valore a cause ben pesanti come il petrolio o l’inquinamento dovuto al consumo di energia, però c’è <strong>un mondo che non viene messo davanti alla propria responsabilità</strong> e che, a conti fatti, pesa moltissimo già solo in termini di fertilizzanti, pesticidi, consumo massivo di acqua”.&nbsp;</p>
<p>Oltre a questo, l’altro paradosso che circa il <strong>30% del cibo che produciamo</strong> viene scartato, <strong>buttato</strong>, ritenuto non idoneo al commercio per standard estetici. Che sommato all’altro <strong>25% circa</strong> <strong>di media nazionale</strong> di rifiuto organico che viene disperso nei rifiuti indifferenziati rende l’idea dell’immensità del danno.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Lorenzo-Fioramonti-Hi-Res-Mar-2019-IV.jpeg"><img loading="lazy" decoding="async" width="682" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Lorenzo-Fioramonti-Hi-Res-Mar-2019-IV-682x1024.jpeg" alt="" class="wp-image-45208" /></a><figcaption>L&#8217;Onorevole Lorenzo Fioramonti, ex Ministro dell&#8217;Istruzione, università e ricerca. Politico e accademico.</figcaption></figure>
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<h2 id="h-lorenzo-fioramonti-nessuna-sanzione-per-chi-spreca-nessun-incentivo-per-chi-rimette-in-circolo">Lorenzo Fioramonti: “Nessuna sanzione per chi spreca, nessun incentivo per chi rimette in circolo”</h2>
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<p><strong>Lei, da cittadino sensibile al tema e da politico attivista, sa darmi una spiegazione sensata al perché in Italia si fatichi ancora a rendere disponibile – e in totale sicurezza e salubrità – il cibo che avanza nei supermercati per via della scadenza e del termine minimo di conservazione?</strong></p>
<p>Cosa ne penso? Una follia, uno scaricabarile. E questo perché al supermercato non viene dato alcun incentivo economico o fiscale a fare un uso intelligente del cibo di cui dispone. Col mio gruppo politico più volte abbiamo proposto ai supermercati e alla grande distribuzione di invertire la logica anche sul discorso del 3&#215;2, provando a portarli verso l’1&#215;1: ma perché devo essere spinto a comprare tre se mi serve due? Perché devo comprare una cosa in più se me ne serve una in meno? Perché non iniziamo tutti a rifiutare queste spinte verso lo spreco inevitabile? Invece il consumo di massa è continuamente stimolato. Di fatto si tratterebbe di incentivare a livello economico e di prezzo e di fisco una politica dello sfuso che di certo richiederebbe una rieducazione del consumatore e una gestione più complessa, questo è indubbio. Ma il vantaggio sarebbe alla lunga collettivo. Così come è enorme l’impegno che serve da parte del supermercato se vuoi rimettere in circolo il cibo avanzato e ancora in buono stato: gli serve di certo un intermediario, che vuol dire costi a suo carico, visto che lo Stato è assente, a meno che non ci sia un soggetto parallelo, impresa o associazione, che si incarica di ritirare e rivendere.&nbsp;La verità è solo una: se butti, il nostro sistema fiscale non ti sanziona; se vuoi rimettere in circolo, devi sobbarcarti i costi senza incentivi.</p>
<p><strong>Lei è un economista prima ancora che un politico. Come si potrebbero influenzare diversamente i comportamenti delle persone di fronte al cibo?</strong></p>
<p>Sono tre le strade con cui i cittadini vengono portati a prendere decisioni: l’obbligo quindi la legge, l’incentivo quindi il fisco, la cultura quindi la consapevolezza. Sono indispensabili tutte e tre perché vanno a bilanciarsi laddove alcuni dei tre elementi scarseggiano. Nelle scuole va garantita sia cultura che convenienza economica; iniziai la mia battaglia da Ministro dell’Istruzione proponendo di alzare l’Iva su tutti i prodotti alimentari di cattiva qualità. Torno a battere sulla leva fiscale dato che in Italia siamo ancora al 22% sugli assorbenti e al 4% o 10% su prodotti che fanno male alla salute. A breve presenteremo una riforma fiscale su questo tema.</p>
<p><strong>Manca una lobby politica pura e seria, in Italia, che spinga verso un cambio di rotta culturale e anche economico a tutela del cibo e della salute. Perché?&nbsp;</strong></p>
<p>Per mia esperienza, portare nell’aula del Parlamento simili proposte in controtendenza vuol dire prendere schiaffi a destra e sinistra. Significa esporsi ad attacchi convergenti di gran parte dei partiti che tendono a ridicolizzare la questione della giusta alimentazione, che a cascata vuol dire anche tutela dell’ambiente. E ci sarebbe molto da dire anche sul legame tra editoria e industrie del cibo, dato che la maggior parte dei giornali e degli organi di informazione vive di pubblicità di prodotti e alimenti e bevande che, di certo, bene alla salute non fanno.</p>
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<h2 id="h-matteo-martini-presidente-frascati-scienza-ai-castelli-romani-una-silicon-valley-della-ricerca-sui-materiali-compostabili">Matteo Martini, presidente Frascati Scienza: “Ai Castelli Romani una Silicon Valley della ricerca sui materiali compostabili”</h2>
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<p><strong>Matteo Martini</strong> è il presidente di Frascati Scienza e, appena posso, lo sento per avere un suo parere su temi di attualità riletti con un occhio tecnico ma estremamente divulgativo di cui lui e il suo team sono maestri. L’ho raggiunto al telefono mentre chiudevamo in redazione il timone di questo mensile dedicato all’industria del cibo. Ero partita dall’idea del <strong>packaging</strong> dei prodotti, dal peso degli <strong>imballaggi</strong>: bolle qualcosa in pentola di innovativo e rivoluzionario?</p>
<p>“Quando parliamo di <strong>materiale biodegradabile</strong> e comunque compostabile, dobbiamo tenere a mente che dal punto di vista scientifico questi materiali hanno richieste molto stringenti e particolari; soprattutto per le applicazioni alimentari, questi materiali devono avere un’ottima resistenza sia alle alte che alle basse temperature. Inoltre devono avere una importante inerzia chimico-fisica, cioè non si devono modificare e non devono contaminare i cibi contenuti. Poi devono potersi dissolvere in mare. È fondamentale anche l’educazione delle persone, perché pensare che il materiale è compostabile non vuol dire che posso buttarlo in mezzo all’ambiente: molto spesso quei materiali sono compostabili sopra una certa temperatura, quindi è importante che il materiale sia riciclato in maniera corretta dopo essere stato buttato come rifiuto in maniera corretta.”</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/matteo-martini.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="767" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/matteo-martini-1024x767.jpg" alt="" class="wp-image-45290" /></a><figcaption>Il presidente di Frascati Scienza Matteo Martini.</figcaption></figure>
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<p>“Nell’ottica dell’economia circolare, è quindi <strong>fondamentale usare materiali di scarto</strong>. Nell’area di ricerca Tuscolana, noi qui a Frascati e comunque nella zona dei Castelli Romani abbiamo la fortuna di ospitare le sedi dei più importanti enti di ricerca, dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare all’ENEA, dall’Agenzia Spaziale Europea al CNR. Questo è uno dei poli più importanti d’Europa per numero di ricercatori e per attività scientifica: col progetto DTT, che è un progetto ENEA per la fusione nucleare, ed Eupraxia, altra ricerca sul futuro degli acceleratori di particelle, siamo una sorta di <strong>Silicon Valley dei Castelli Romani</strong>. Dico questo perché, in questa logica dell’innovazione, è importante fare anche applicazioni dei materiali, e quindi avere risultati e leggerli nella ricaduta nella vita di tutti i giorni.”</p>
<p>“Vogliamo creare incubatori che servano a promuovere l’apprendimento dei nostri ragazzi soprattutto stimolando la nascita di <strong>startup e di progetti intorno ai materiali compostabili</strong>, appunto, per applicazioni <strong>alimentari</strong>. È un aspetto estremamente importante che racchiude non solo scienze di base e non solo la ricerca applicata, ma soprattutto è importante in ottica di uno sviluppo sostenibile incentrato intorno a un concetto di economia circolare.”</p>
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<h2 id="h-il-gelato-sostenibile-di-dario-rossi-niente-plastica-n-polistirolo-una-predica-nel-deserto">Il gelato sostenibile di Dario Rossi: niente plastica né polistirolo. Una predica nel deserto?</h2>
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<p>La voce di chi lavora tutti i giorni tra <strong>cibo e rifiuti da gestire</strong> è l’altra faccia della medaglia.</p>
<p>È nel quotidiano e all’atto pratico che un Paese misura davvero il senso dello straparlare di sostenibilità.&nbsp;</p>
<p>Anche <strong>Dario Rossi</strong> è un nome di imprenditore legato cuore e testa a Frascati. Dalla sua gelateria Greed ormai da anni ha stravinto la sfida di portare residenti, turisti e stranieri verso un <strong>consumo intelligente del prodotto</strong>. Diciamo che, mentre fa i gelati, fa pure cultura al cono e in coppetta in una logica di estrema purezza degli ingredienti e di rieducazione al consumo.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/greed.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="770" height="513" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/greed.jpg" alt="" class="wp-image-45169" /></a><figcaption>Dario Rossi al bancone della sua gelateria Greed, a Frascati.</figcaption></figure>
</div>
<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p>“Sono anni che cerco di portare avanti il <strong>compostabile</strong> e <strong>biodegradabile</strong> eliminando plastica e tutto ciò che non va nell’organico. Inizialmente tutto il rifiuto del mio lavoro andava nell’indifferenziato appunto perché retava residuo di cibo. Appena ho potuto, anni fa ho anche eliminato il polistirolo, al punto che il rivenditore delle vaschette compostabili mi disse che ero stato il primo su Roma. Però non posso nasconderti le difficoltà: i <strong>costi</strong> delle vaschette, che erano di per sé già assurdi, quest’anno sono <strong>aumentati del 20%</strong>.”</p>
<p>“Una piccola realtà come la mia fa fatica, e molti miei colleghi che avevo convinto sono già tornati indietro anche a fronte dei margini sul gelato rimasti del tutto invariati. Qui in Italia quando si parla di sostenibilità si parla magari solo di sconti sulle automobili, ma non si fanno mai ragionamenti seri di natura politica, economica e culturale sull’organico, che è la vera risorsa e il vero problema. <strong>Non possiamo continuare a retrocedere a favore della plastica</strong>”.</p>
<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p><em>Photo by <a href="https://unsplash.com/@marjan_blan?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Marjan Blan | @marjanblan</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/food-packaging?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></em></p>


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Il peccato originale del settore alimentare è lo spreco, di cibo e di materiali. Osserviamo le strategie per ridurlo o eliminarlo col politico Lorenzo Fioramonti, il presidente di Frascati Scienza Matteo Martini e l&#8217;imprenditore Dario Rossi.

L&#8217;ex ministro Lorenzo Fioramonti: &#8220;In Italia sprechiamo cibo perché non abbiamo incentivi fiscali. E, se butti, nessuno ti sanziona&#8221; - Informazione senza filtro

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<p>Bastano cinque colori e cinque lettere per dividere l’Europa, e l’Italia, in materia di cibo. Sono quelli che compongono il cosiddetto <strong>Nutri-Score, il sistema di etichettatura francese </strong>da qualche mese al centro di un acceso dibattito internazionale, e non solo.</p>



<p>Motivo del contendere, la possibilità che proprio il Nutri-Score venga eletto come schema “frontale” (in inglese “FOPL”, acronimo di <em>Front-Of-Pack Labeling</em>) unico a livello europeo, in aggiunta alle informazioni nutrizionali obbligatorie già presenti sul retro della confezione.</p>



<p>Tra le ragioni di favorevoli e non ci sono gli interessi dei consumatori e la necessità di orientarne correttamente le scelte d&#8217;acquisto verso un regime alimentare sano.</p>



<p>Anche <strong>l’Italia, formalmente contraria</strong> al Nutri-Score e già autrice di una proposta alternativa in sede europea, è attraversata dalle medesime questioni, a cui si aggiungono i timori per le conseguenze economiche che questo sistema potrebbe avere sul Made in Italy e sulla filiera produttiva.</p>



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<h2 id="h-nutri-score-che-cos-e-perch-l-italia-si-oppone-al-sistema-francese">Nutri-Score: che cos’è e perché l’Italia si oppone al sistema francese</h2>



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<p>Formulato nel 2017 dagli epidemiologi francesi <strong>Serge Hercberg</strong> e <strong>Chantal Julia</strong>, il Nutri-Score calcola il valore nutrizionale di alimenti e bevande sulla base di fattori negativi come calorie, zuccheri, grassi saturi, sodio e caratteristiche positive (contenuto di frutta e frutta secca, verdure, fibre e proteine) per 100 grammi di prodotto. Il risultato è <strong>un punteggio che combina lettere e colori</strong>: dalla A verde scuro (“più salutare”) alla E rossa (“meno salutare”).</p>



<p>Fortemente auspicato da colossi industriali come Danone e Nestlé, il Nutri-Score è già stato adottato da Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania e Spagna (anche se oggi appare meno sicura) che, supportati da numerosi studi sul campo, ne difendono l’efficacia e la facilità di interpretazione.</p>



<p>Proprio quest’ultimo è l’aspetto maggiormente criticato da rappresentanti politici e portavoce dell’imprenditoria agroalimentare italiani. “Il Nutri-score è un bigino dell’alimentazione”, afferma <strong>Lorenzo Bazzana</strong>, responsabile economico di Coldiretti, che reputa la sintesi grafica proposta dall’etichettatura francese “profondamente sbagliata e fuorviante per il consumatore”. La valutazione così formulata, su una quantità standard di 100 grammi invece che su quella effettiva della confezione, finirebbe infatti per condizionare erroneamente i comportamenti d’acquisto. “A nessuno verrebbe in mente di scolarsi una bottiglia di olio extravergine di oliva”, prosegue, “ma se mi trovo un bollino rosso (<em>in quanto grasso vegetale, N.d.R.</em>) sono comunque meno propenso a comprarlo”.</p>



<p>E questo vale anche nel caso contrario: l’indicazione verde senza ulteriori specifiche potrebbe indurre a un <strong>consumo eccessivo e reiterato</strong>, con ricadute sulla salute dei singoli e, in ultimo, sull’industria alimentare.</p>



<p>“Questo è dannoso dal punto di vista dell’educazione del consumatore, che così viene indirizzato in modo semplicistico ed errato”, precisa <strong>Ivano Vacondio</strong>, presidente Federalimentare, “ma anche da quello delle aziende che potrebbero ritrovarsi a perdere fatturato sulla base di un indirizzo sbagliato. <strong>Chi vuole il Nutri-Score, del resto, ha anche interessi economici</strong>: vuole spingere determinati prodotti a discapito di altri, come per esempio le nostre eccellenze, famose e apprezzate in tutto il mondo”.</p>



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<h2 id="h-chi-ha-paura-di-nutri-score-escludere-i-prodotti-dop-e-igp-dall-etichettatura">Chi ha paura di Nutri-Score: escludere i prodotti DOP e IGP dall&#8217;etichettatura</h2>



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<p>Secondo il resoconto Ismea sugli scambi con l’estero, nonostante la pandemia, nel<strong> 2020 l’agroalimentare italiano </strong>ha superato i<strong> 46 miliardi di fatturato</strong>, contando per l’11% sulle esportazioni complessive nazionali. Tra i prodotti di punta anche la pasta di semola (+20%), le conserve di pomodoro (+9,7%), mele e uva da tavola (entrambe rispettivamente con un +13%), kiwi (+2,4%) e olio di oliva (+6,4%).</p>



<p>“L’etichetta Nutri-Score colpirebbe ingiustamente quasi l’85% della produzione italiana a denominazione di origine (DOP/IGP), che l’Europa è invece chiamata a tutelare” fa sapere Confeuro in un recente comunicato stampa.</p>



<p>Linea condivisa anche da chi, quella speciale produzione italiana, in parte la rappresenta. Risale allo scorso aprile la sottoscrizione di <strong>Alessio Mammi</strong>, assessore all’Agricoltura dell’Emilia-Romagna, alla raccolta firme “Semaforo rosso per il cibo Made in Italy? NO GRAZIE!” lanciata su Change.org.</p>



<p>“Etichettare prodotti di eccellenza come il ‘re dei formaggi’ o il prosciutto di Parma con un bollino rosso come se fossero cibi che mettono a rischio la salute è una vera e propria assurdità”, si legge sul sito della regione. Una regione che, da sola, vanta più di quaranta prodotti a marchio DOP o IGP.</p>



<p>Tra le ipotesi al vaglio per la tutela di queste categorie di alimenti c’è anche quella di <strong>escluderle del tutto dalla classificazione Nutri-Score</strong>, così come dall’alternativa italiana realizzata in risposta all’etichetta francese.</p>



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<h2 id="h-nutrinform-battery-l-alternativa-italiana-che-non-convince-le-associazioni-dei-consumatori">Nutrinform battery: l’alternativa italiana che non convince le associazioni dei consumatori</h2>



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<p>Si chiama <strong>Nutrinform Battery</strong> la controproposta sviluppata dal Governo italiano e presentata a gennaio 2020 alla Commissione Europea, dove ha raccolto il parere positivo di Romania, Repubblica Ceca, Cipro, Grecia e Ungheria. </p>



<p>Il simbolo che la contraddistingue è, come dice il nome, <strong>una batteria azzurra, ripetuta cinque volte</strong>: una per ognuno dei valori nutrizionali riportati, ovvero calorie, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale. La “carica” della pila, ovvero la quantità di energia o nutrienti contenuti, è espressa in percentuale in relazione alle assunzioni di riferimento europee e relativamente alla singola porzione. Gli stessi valori sono inoltre riportati in grammi per ciascuno dei cinque box.</p>



<p>Troppo ricca per dare una panoramica d’insieme immediata, senza indicatori cromatici chiari; troppo ambigua l’icona della pila che, contrariamente a quanto siamo abituati a pensare, in questo contesto più è carica e peggio è; troppo variabile il calcolo sulle singole porzioni di prodotto per consentire un paragone efficace, se non a seguito di un rapporto proporzionale che difficilmente l’acquirente si troverà a fare nel supermercato. Questi <strong>i dubbi di Altroconsumo, che boccia il sistema italiano</strong> ed è tra i primi ad aver siglato, insieme a oltre quattrocento esponenti internazionali di altre organizzazioni dei consumatori e della comunità scientifica, l’appello per l’implementazione del Nutri-Score indirizzato ai vertici europei lo scorso anno.</p>



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<h2 id="h-la-soluzione-un-etichetta-completa-e-tanta-educazione-alimentare">La soluzione? Un’etichetta completa e tanta educazione alimentare</h2>



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<p>Tra i firmatari dello stesso appello c’è anche <strong>Annamaria Colao</strong>, endocrinologa e titolare della Cattedra Unesco Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli, che avverte: “Da medico devo fare una premessa: <strong>ci stiamo avvicinando a grandi passi verso un mondo obeso</strong>, già a partire dall’infanzia”. I dati lo confermano: l’OMS ha stimato che nel 2016 il 39% della popolazione adulta mondiale era sovrappeso, con 650 milioni di persone obese. Numeri triplicati nel giro di quarant’anni.</p>



<p>“Questo”, prosegue Colao, “è un <strong>problema</strong> non solo di salute, ma <strong>economico e sociale</strong>”. L’obesità, spiega, incide in ogni aspetto della vita, compresi quelli professionali: “Si tratta di pazienti che lavorano con disagio perché hanno un’occupazione dello spazio diversa rispetto a un individuo magro, si muovono con difficoltà, fanno fatica ad andare a un teatro o a un cinema perché a volte la sedia gli è scomoda, e così via”.</p>



<p>Per questo è importante <strong>definire un sistema </strong>verificato che aiuti il consumatore nelle sue<strong> scelte alimentari</strong>, almeno quando va a fare la spesa. Il limite principale di Nutri-Score, a suo parere, è lo stesso evidenziato da chi gli si oppone: una sintesi eccessiva che rischia di non tenere conto di aspetti qualitativi importanti. Anche Colao cita l’esempio dell’olio d&#8217;oliva e la necessità di dare indicazioni che evitino sia il suo abuso, sia la sua totale eliminazione dalla dieta, comportamenti parimenti nocivi per la salute di chi lo consuma. E puntualizza: “Io ho firmato la petizione per chiedere che venisse formato un gruppo di lavoro a livello europeo sul tema del Nutri-Score, per svilupparlo ulteriormente in una versione evoluta e completa di tutte le informazioni che attengono a un regime alimentare bilanciato”.</p>



<p><strong>Una rete di professionisti della nutrizione</strong>, dunque, che a suo parere dovrebbe comprendere medici, ricercatori e anche economisti e istituzioni, <strong>ma non l’industria alimentare</strong>, perché, dice, “quando dietro a questi sistemi c’è qualcuno che potrebbe guadagnarci, il conflitto di interessi è troppo elevato per essere calcolato”. Certo, la salute dei consumatori deve rimanere il principio guida, “ma potendo”, chiosa Colao, “eviterei eventuali ingerenze ambigue al tavolo progettuale”.</p>



<p>Se l’adozione dell’una o dell’altra etichetta rimane un tema divisivo, ce n’è uno su cui appaiono tutti concordi: la necessità di un <strong>programma di educazione alimentare sofisticato</strong> e multilivello, capace di fornire gli strumenti giusti per una scelta che va ben oltre il carrello del supermercato.</p>



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<p><em>Foto di copertina di Imants Kaziļuns su Unsplash</em></p>


Nutri-Score, l&#8217;Italia passa col rosso al semaforo del cibo

<p>In Italia si comincia a parlarne, ma lei, in Germania, l’ha frequentata vent’anni fa e per questo suo ruolo da pioniera è nota ancor oggi. È la <strong>pastora italo-tedesca Cheyenne Daprà</strong>, la prima donna ad aver seguito la scuola di formazione nazionale per accedere a questa professione, superando l’esame di fine corso che constava in una transumanza nella Foresta Nera. Aveva 27 anni. Con lei un suo compagno di classe, una roulotte, ottocento pecore e un carrettino per caricare gli agnellini nati durante il viaggio.</p>
<p>La sua specialità è la cura e il mantenimento del territorio con le sue pecore, con le quali ha a lungo lavorato per molti Comuni di montagna in Trentino, e allo scadere del mandato nell’amministrazione, spiega, un reimpiego non manca mai, grazie alla sua competenza estesa alla transumanza. Oggi è infatti pastora e “<strong>influencer di gregge</strong>”, come è stata definita su Instagram. Il suo titolo e la sua esperienza, le consentirebbero inoltre di diventare <strong>mastro pastore</strong>, cioè di poter formare altri professionisti del campo. Se ci fosse una scuola nazionale, però, che invece non c’è.</p>
<p>Cosa comporta questo? “È un po’ <strong>come se il nostro mestiere non fosse riconosciuto</strong>”, dice Cheyenne. “Non essendoci una scuola non c’è titolo. Come se fossimo delegittimati, diciamo. Eppure c’è necessità di farlo, e ci sono molti giovani interessati al settore della pastorizia. Inutile dire che il lavoro richiede spirito di sacrificio, per prendersi un po’ di vacanza serve una grande pianificazione perché gli animali hanno bisogno di cibo e cure ogni giorno e necessita quindi un collega che ti sostituisca, ma personalmente non rimpiango niente della mia scelta. Anzi. Mi sento fortunata per aver capito sin da giovanissima quale era il mio lavoro”.</p>
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<h2 id="h-perch-i-giovani-scelgono-la-pastorizia-mestiere-antico-e-necessario">Perché i giovani scelgono la pastorizia, mestiere antico e necessario</h2>
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<p>Un sentire sempre più diffuso, il suo, anche se non sempre altrettanto immediato. Sono infatti numerosissimi i <strong>giovani</strong>, soprattutto donne, che a un certo punto hanno rovesciato il proprio stile di vita. Alcuni di loro hanno una laurea in tasca, hanno lasciato laboratori scientifici all’interno di centri oncologici, hanno abbandonato studi dentistici e di architettura, studi di grafica, centri di bellezza, e sono <strong>passati alla pastorizia</strong>, concentrandosi sempre su specie autoctone.</p>
<p>Hanno scelto la strada delle transumanze o dell’allevamento stanziale, insieme ai coniugi e ai figli che sono nati e cresciuti tra i colori e con i tempi della natura e degli animali. Altri si sono specializzati come allevatori in stabulazione libera al pascolo (cioè allevatori che portano gli animali allo stato brado, per sei mesi in montagna e per altri sei in pianura), o di vacche e capre da alpeggio. O ancora, nella transumanza motorizzata (cioè non a piedi ma attraverso il trasporto con autocarri, pratica cui si è dovuto fare spesso ricorso durante il lockdown per non alimentare assembramenti). C’è poi chi ha scelto l’allevamento bio di alta montagna, chi la produzione del formaggio di malga, chi la transumanza come valore turistico.</p>
<p>Le loro storie, alcune note, altre del tutto inedite, si snodano letteralmente lungo tutto lo stivale, mosse da un’unica forza comune: la passione. Per la terra, per l’ambiente, per gli animali. A volte dietro c’è una storia di tradizione di famiglia; più spesso la voglia di fare <strong>un mestiere cruciale per la sopravvivenza dell’uomo</strong>, eppure in qualche modo ignorato, sebbene mai come nel nostro tempo la ricerca di cibo davvero sano prodotto nel rispetto dei cicli della natura sia spasmodica.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Remigio.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="647" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Remigio-1024x647.jpg" alt="" class="wp-image-45124" /></a></figure>
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<h2 id="h-da-scienze-alimentari-all-allevamento-in-montagna">Da Scienze Alimentari all’allevamento in montagna</h2>
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<p>“Se soltanto mio marito e io avessimo avuto alcune informazioni dodici anni fa, quando abbiamo cominciato, quanto tempo ed energie avremmo risparmiato”.</p>
<p>Così parla oggi <strong>Laura Masciocchi</strong>, che una dozzina di anni fa, con in tasca una laurea in Scienze Alimentari, è partita dalla sua Varese affacciata sul Lago Maggiore per un tirocinio estivo in un’azienda casearia di montagna. Qui si è innamorata del <strong>formaggio</strong>. Per imparare a farlo si è inscritta all’Università dei Mestieri di Moretta (CN), dove si è innamorata di <strong>Enrico</strong>, diventato suo marito. Ora vive con lui e i loro piccoli, Leandro, di quattro anni e mezzo, e Remigio, di venti mesi, a&nbsp;Pez di Ragoli, piccolissimo centro abitato nelle Valli Giudicarie in Trentino. Uno scampolo di paradiso condiviso con qualche centinaio di abitanti e tanti servizi a misura d’uomo.</p>
<p>La coppia racconta la trasversalità di questa professione, che li vede <strong>pastori ma anche imprenditori agricoli</strong>. “Abbiamo imparato molto negli anni – dice Laura – consultandoci continuamente con quelli che a suo tempo sono stati i nostri professori, e con l’esperienza. Abbiamo ampliato i nostri interessi, oggi abbiamo circa settanta capre, venti pecore da latte e da un paio di mesi anche due mucche, per diversificare e accontentare tutti i nostri clienti. Ma se avessimo potuto aver accesso a tante informazioni prima di ora, ad esempio su come integrare l’alimentazione delle pecore con i mangimi giusti, nei momenti giusti, avremmo potuto produrre latte e formaggio migliori e a costi molto minori da subito”.</p>
<p>Confermano con gioia la loro scelta Laura ed Enrico, che tra la natura e gli animali possono avere ogni pomeriggio i loro figli accanto. Neanche questo mondo incantato, bucolico, si salva però da uno dei grandi mali del nostro Paese: la <strong>burocrazia</strong>. “Servono registratori di cassa elettronici che richiedono per la chiusura una linea internet, non sempre piena tra le nostre montagne”, spiega Laura. “E poi i sistemi di etichettatura, i tanti certificati, i permessi per gli spostamenti. La burocrazia richiede anche a noi tantissimo tempo”.</p>
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<h2 id="h-nicolda-di-niro-cos-abbiamo-preservato-la-pratica-della-transumanza">Nicolda Di Niro: “Così abbiamo preservato la pratica della transumanza”</h2>
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<p>Ancora una volta la salvezza di certe straordinarie eccellenze parte dal basso, come ci dimostra <strong>Nicola Di Niro</strong>, coordinatore del progetto internazionale che ha portato alla candidatura, e poi nel 2019 all’inserimento, della <strong>transumanza</strong> nella lista del <strong>patrimonio culturale immateriale dell’Unesco</strong>.</p>
<p>“Tutto è cominciato – spiega Di Niro – quando nei primi anni del 2000 ho assistito alla transumanza a piedi dell’ultima famiglia molisana che eseguiva questa pratica. Circa quattrocento capi di razza bovina podolica, che transumano dal tavoliere delle Puglie a Frosolone (Isernia) anche grazie alla <strong>prima donna pastore d’Italia</strong> che si è <strong>cimentata in questa pratica</strong>, <strong>Carmelina Colantuono</strong>. Un’icona per noi. Un totale di 180 km in cinque giorni, partendo con l’ultima luna piena di maggio. Un lavoro duro, difficile, specie per coloro che scelgono l’allevamento estensivo, cioè lo stato brado, che per questo va valorizzato, protetto, sottoposto alla passione dei giovani.”</p>
<p>“Attualmente si sono aggiunte al nostro partenariato anche la Francia, la Spagna e altri Paesi, con i quali abbiamo esteso un <strong>piano di salvaguardia</strong> di questa attività, all’interno del quale prevediamo la creazione di una scuola internazionale, principalmente per appassionare le nuove generazioni. Con un programma decennale e un progetto correlato, stiamo cercando di partire dopo la battuta d’arresto a causa del COVID-19. L’anno prossimo dovrebbe essere quello buono.”</p>
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<h2 id="h-la-pastora-carmelina-colantuono-a-questo-mestiere-serve-una-scuola-e-meno-burocrazia">La pastora Carmelina Colantuono: “A questo mestiere serve una scuola. E meno burocrazia”</h2>
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<p>A chiudere il cerchio della nostra transumanza virtuale lungo la pastorizia ai giorni nostri, è proprio quell’iconica <strong>Carmelina</strong>, che con la sua testimonianza rinforza la <strong>necessità di una scuola nazionale normata</strong> e le difficoltà causate dalla morsa della burocrazia.</p>
<p>“Io ci sono arrivata per <strong>tradizione di famiglia</strong> – dice – e francamente non mi sento così tanti meriti quanto mi vengono accreditati, anche se per me è un grande onore. Certamente credo sia necessario aiutare i giovani ad approcciarsi&nbsp;a questo mestiere, chiamandolo prima di tutto col nome giusto: <strong>imprenditore agricolo</strong>, perché si fa davvero di tutto nel nostro mestiere. E poi con una formazione a tutto tondo, comprese le norme veterinarie di base, le tecniche più innovative con le quali è possibile migliorare molto&nbsp;l’allevamento,&nbsp;l’agricoltura.&nbsp;C’è&nbsp;molto da studiare e da apprendere.”</p>
<p>“Quanto alla burocrazia, è davvero molta. Dai permessi ai certificati da chiedere a tutti i Comuni che si attraverseranno durante la transumanza, perché chiaramente non possiamo transitare ovunque. Me ne occupo quasi esclusivamente io. Il carico è tale che, se così non fosse, i miei fratelli e nipoti, con i quali conduco l’azienda,&nbsp;non riuscirebbero a dedicarsi ad attività chiave”.&nbsp;</p>
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<p><em>In copertina Laura Masciocchi con il marito </em></p>


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Michela-Danieli

Michela Danieli

E&#8217; giornalista professionista dal 2002 e titolare di tessera stampa internazionale dal 2012. Vive tra Padova e Stoccolma, da dove collabora con il Fatto Quotidiano dal 2013 e con Senza Filtro dal 2015. Il suo sguardo è rivolto, da sempre, all&#8217;inchiesta giornalistica evitata dagli altri, alla denuncia sociale, politica e di carattere economico. La definizione che pensa le rassomigli di più è quella attribuitale da una leggenda de Il Resto del Carlino: &#8220;Ragazza pericolosissima!

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Diversi giovani e donne scelgono di dedicarsi alla pastorizia, nel silenzio del mondo del lavoro e nell&#8217;assenza di scuole dedicate. Abbiamo raccolto le testimonianze di chi ha perseguito questa professione.

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<p>La pandemia ha fatto crescere la richiesta di <strong>informazione documentata sul cibo</strong>: uno dei tanti fenomeni da cui non torneremo più indietro. L’ignoranza che quasi tutti noi abbiamo sui temi alimentari con il lockdown si è fatta, timidamente, consapevolezza. E abbiamo voluto colmare questo buco.</p>



<p>L’informazione documentata non è solo un’informazione verificata attraverso l’incrocio delle fonti, ma è un’informazione che vuole essere di approfondimento; che spiega le premesse scientifiche e tecnologiche di un accadimento o di una tendenza. È un’informazione che parte dalla voglia di apprendere del giornalista.</p>



<p>Con il COVID-19 i cittadini hanno compreso quanto sia importante un’informazione da <strong>fonti affidabili</strong> (non è solo per la chiusura delle edicole che sono cresciuti gli abbonamenti ai quotidiani online). E hanno anche consumato molti più articoli divulgativi scientifici (non solo perché, nei lockdown, avevano tanto tempo per leggere).</p>



<p>La catastrofe sanitaria e la paura si sono portate dietro una <strong>domanda di comprensione scientifica e tecnologica</strong> che riguarda anche i <strong>temi alimentari</strong>. Un’esigenza che non verrà più abbandonata.</p>



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<h2 id="h-il-giornalismo-scientifico-del-cibo-richiesto-quanto-raro">Il giornalismo (scientifico) del cibo, richiesto quanto raro</h2>



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<p>Se i cittadini chiedono più servizi di divulgazione sui temi alimentari significa che un <strong>giornalista che scrive di cibo </strong>non può più limitarsi a “raccontare storie”.</p>



<p>Non basta più andare a visitare un ristorante, un’azienda orticola, una cantina per farsi dire come sono stati fondati, come lavorano e quali prodotti vendono. Quella del raccontare le storie dei prodotti e dei produttori è una frase tipica di presentazione da nuovo inserto di un quotidiano o di un convegno, ma <strong>lo storytelling </strong>(che nessuno ha mai capito davvero che cosa sia) <strong>non basta più</strong>.</p>



<p>In un passato ormai remoto il <strong>giornalismo del cibo</strong> era fatto da pochissimi fortunati che giravano i ristoranti per assaggiare e valutare. I compensi erano più che dignitosi: erano questi i collaboratori delle pagine speciali dei quotidiani e delle riviste che mettevano insieme anche libri, guide, eventi.</p>



<p>Oggi il panorama è affollato di <strong>freelance</strong> che cercano di stare a galla sognando un successo economico e di notorietà che non arriva, nel frattempo vendendo i servizi a costi ridicoli o, ancora più di frequente, pubblicando servizi sui propri siti web creati per promuoversi sul mercato della comunicazione. La scelta cade sempre sulla visita-racconto dell’azienda o del consorzio, dove il giornalista va a “scoprire” un prodotto. Vado, vedo, fotografo, scrivo. Così il web e i quotidiani si affollano di visitatori del cibo che non a caso possono scrivere di vino, salumi, pane e viaggi. A seconda di dove vengono invitati.</p>



<p>Sono davvero pochi i giornalisti che scrivono di <strong>cibo con un taglio scientifico</strong>. Sono pochi i giornalisti che per i loro servizi chiedono di visitare istituti di ricerca agricoli e alimentari, dipartimenti di agraria delle università, organismi a tutela della sicurezza alimentare, politecnici che si occupano di tecnologia del cibo, aziende sementiere che sperimentano nuove varietà… solo per citare alcune possibili fonti del <strong>giornalista divulgatore</strong>.</p>



<p>I cittadini stanno chiedendo un’informazione che spieghi come si coltiva o alleva una materia prima alimentare; come si estrae un ingrediente; come avviene una fermentazione, una distillazione, una caseificazione o come viene macellato un animale e come si frolla la sua carne. Alzi la mano chi legge normalmente articoli sui grandi siti di divulgazione dedicati a come agiscono i batteri sull’alimento scaduto, su come avviene l’uccisione di una vacca per favorire la successiva trasformazione chimica del muscolo in carne attraverso la frollatura. O chi ha letto delle micelle del latte che coagula in formaggio o di come si ottengono le bolle che si formano nel pane.</p>



<p>Un esempio può riguardare la frutta: se si tratta di frutta a marchio tipico si troveranno articoli sull’area geografica, con foto di colline verdi, contadini felici, cassette piene. Ma difficilmente si troveranno spiegazioni sugli innesti o sulle impollinazioni assistite che hanno portato alla selezione di quella varietà.</p>



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<h2 id="h-se-la-formazione-sul-cibo-costa-pi-del-cibo-stesso">Se la formazione sul cibo costa più del cibo stesso</h2>



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<p>Dunque mancano <strong>giornalisti</strong> “<strong>scientifici</strong>” <strong>del cibo</strong>, manca una figura giornalistica che si specializzi nella <strong>divulgazione alimentare</strong> come altri giornalisti si specializzano in sport, cronaca nera, economia, politica locale o nazionale. Una figura che sappia maneggiare agronomia, zootecnia, sicurezza alimentare, tecnologia alimentare ma anche ecologia, fisiologia (del gusto, dell’assimilazione dei nutrienti). Una figura che sia in grado di rispondere alle ansie sul cibo, che sia capace di inserirsi autorevolmente negli scontri tra le tribù del cibo, che non si fermi ai comunicati degli uffici stampa delle aziende e delle associazioni di categoria, ma che sia in grado di tenere testa a questi mondi pur avendoli tra le proprie fonti.</p>



<p>Invece il giornalista che “tiene testa” oggi è un “<strong>giornalista giustiziere</strong>”, una figura inutile anche per i movimenti di opinione che hanno bisogno di informazione verificata e di dati di prima raccolta per poi svolgere la loro funzione nella società. A un’associazione ambientalista non serve l’ennesimo articolo denuncia basato su dati discutibili postati da un’altra associazione ambientalista. Non serve il facile <strong>copia-incolla da comunicato stampa</strong> inserito in un articolo-editoriale.</p>



<p>All’associazione ambientalista, per stare sull’esempio, serve un giornalista che svolga una sua inchiesta, uno che ha un buon rapporto con fonti affidabili e che sia in grado di raccogliere i dati. E soprattutto un giornalista che sappia portare al militante base dell’associazione la conoscenza che altrimenti sta solo dentro le élite scientifiche. <strong>Serve un giornalista formato</strong>.</p>



<p>La formazione costa, è lunga e continua. Un giornalista formato sui temi alimentari deve leggere molto, deve parlare con mondi non sempre aperti alla comunicazione, deve partecipare a convegni specialistici, deve farsi invitare nei viaggi studio riservati, deve coltivare fonti scientifiche pubbliche e private. Questo modo di fare giornalismo costa molto a chi lo pratica e non è compensato da retribuzioni adeguate.</p>



<p>Ma se l’<strong>informazione sul cibo </strong>è un’esigenza sociale, che diventa economica quando i cittadini informati diventano consumatori consapevoli, è giusto che sia <strong>sostenuta dal pubblico</strong>.</p>



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<h2 id="h-la-comunicazione-del-cibo-deve-partire-dalle-scuole">La comunicazione del cibo deve partire dalle scuole</h2>



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<p>La <strong>qualità dell’informazione sul cibo</strong>, nel Paese del cibo, è un tema da Recovery Plan. È un obiettivo di sviluppo per una cittadinanza attiva e per l’immagine dell’Italia nel mondo. Un Paese con un grande cibo esportato in tutto il mondo dovrebbe investire anche nell’informazione alimentare ed esportare con il cibo anche la cultura della conoscenza delle materie prime e delle tecnologie.</p>



<p>Invece ci sono pochissimi master universitari dedicati alla comunicazione alimentare; nei master di giornalismo non viene trattato il giornalismo alimentare. Gli stessi eventi formativi approvati dall’Ordine dei giornalisti quasi non contemplano la materia alimentare.</p>



<p>E pensare che un po’ di <strong>comunicazione del cibo</strong> andrebbe insegnata già alle <strong>superiori</strong>, in quella fascia di età che è presente sui social e che padroneggia il prodotto video. Quando si entra in un istituto alberghiero o agrario invitati dagli insegnanti a parlare di comunicazione si capisce che i ragazzi, sempre connessi e consumatori di intrattenimento social, vorrebbero tanto imparare a gestire in modo professionale un proprio canale di comunicazione, anche in vista di un futuro lavoro nella ristorazione o nella vendita dei propri prodotti agricoli. Ma non hanno docenti e programmi che glielo sappiano insegnare.</p>



<p>Questi ragazzi formati nella comunicazione saranno anche meno vulnerabili nei confronti delle <strong>fake news</strong>, e saranno anche molto interessati a un’informazione di <strong>approfondimento</strong>. Una passione per la documentazione che potranno trasmettere anche ai loro clienti.</p>



<p>Serve quindi la mano del pubblico nelle università, nelle scuole, nei media. L’informazione scientifica, sanitaria e alimentare devono essere sostenute. Se è vero che l’informazione in sé è “bene comune”, ancora di più questo vale per l’informazione che avvicina i cittadini alla scienza, sconfigge l’antiscienza e il negazionismo, combatte l’alimentazione da sottrazione e le false credenze sui cibi.</p>



<p>Dopo la pandemia un sostegno alla formazione, alle testate, al <strong>ruolo dei giornalisti nelle scuole e nelle università</strong> è esigenza irrinunciabile.</p>



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<p><em>In copertina Foto di Colin Maynard su Unsplash</em></p>



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Giornalista, dimmi come mangio. L&#8217;informazione sul cibo di cui abbiamo bisogno

<p>Bastano cinque colori e cinque lettere per dividere l’Europa, e l’Italia, in materia di cibo. Sono quelli che compongono il cosiddetto <strong>Nutri-Score, il sistema di etichettatura francese </strong>da qualche mese al centro di un acceso dibattito internazionale, e non solo.</p>
<p>Motivo del contendere, la possibilità che proprio il Nutri-Score venga eletto come schema “frontale” (in inglese “FOPL”, acronimo di <em>Front-Of-Pack Labeling</em>) unico a livello europeo, in aggiunta alle informazioni nutrizionali obbligatorie già presenti sul retro della confezione.</p>
<p>Tra le ragioni di favorevoli e non ci sono gli interessi dei consumatori e la necessità di orientarne correttamente le scelte d&#8217;acquisto verso un regime alimentare sano.</p>
<p>Anche <strong>l’Italia, formalmente contraria</strong> al Nutri-Score e già autrice di una proposta alternativa in sede europea, è attraversata dalle medesime questioni, a cui si aggiungono i timori per le conseguenze economiche che questo sistema potrebbe avere sul Made in Italy e sulla filiera produttiva.</p>
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<h2 id="h-nutri-score-che-cos-e-perch-l-italia-si-oppone-al-sistema-francese">Nutri-Score: che cos’è e perché l’Italia si oppone al sistema francese</h2>
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<p>Formulato nel 2017 dagli epidemiologi francesi <strong>Serge Hercberg</strong> e <strong>Chantal Julia</strong>, il Nutri-Score calcola il valore nutrizionale di alimenti e bevande sulla base di fattori negativi come calorie, zuccheri, grassi saturi, sodio e caratteristiche positive (contenuto di frutta e frutta secca, verdure, fibre e proteine) per 100 grammi di prodotto. Il risultato è <strong>un punteggio che combina lettere e colori</strong>: dalla A verde scuro (“più salutare”) alla E rossa (“meno salutare”).</p>
<p>Fortemente auspicato da colossi industriali come Danone e Nestlé, il Nutri-Score è già stato adottato da Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania e Spagna (anche se oggi appare meno sicura) che, supportati da numerosi studi sul campo, ne difendono l’efficacia e la facilità di interpretazione.</p>
<p>Proprio quest’ultimo è l’aspetto maggiormente criticato da rappresentanti politici e portavoce dell’imprenditoria agroalimentare italiani. “Il Nutri-score è un bigino dell’alimentazione”, afferma <strong>Lorenzo Bazzana</strong>, responsabile economico di Coldiretti, che reputa la sintesi grafica proposta dall’etichettatura francese “profondamente sbagliata e fuorviante per il consumatore”. La valutazione così formulata, su una quantità standard di 100 grammi invece che su quella effettiva della confezione, finirebbe infatti per condizionare erroneamente i comportamenti d’acquisto. “A nessuno verrebbe in mente di scolarsi una bottiglia di olio extravergine di oliva”, prosegue, “ma se mi trovo un bollino rosso (<em>in quanto grasso vegetale, N.d.R.</em>) sono comunque meno propenso a comprarlo”.</p>
<p>E questo vale anche nel caso contrario: l’indicazione verde senza ulteriori specifiche potrebbe indurre a un <strong>consumo eccessivo e reiterato</strong>, con ricadute sulla salute dei singoli e, in ultimo, sull’industria alimentare.</p>
<p>“Questo è dannoso dal punto di vista dell’educazione del consumatore, che così viene indirizzato in modo semplicistico ed errato”, precisa <strong>Ivano Vacondio</strong>, presidente Federalimentare, “ma anche da quello delle aziende che potrebbero ritrovarsi a perdere fatturato sulla base di un indirizzo sbagliato. <strong>Chi vuole il Nutri-Score, del resto, ha anche interessi economici</strong>: vuole spingere determinati prodotti a discapito di altri, come per esempio le nostre eccellenze, famose e apprezzate in tutto il mondo”.</p>
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<h2 id="h-chi-ha-paura-di-nutri-score-escludere-i-prodotti-dop-e-igp-dall-etichettatura">Chi ha paura di Nutri-Score: escludere i prodotti DOP e IGP dall&#8217;etichettatura</h2>
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<p>Secondo il resoconto Ismea sugli scambi con l’estero, nonostante la pandemia, nel<strong> 2020 l’agroalimentare italiano </strong>ha superato i<strong> 46 miliardi di fatturato</strong>, contando per l’11% sulle esportazioni complessive nazionali. Tra i prodotti di punta anche la pasta di semola (+20%), le conserve di pomodoro (+9,7%), mele e uva da tavola (entrambe rispettivamente con un +13%), kiwi (+2,4%) e olio di oliva (+6,4%).</p>
<p>“L’etichetta Nutri-Score colpirebbe ingiustamente quasi l’85% della produzione italiana a denominazione di origine (DOP/IGP), che l’Europa è invece chiamata a tutelare” fa sapere Confeuro in un recente comunicato stampa.</p>
<p>Linea condivisa anche da chi, quella speciale produzione italiana, in parte la rappresenta. Risale allo scorso aprile la sottoscrizione di <strong>Alessio Mammi</strong>, assessore all’Agricoltura dell’Emilia-Romagna, alla raccolta firme “Semaforo rosso per il cibo Made in Italy? NO GRAZIE!” lanciata su Change.org.</p>
<p>“Etichettare prodotti di eccellenza come il ‘re dei formaggi’ o il prosciutto di Parma con un bollino rosso come se fossero cibi che mettono a rischio la salute è una vera e propria assurdità”, si legge sul sito della regione. Una regione che, da sola, vanta più di quaranta prodotti a marchio DOP o IGP.</p>
<p>Tra le ipotesi al vaglio per la tutela di queste categorie di alimenti c’è anche quella di <strong>escluderle del tutto dalla classificazione Nutri-Score</strong>, così come dall’alternativa italiana realizzata in risposta all’etichetta francese.</p>
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<h2 id="h-nutrinform-battery-l-alternativa-italiana-che-non-convince-le-associazioni-dei-consumatori">Nutrinform battery: l’alternativa italiana che non convince le associazioni dei consumatori</h2>
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<p>Si chiama <strong>Nutrinform Battery</strong> la controproposta sviluppata dal Governo italiano e presentata a gennaio 2020 alla Commissione Europea, dove ha raccolto il parere positivo di Romania, Repubblica Ceca, Cipro, Grecia e Ungheria. </p>
<p>Il simbolo che la contraddistingue è, come dice il nome, <strong>una batteria azzurra, ripetuta cinque volte</strong>: una per ognuno dei valori nutrizionali riportati, ovvero calorie, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale. La “carica” della pila, ovvero la quantità di energia o nutrienti contenuti, è espressa in percentuale in relazione alle assunzioni di riferimento europee e relativamente alla singola porzione. Gli stessi valori sono inoltre riportati in grammi per ciascuno dei cinque box.</p>
<p>Troppo ricca per dare una panoramica d’insieme immediata, senza indicatori cromatici chiari; troppo ambigua l’icona della pila che, contrariamente a quanto siamo abituati a pensare, in questo contesto più è carica e peggio è; troppo variabile il calcolo sulle singole porzioni di prodotto per consentire un paragone efficace, se non a seguito di un rapporto proporzionale che difficilmente l’acquirente si troverà a fare nel supermercato. Questi <strong>i dubbi di Altroconsumo, che boccia il sistema italiano</strong> ed è tra i primi ad aver siglato, insieme a oltre quattrocento esponenti internazionali di altre organizzazioni dei consumatori e della comunità scientifica, l’appello per l’implementazione del Nutri-Score indirizzato ai vertici europei lo scorso anno.</p>
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<h2 id="h-la-soluzione-un-etichetta-completa-e-tanta-educazione-alimentare">La soluzione? Un’etichetta completa e tanta educazione alimentare</h2>
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<p>Tra i firmatari dello stesso appello c’è anche <strong>Annamaria Colao</strong>, endocrinologa e titolare della Cattedra Unesco Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli, che avverte: “Da medico devo fare una premessa: <strong>ci stiamo avvicinando a grandi passi verso un mondo obeso</strong>, già a partire dall’infanzia”. I dati lo confermano: l’OMS ha stimato che nel 2016 il 39% della popolazione adulta mondiale era sovrappeso, con 650 milioni di persone obese. Numeri triplicati nel giro di quarant’anni.</p>
<p>“Questo”, prosegue Colao, “è un <strong>problema</strong> non solo di salute, ma <strong>economico e sociale</strong>”. L’obesità, spiega, incide in ogni aspetto della vita, compresi quelli professionali: “Si tratta di pazienti che lavorano con disagio perché hanno un’occupazione dello spazio diversa rispetto a un individuo magro, si muovono con difficoltà, fanno fatica ad andare a un teatro o a un cinema perché a volte la sedia gli è scomoda, e così via”.</p>
<p>Per questo è importante <strong>definire un sistema </strong>verificato che aiuti il consumatore nelle sue<strong> scelte alimentari</strong>, almeno quando va a fare la spesa. Il limite principale di Nutri-Score, a suo parere, è lo stesso evidenziato da chi gli si oppone: una sintesi eccessiva che rischia di non tenere conto di aspetti qualitativi importanti. Anche Colao cita l’esempio dell’olio d&#8217;oliva e la necessità di dare indicazioni che evitino sia il suo abuso, sia la sua totale eliminazione dalla dieta, comportamenti parimenti nocivi per la salute di chi lo consuma. E puntualizza: “Io ho firmato la petizione per chiedere che venisse formato un gruppo di lavoro a livello europeo sul tema del Nutri-Score, per svilupparlo ulteriormente in una versione evoluta e completa di tutte le informazioni che attengono a un regime alimentare bilanciato”.</p>
<p><strong>Una rete di professionisti della nutrizione</strong>, dunque, che a suo parere dovrebbe comprendere medici, ricercatori e anche economisti e istituzioni, <strong>ma non l’industria alimentare</strong>, perché, dice, “quando dietro a questi sistemi c’è qualcuno che potrebbe guadagnarci, il conflitto di interessi è troppo elevato per essere calcolato”. Certo, la salute dei consumatori deve rimanere il principio guida, “ma potendo”, chiosa Colao, “eviterei eventuali ingerenze ambigue al tavolo progettuale”.</p>
<p>Se l’adozione dell’una o dell’altra etichetta rimane un tema divisivo, ce n’è uno su cui appaiono tutti concordi: la necessità di un <strong>programma di educazione alimentare sofisticato</strong> e multilivello, capace di fornire gli strumenti giusti per una scelta che va ben oltre il carrello del supermercato.</p>
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<p><em>Foto di copertina di Imants Kaziļuns su Unsplash</em></p>


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Giulia Petruzzelli

Con un’esperienza di 8 anni come project manager e copywriter in agenzia, si occupa di comunicazione, progetta strategie e scrive per il web. Dal 2018 è redattrice de “Il Giornale del Cibo” e si interessa di cultura e storia dell’alimentazione. Nel 2019 ha realizzato e condotto la trasmissione radiofonica “Sale in zucca” dedicata all’origine dei modi di dire della lingua italiana per l’emittente bolognese Radio Città Fujiko. Ha studiato Lettere Moderne e Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna e per qualche tempo ha vissuto a Londra e Poughkeepsie (NY). Quella dei suoi tre cognomi è una storia lunga quasi quanto la sua firma, ma il sangue blu non c’entra niente!

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Il sistema di etichettatura di origine francese ha diviso l&#8217;Europa, con l&#8217;Italia che rischia di vedere danneggiati alcuni prodotti di punta. Vediamo come funziona l&#8217;etichetta della discordia e quali sono le opinioni a favore e contro il suo impiego.

Nutri-Score, l&#8217;Italia passa col rosso al semaforo del cibo - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Imants-Kaziluns249d15732a10.jpg


<p>Nei giorni scorsi il presidente di <strong>Confindustria</strong> <strong>Carlo Bonomi</strong>, malgrado la sonora sconfitta personale e politica subita lo scorso anno a proposito del <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/come-la-confindustria-di-carlo-bonomi-ha-tentato-di-far-saltare-i-contratti-dellalimentare-durante-lemergenza/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">contratto nazionale di lavoro degli alimentaristi</a> (che abbiamo raccontato nel numero di dicembre 2020 e che torniamo a raccontare con alcuni particolari poco enfatizzati dai media al momento della rottura), ha azzardato un nuovo diktat che pare abbia fatto breccia a Palazzo Chigi.</p>



<p>Si tratta del <strong>blocco dei licenziamenti</strong>, che secondo i sindacati dovrebbe essere prorogato gradualmente fino a ottobre, mentre secondo il presidente di Confindustria dovrebbe cessare immediatamente. Carlo Bonomi ha lanciato un guanto di sfida, certo di ottenere il plauso degli industriali; ma sarà davvero così o si ripeterà una rottura del fronte confindustriale?</p>



<p>La questione è ancora aperta e vedremo chi la spunterà, ma nella comunità degli affari si pone un problema assai serio. Un imprenditore del Nord che preferisce l’anonimato commenta gelido: “Dopo l’esito del contratto degli alimentaristi che ha visto l’80% delle associazioni industriali disattendere la linea della presidenza di Confindustria, si pone un <strong>problema di rappresentanza e di credibilità dell’attuale capo</strong> dell’associazione”.</p>



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<h2 id="h-il-caso-del-contratto-alimentaristi-che-ha-visto-confindustria-sconfitta-e-divisa">Il caso del contratto alimentaristi che ha visto Confindustria sconfitta e divisa</h2>



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<p>Parole durissime che ci costringono a tornare sul caso del contratto alimentaristi, che gli stessi sindacalisti definiscono “clamoroso e inedito”.</p>



<p>Il 31 luglio del 2020 viene firmato dalle confederazioni sindacali il <strong>contratto nazionale degli alimentaristi</strong>. Dall’altra parte del tavolo ad apporre la firma non c’è Federalimentare, che rappresenta Confindustria, ma c’è la gran parte delle associazioni industriali che rappresentano il settore alimentare, come Union Food (alla quale aderiscono i grandi gruppi alimentari come Barilla e Ferrero e le multinazionali del food, come ad esempio Unilever), ANCIT e Assobirra. Tra gli irriducibili contrari alla firma c’è Assocarni. In sostanza “<strong>disobbedisce</strong>” <strong>ai voleri di Bonomi l’80%, se non il 90%, del settore alimentare</strong>.</p>



<p>Gli uomini di Bonomi, increduli di fronte a un esito tanto traumatico, accusano il colpo della inedita frattura. <strong>Maurizio Stirpe</strong>, vicepresidente della Confindustria e fedelissimo di Bonomi, firma un <strong>comunicato di fuoco</strong> che non ha bisogno di commenti: “Non era mai successo che a sottoscrivere l’intesa fossero solo tre associazioni titolari del CCNL e, quel che rende il fatto ancora più grave, in assenza di Federalimentare”. “Proprio per evitare che si arrivasse a tanto – continua – più volte ho manifestato a Federalimentare disponibilità a intervenire, personalmente e direttamente, per favorire un chiarimento e una ricomposizione tra tutte le associazioni e la federazione e, da ultimo, ho scritto a tutti voi richiamandovi al rispetto degli accordi interconfederali per scongiurare il pericolo che si arrivasse a sottoscrivere impegni non coerenti con quelli concordati da Confindustria”.</p>



<p>Gli impegni imposti senza successo da Carlo Bonomi erano un aumento salariale più basso, (80 euro e non 119 euro come stabilito dal contratto) e un trattamento dei fondi pensione unilaterale che avrebbe dovuto coinvolgere di meno i lavoratori. Un <strong>diktat caduto nel vuoto</strong> che lo spiritoso presidente di Confindustria aveva definito una “rivoluzione”.</p>



<p>Ancora più clamorosa è la <strong>lettera</strong> che gli industriali firmatari dell’accordo inviano alle confederazioni sindacali in piena trattativa: “È emersa l&#8217;esigenza di trovare il necessario equilibrio che tuteli lavoratori ed imprese (&#8230;) chiediamo un incontro con l&#8217;auspicio di finalizzare un accordo negoziale nell&#8217;interesse dei lavoratori e delle imprese”. Una <strong>dichiarazione di guerra al presidente della Confindustria</strong> Carlo Bonomi che lo costringerà a ingoiare il rospo senza più commenti sulla sua “rivoluzione” mancata e un caso senza precedenti.</p>



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<h2 id="h-ivano-gualerzi-e-sara-palazzoli-cgil-confindustria-ha-perso-deve-rivedere-la-sua-rappresentanza">Ivano Gualerzi e Sara Palazzoli, CGIL: “Confindustria ha perso. Deve rivedere la sua rappresentanza”</h2>



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<p>Ne abbiamo parlato con <strong>Ivano Gualerzi</strong>, protagonista di quella singolare trattativa e attualmente passato all’organizzazione della CGIL con <strong>Sara Palazzoli</strong>, segretaria nazionale con delega al settore alimentare.</p>



<p>“Direi che una rivoluzione c’è stata”, commenta ironico Gualerzi, sindacalista CGIL reduce dalla trattativa. “<strong>Sul frontespizio del contratto nazionale</strong> che abbiamo firmato a luglio dello scorso anno <strong>per la prima volta non c’è la sigla di Federalimentari</strong>. Le posso assicurare che non era mai successo e ora la preoccupazione dei vertici della Confindustria è che possa succedere in altri settori. È evidente che i gruppi industriali che hanno firmato hanno scelto di pagare un po’ più salari in cambio di una bassa conflittualità”.</p>



<p>Ma mi spiegate perché il presidente della Confindustria ha preferito pagare il prezzo di una rottura del fronte industriale piuttosto che firmare un aumento salariale in un settore che in alcuni casi è stato favorito dalla pandemia?</p>



<p>“È una domanda che ci siamo posti anche noi”, commenta Sara Palazzoli. “Probabilmente il presidente di Confindustria non prevedeva che sarebbe andato incontro a una sconfitta così cocente. La sua è stata una <strong>scelta politica</strong> forse legata alla conflittualità con il governo precedente. Sta di fatto che <strong>Confindustria ha perso</strong>. Anche perché il sindacato si è presentato unito ai tavoli della trattativa, mentre la controparte era divisa: pensi soltanto al fatto che abbiamo fatto la trattativa in tre sale separate”.</p>



<p>Quali insegnamenti avete tratto da questa vicenda? Ivano Gualerzi non ha dubbi: “Ha ragione l&#8217;imprenditore che mi citava all’inizio della nostra conversazione, da questa vicenda, lo ripeto inedita e che meritava un clamore maggiore: emerge il tema della <strong>rappresentanza</strong>. Il nostro segretario Maurizio Landini pone da tempo questo tema, e oggi, alla luce di quello che è avvenuto con il contratto alimentaristi, quella è una questione non più rinviabile, non soltanto per il sindacato”.</p>



<p>Sara Palazzoli chiude con una considerazione sul futuro: “Se i vertici di Confindustria non abbasseranno l’ascia di guerra sul tema del lavoro, <strong>fenomeni come questi si ripeteranno</strong>”.</p>



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Come ti smonto Confindustria: il contratto degli alimentaristi che rischia di detronizzare Bonomi

<p>La pandemia ha fatto crescere la richiesta di <strong>informazione documentata sul cibo</strong>: uno dei tanti fenomeni da cui non torneremo più indietro. L’ignoranza che quasi tutti noi abbiamo sui temi alimentari con il lockdown si è fatta, timidamente, consapevolezza. E abbiamo voluto colmare questo buco.</p>
<p>L’informazione documentata non è solo un’informazione verificata attraverso l’incrocio delle fonti, ma è un’informazione che vuole essere di approfondimento; che spiega le premesse scientifiche e tecnologiche di un accadimento o di una tendenza. È un’informazione che parte dalla voglia di apprendere del giornalista.</p>
<p>Con il COVID-19 i cittadini hanno compreso quanto sia importante un’informazione da <strong>fonti affidabili</strong> (non è solo per la chiusura delle edicole che sono cresciuti gli abbonamenti ai quotidiani online). E hanno anche consumato molti più articoli divulgativi scientifici (non solo perché, nei lockdown, avevano tanto tempo per leggere).</p>
<p>La catastrofe sanitaria e la paura si sono portate dietro una <strong>domanda di comprensione scientifica e tecnologica</strong> che riguarda anche i <strong>temi alimentari</strong>. Un’esigenza che non verrà più abbandonata.</p>
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<h2 id="h-il-giornalismo-scientifico-del-cibo-richiesto-quanto-raro">Il giornalismo (scientifico) del cibo, richiesto quanto raro</h2>
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<p>Se i cittadini chiedono più servizi di divulgazione sui temi alimentari significa che un <strong>giornalista che scrive di cibo </strong>non può più limitarsi a “raccontare storie”.</p>
<p>Non basta più andare a visitare un ristorante, un’azienda orticola, una cantina per farsi dire come sono stati fondati, come lavorano e quali prodotti vendono. Quella del raccontare le storie dei prodotti e dei produttori è una frase tipica di presentazione da nuovo inserto di un quotidiano o di un convegno, ma <strong>lo storytelling </strong>(che nessuno ha mai capito davvero che cosa sia) <strong>non basta più</strong>.</p>
<p>In un passato ormai remoto il <strong>giornalismo del cibo</strong> era fatto da pochissimi fortunati che giravano i ristoranti per assaggiare e valutare. I compensi erano più che dignitosi: erano questi i collaboratori delle pagine speciali dei quotidiani e delle riviste che mettevano insieme anche libri, guide, eventi.</p>
<p>Oggi il panorama è affollato di <strong>freelance</strong> che cercano di stare a galla sognando un successo economico e di notorietà che non arriva, nel frattempo vendendo i servizi a costi ridicoli o, ancora più di frequente, pubblicando servizi sui propri siti web creati per promuoversi sul mercato della comunicazione. La scelta cade sempre sulla visita-racconto dell’azienda o del consorzio, dove il giornalista va a “scoprire” un prodotto. Vado, vedo, fotografo, scrivo. Così il web e i quotidiani si affollano di visitatori del cibo che non a caso possono scrivere di vino, salumi, pane e viaggi. A seconda di dove vengono invitati.</p>
<p>Sono davvero pochi i giornalisti che scrivono di <strong>cibo con un taglio scientifico</strong>. Sono pochi i giornalisti che per i loro servizi chiedono di visitare istituti di ricerca agricoli e alimentari, dipartimenti di agraria delle università, organismi a tutela della sicurezza alimentare, politecnici che si occupano di tecnologia del cibo, aziende sementiere che sperimentano nuove varietà… solo per citare alcune possibili fonti del <strong>giornalista divulgatore</strong>.</p>
<p>I cittadini stanno chiedendo un’informazione che spieghi come si coltiva o alleva una materia prima alimentare; come si estrae un ingrediente; come avviene una fermentazione, una distillazione, una caseificazione o come viene macellato un animale e come si frolla la sua carne. Alzi la mano chi legge normalmente articoli sui grandi siti di divulgazione dedicati a come agiscono i batteri sull’alimento scaduto, su come avviene l’uccisione di una vacca per favorire la successiva trasformazione chimica del muscolo in carne attraverso la frollatura. O chi ha letto delle micelle del latte che coagula in formaggio o di come si ottengono le bolle che si formano nel pane.</p>
<p>Un esempio può riguardare la frutta: se si tratta di frutta a marchio tipico si troveranno articoli sull’area geografica, con foto di colline verdi, contadini felici, cassette piene. Ma difficilmente si troveranno spiegazioni sugli innesti o sulle impollinazioni assistite che hanno portato alla selezione di quella varietà.</p>
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<h2 id="h-se-la-formazione-sul-cibo-costa-pi-del-cibo-stesso">Se la formazione sul cibo costa più del cibo stesso</h2>
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<p>Dunque mancano <strong>giornalisti</strong> “<strong>scientifici</strong>” <strong>del cibo</strong>, manca una figura giornalistica che si specializzi nella <strong>divulgazione alimentare</strong> come altri giornalisti si specializzano in sport, cronaca nera, economia, politica locale o nazionale. Una figura che sappia maneggiare agronomia, zootecnia, sicurezza alimentare, tecnologia alimentare ma anche ecologia, fisiologia (del gusto, dell’assimilazione dei nutrienti). Una figura che sia in grado di rispondere alle ansie sul cibo, che sia capace di inserirsi autorevolmente negli scontri tra le tribù del cibo, che non si fermi ai comunicati degli uffici stampa delle aziende e delle associazioni di categoria, ma che sia in grado di tenere testa a questi mondi pur avendoli tra le proprie fonti.</p>
<p>Invece il giornalista che “tiene testa” oggi è un “<strong>giornalista giustiziere</strong>”, una figura inutile anche per i movimenti di opinione che hanno bisogno di informazione verificata e di dati di prima raccolta per poi svolgere la loro funzione nella società. A un’associazione ambientalista non serve l’ennesimo articolo denuncia basato su dati discutibili postati da un’altra associazione ambientalista. Non serve il facile <strong>copia-incolla da comunicato stampa</strong> inserito in un articolo-editoriale.</p>
<p>All’associazione ambientalista, per stare sull’esempio, serve un giornalista che svolga una sua inchiesta, uno che ha un buon rapporto con fonti affidabili e che sia in grado di raccogliere i dati. E soprattutto un giornalista che sappia portare al militante base dell’associazione la conoscenza che altrimenti sta solo dentro le élite scientifiche. <strong>Serve un giornalista formato</strong>.</p>
<p>La formazione costa, è lunga e continua. Un giornalista formato sui temi alimentari deve leggere molto, deve parlare con mondi non sempre aperti alla comunicazione, deve partecipare a convegni specialistici, deve farsi invitare nei viaggi studio riservati, deve coltivare fonti scientifiche pubbliche e private. Questo modo di fare giornalismo costa molto a chi lo pratica e non è compensato da retribuzioni adeguate.</p>
<p>Ma se l’<strong>informazione sul cibo </strong>è un’esigenza sociale, che diventa economica quando i cittadini informati diventano consumatori consapevoli, è giusto che sia <strong>sostenuta dal pubblico</strong>.</p>
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<h2 id="h-la-comunicazione-del-cibo-deve-partire-dalle-scuole">La comunicazione del cibo deve partire dalle scuole</h2>
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<p>La <strong>qualità dell’informazione sul cibo</strong>, nel Paese del cibo, è un tema da Recovery Plan. È un obiettivo di sviluppo per una cittadinanza attiva e per l’immagine dell’Italia nel mondo. Un Paese con un grande cibo esportato in tutto il mondo dovrebbe investire anche nell’informazione alimentare ed esportare con il cibo anche la cultura della conoscenza delle materie prime e delle tecnologie.</p>
<p>Invece ci sono pochissimi master universitari dedicati alla comunicazione alimentare; nei master di giornalismo non viene trattato il giornalismo alimentare. Gli stessi eventi formativi approvati dall’Ordine dei giornalisti quasi non contemplano la materia alimentare.</p>
<p>E pensare che un po’ di <strong>comunicazione del cibo</strong> andrebbe insegnata già alle <strong>superiori</strong>, in quella fascia di età che è presente sui social e che padroneggia il prodotto video. Quando si entra in un istituto alberghiero o agrario invitati dagli insegnanti a parlare di comunicazione si capisce che i ragazzi, sempre connessi e consumatori di intrattenimento social, vorrebbero tanto imparare a gestire in modo professionale un proprio canale di comunicazione, anche in vista di un futuro lavoro nella ristorazione o nella vendita dei propri prodotti agricoli. Ma non hanno docenti e programmi che glielo sappiano insegnare.</p>
<p>Questi ragazzi formati nella comunicazione saranno anche meno vulnerabili nei confronti delle <strong>fake news</strong>, e saranno anche molto interessati a un’informazione di <strong>approfondimento</strong>. Una passione per la documentazione che potranno trasmettere anche ai loro clienti.</p>
<p>Serve quindi la mano del pubblico nelle università, nelle scuole, nei media. L’informazione scientifica, sanitaria e alimentare devono essere sostenute. Se è vero che l’informazione in sé è “bene comune”, ancora di più questo vale per l’informazione che avvicina i cittadini alla scienza, sconfigge l’antiscienza e il negazionismo, combatte l’alimentazione da sottrazione e le false credenze sui cibi.</p>
<p>Dopo la pandemia un sostegno alla formazione, alle testate, al <strong>ruolo dei giornalisti nelle scuole e nelle università</strong> è esigenza irrinunciabile.</p>
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<p><em>In copertina Foto di Colin Maynard su Unsplash</em></p>
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borgia

Borgia

Massimiliano Borgia

Giornalista specializzato in ambiente e alimentazione è stato direttore del Festival Internazionale del Giornalismo Alimentare. È stato condirettore del bisettimanale locale Luna Nuova e direttore del Corriere a Ovest di Torino. Scrittore saggista, ha pubblicato diverse opere inerenti il territorio piemontese, fra le quali: 2002, Le risaie del vercellese. Guida alla storia e alla natura delle terre d’acqua, Gs Editrice; 2007, Le patate della montagna torinese, Neos Edizioni; 2015, Il riso, dal campo alla tavola, Neos Edizioni; Gestisce il sito www.spazifood.it e presiede l’associazione culturale Pensare il Cibo.

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Lo storytelling sul cibo non basta più: dopo la pandemia il pubblico richiede un&#8217;informazione di qualità, che il giornalismo di settore ancora fatica a dare.

Giornalista, dimmi come mangio. L&#8217;informazione sul cibo di cui abbiamo bisogno - Informazione senza filtro

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<p>Valorizza la naturale fertilità del suono, difende la biodiversità di piante e animali, esclude l’utilizzo di pesticidi e organismi geneticamente modificati. Questi – ma non solo – sono e dovrebbero essere i capisaldi dell’<strong>agricoltura definita biologica</strong>, che nel tempo ha saputo raccogliere sempre più consensi e messe in pratica virtuose. Un’adesione in crescita, anche in termini di fruitori (alias consumatori), ma che allo stesso tempo deve affiancarsi alla necessità di tenere altissima la guardia perché le insidie degli improvvisati e di coloro che strumentalizzano il termine bio come specchietto per le allodole è sempre dietro l’angolo.</p>



<p>Il possibile effetto negativo è chiaro, e va a discapito di chi l’agricoltura biologica la pratica seriamente e di coloro che si trovano nel piatto cibo tutt’altro che sano e “tutelato”. A proposito di tutele: è recente la notizia che la stessa&nbsp;Federazione&nbsp;europea&nbsp;dei&nbsp;lavoratori&nbsp;alimentari,&nbsp;agricoli&nbsp;e del turismo (<strong>EFFAT</strong>) ha chiesto il divieto immediato del<strong> glifosato</strong>, erbicida definito cancerogeno anche dalla IARC dell’OMS. La cattiva notizia è che l’utilizzo massiccio di pesticidi ha impattato negativamente anche sulle aree che non sono state trattate da essi.</p>



<p>Con <em>SenzaFiltro</em> vogliamo immergerci in questo articolato terreno tematico, il biologico, irrigato da buoni intenti ma costellato anche da aspre insidie.</p>



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<h2 id="h-se-il-biologico-non-fa-male-non-fa-neanche-cos-bene-la-tesi-di-francesco-burlini">Se il biologico non fa male, non fa neanche così bene: la tesi di Francesco Burlini</h2>



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<p>La nostra analisi parte da alcune riflessioni di <strong>Francesco Burlini</strong>, veterinario, agricoltore, allevatore e<strong>, </strong>come si definisce lui stesso, ambientalista che combatte i “<strong>falsi ambientalisti</strong>”.</p>



<p>Questa sua battaglia è stata condensata nel libro <strong><em>Eresie ambientaliste</em></strong> (Gilgamesh Edizioni), un testo che divide e mette in forse alcuni aspetti cardine del biologico. “L’azienda di mio padre è stata la prima a usare il metodo della lotta biologica nel 1973, una vera scelta pionieristica per quei tempi”, racconta. “Allora si utilizzavano diserbanti tremendi, mio padre si lamentava di questi veleni e ha voluto cambiare perché facevano ammalare”.</p>



<p>Sono vari gli aspetti che fanno parecchio scaldare l’animo di Burlini: “Ci sono <strong>agricoltori che sfruttano il</strong> <strong>marchio del biologico</strong> per ottenere visibilità e fondi, e non per vero interesse nei confronti dell’ambiente. In più nel biologico <strong>le aziende pagano i controllori</strong> che rilasciano loro la certificazione: una bella contraddizione”.</p>



<p>Burlini punta il dito su altri aspetti descritti nel suo libro, sostenendo che l’agricoltura biologica non si è evoluta e che non è vero che sia meno impattante rispetto a quella tradizionale. Eresie o stereotipi?</p>



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<h2 id="h-lucio-cavazzoni-ex-ad-di-alce-nero-c-il-bio-che-cerca-guadagni-e-quello-che-tutela-i-territori">Lucio Cavazzoni, ex AD di Alce Nero: “C’è il bio che cerca guadagni e quello che tutela i territori”</h2>



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<p>Interpelliamo una delle voci più importanti del panorama biologico italiano: quella di<strong> Lucio Cavazzoni</strong>. Ex amministratore delegato di Alce Nero, ha contribuito alla nascita di realtà come Libera Terra Mediterraneo, Coop Sin Fronteras, Mediterre.bio. Attualmente è presidente di Goodland Srl.</p>



<p>Partiamo subito in quarta: considerando la problematica delle frodi da parte di chi sfrutta il bio per interessi personali e quella dei controlli non sempre attendibili, oggi qual è lo stato dell’arte del biologico? “Il <strong>tema delle frodi</strong> <strong>è sicuramente reale</strong> – risponde Cavazzoni – e purtroppo esiste in tutti gli ambiti lavorativi e della società, così come quello dei certificatori in diversi casi focalizzati sul business e non su una funzione di monitoraggio e guida, così come dovrebbe essere. Ma non è questo il problema principale del biologico, secondo me”.</p>



<p>E dove riscontra i principali elementi critici? “Nella sua commodizzazione, o meglio <strong>banalizzazione</strong>. Il biologico nasce per la sua forza propulsiva come inno alla vita e con la volontà di connettersi con il pianeta, creando coesistenza e partendo dalla consapevolezza di una interdipendenza profonda di cui vediamo concretamente con gli effetti sul clima e territori. Il pericolo è quindi pensare di fare agricoltura biologica seguendo una semplice ricetta, visto che la Commissione Europea ha stabilito in che cosa consiste fare biologico. Porto un esempio: anni fa in California ho visitato un campo di fragole di duecento ettari, a monocoltura, dove lavoravano messicani che comprendevano bambini e persone anziane, pagati pochissimo. Questa sarebbe l’azienda biologica più storica e famosa del contesto? Non direi, viste le varie contraddizioni. Altri esempi di banalizzazione sono le grandi industrie che dichiarano di fare prodotti biologici solo perché nei loro biscotti ci mettono dentro lo zucchero e la farina biologica; poi magari ci aggiungono conservanti e aromatizzanti. Non ha senso!”.</p>



<p>Per arginare questa banalizzazione selvaggia e tutelare chi fa il biologico vero che cosa proporrebbe di fare? Magari stringere le maglie dei criteri richiesti? “No, sarebbe inutile. È fondamentale fare passi avanti sul biologico lavorando sui grandi temi culturali, ambientali e sociali e per una sostenibilità vera. Questa oggi è la vera sfida: l’industria è interessata ai mercati, a noi interessano i territori. Ci sono tanti esempi di tutela del biologico che i fruitori stessi possono sostenere”. Tipo? “I <strong>mercati contadini</strong>, le occasioni in cui c’è relazione diretta tra chi produce e compra, l’incremento di fruitori del biologico, la <strong>ripopolazione delle campagne</strong> dove gli agricoltori hanno un ruolo di custodi del territorio: questi sono tutti passi avanti”.</p>



<p>Una lacuna del biologico che andrebbe risolta? “Bisogna continuare a evolvere con coerenza”, commenta Cavazzoni. “Prendo come esempio i<strong> biodistretti</strong>, che non sono una semplice accozzaglia di agricoltori, ma hanno l’intento di riportare una vita sana per tutti. Ecco, in questi distretti mi aspetto che ci si arrivi in bicicletta o con i mezzi pubblici, non in auto da lasciare in un grande parcheggio, come accade in alcuni casi”.</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Clarabella-Simone-lavori-in-vigna.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Clarabella-Simone-lavori-in-vigna-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-45257" /></a><figcaption>Simone Clarabella, mentre lavora in vigna</figcaption></figure>



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<h2 id="h-cascina-clarabella-la-franciacorta-dell-agricoltura-biologica-e-sociale">Cascina Clarabella, la Franciacorta dell’agricoltura biologica e sociale</h2>



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<p>Raggiungiamo il cuore della Franciacorta, sul territorio bresciano, dove ha sede Clarabella, cooperativa agricola e sociale onlus che fin dall’inizio ha voluto mettere in pratica con scrupolo e serietà l’agricoltura biologica, affrontando sfide e raggiungendo numerose soddisfazioni. A raccontarcele è<strong> Aldo Papetti</strong>, vicepresidente della coop ed enologo.</p>



<p>“Clarabella è nata nel 2002 da un’altra realtà per dare occasione di <strong>inclusione lavorativa</strong> a persone con disturbi e disabilità psichici”, spiega. “Il biologico ha rappresentato subito un caposaldo per noi: prendendoci cura delle persone non potevamo non farlo anche con la terra e i suoi prodotti”.</p>



<p><strong>Agricoltura sociale</strong> e <strong>biologica</strong> formano così un connubio inscindibile per la cooperativa bresciana, che dà vita al primo vigneto nel 2003: “Noi siamo la seconda azienda in Franciacorta ad aver adottato il biologico; pioniera è stata l’azienda <strong>Barone Pizzini</strong>, con cui abbiamo un rapporto di collaborazione”.</p>



<p>A dimostrazione che il vero biologico non è la banale esclusione di utilizzo di certe sostanze, ma l’attenzione profonda a tutto ciò che si sta facendo, Clarabella si distingue da molte realtà perché fa analizzare i terreni che coltiva: “In Franciacorta si è creato un polo di agronomi professionisti, il <strong>gruppo SATA</strong>, che segue le aziende specializzate sul biologico e sta facendo un bellissimo lavoro, tra cui appunto l’<strong>analisi dei terreni</strong>”, spiega Papetti. “Noi siamo associati a questo gruppo e ogni tot facciamo fare le analisi. Certo, hanno un costo, ma almeno c’è un vero controllo sulle sostanze presenti nella terra”.</p>



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<h2 id="h-aldo-papetti-cascina-clarabella-nel-bio-le-grandi-aziende-riescono-a-eludere-i-controlli">Aldo Papetti, Cascina Clarabella: “Nel bio le grandi aziende riescono a eludere i controlli”</h2>



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<p>Addentrandoci nel tema lavorativo chiediamo quale sia l’aspetto più faticoso da affrontare per chi quotidianamente, nel proprio lavoro imprenditoriale e agricolo, ha scelto la strada del biologico.</p>



<p>“Sicuramente il <strong>tempo</strong>, perché richiede più ore di lavoro, e i <strong>costi di gestione</strong>”, sottolinea Papetti. “Pensiamo ad esempio alle erbe infestanti: anziché usare il diserbante noi facciamo dei movimenti nella terra: un lavoro più impegnativo, ma che tutela dalle sostanze nocive”. E aggiunge: “Il biologico per sua caratteristica subisce ancora di più il <strong>meteo</strong>; non dimentichiamo annate difficili come quella del 2014, con una primavera e un’estate fortemente piovose, e anche quella del 2016. Se però le annate vanno bene traiamo doppio vantaggio”.</p>



<p>Tocchiamo il tasto dolente dei <strong>controlli</strong>: “Questo è sicuramente un tallone d’Achille per l’ambito. Per mia esperienza però ho trovato certificatori che sono sempre andati al fondo delle questioni. Il pericolo è più che altro a livello delle <strong>grandi aziende</strong>, che se cercano di fare le furbe in qualche modo purtroppo ci riescono”.</p>



<p>Affrontiamo infine un argomento spinoso, ossia la sfida del fare biologico in un territorio, quello <strong>bresciano</strong>, carico di bellezze e risorse, ma anche fortemente martoriato dall’<strong>inquinamento industriale</strong>: “Sì, si tratta di un territorio massacrato. Per fortuna le colline e la Franciacorta sono state meno colpite, ma ci sono zone, come quella della bassa bresciana, dove liquami e nitrati hanno avvelenato i terreni. Il problema della Franciacorta è avvenuto più che altro negli anni Ottanta e Novanta, dove ci hanno dato dentro parecchio con i diserbanti. Oggi con soddisfazione possiamo dire che grazie all’impegno degli agronomi del gruppo SATA la Franciacorta è quasi per metà a produzione biologica e con terreni controllati. Noi di Clarabella e altri abbiamo dimostrato che fare biologico è possibile”.</p>



<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@dirtjoy?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Zoe Schaeffer</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/organic-farm?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Unsplash</a></p>



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L&#8217;agricoltura biologica vende, ma non sempre paga

<p>Nei giorni scorsi il presidente di <strong>Confindustria</strong> <strong>Carlo Bonomi</strong>, malgrado la sonora sconfitta personale e politica subita lo scorso anno a proposito del <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/come-la-confindustria-di-carlo-bonomi-ha-tentato-di-far-saltare-i-contratti-dellalimentare-durante-lemergenza/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">contratto nazionale di lavoro degli alimentaristi</a> (che abbiamo raccontato nel numero di dicembre 2020 e che torniamo a raccontare con alcuni particolari poco enfatizzati dai media al momento della rottura), ha azzardato un nuovo diktat che pare abbia fatto breccia a Palazzo Chigi.</p>
<p>Si tratta del <strong>blocco dei licenziamenti</strong>, che secondo i sindacati dovrebbe essere prorogato gradualmente fino a ottobre, mentre secondo il presidente di Confindustria dovrebbe cessare immediatamente. Carlo Bonomi ha lanciato un guanto di sfida, certo di ottenere il plauso degli industriali; ma sarà davvero così o si ripeterà una rottura del fronte confindustriale?</p>
<p>La questione è ancora aperta e vedremo chi la spunterà, ma nella comunità degli affari si pone un problema assai serio. Un imprenditore del Nord che preferisce l’anonimato commenta gelido: “Dopo l’esito del contratto degli alimentaristi che ha visto l’80% delle associazioni industriali disattendere la linea della presidenza di Confindustria, si pone un <strong>problema di rappresentanza e di credibilità dell’attuale capo</strong> dell’associazione”.</p>
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<h2 id="h-il-caso-del-contratto-alimentaristi-che-ha-visto-confindustria-sconfitta-e-divisa">Il caso del contratto alimentaristi che ha visto Confindustria sconfitta e divisa</h2>
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<p>Parole durissime che ci costringono a tornare sul caso del contratto alimentaristi, che gli stessi sindacalisti definiscono “clamoroso e inedito”.</p>
<p>Il 31 luglio del 2020 viene firmato dalle confederazioni sindacali il <strong>contratto nazionale degli alimentaristi</strong>. Dall’altra parte del tavolo ad apporre la firma non c’è Federalimentare, che rappresenta Confindustria, ma c’è la gran parte delle associazioni industriali che rappresentano il settore alimentare, come Union Food (alla quale aderiscono i grandi gruppi alimentari come Barilla e Ferrero e le multinazionali del food, come ad esempio Unilever), ANCIT e Assobirra. Tra gli irriducibili contrari alla firma c’è Assocarni. In sostanza “<strong>disobbedisce</strong>” <strong>ai voleri di Bonomi l’80%, se non il 90%, del settore alimentare</strong>.</p>
<p>Gli uomini di Bonomi, increduli di fronte a un esito tanto traumatico, accusano il colpo della inedita frattura. <strong>Maurizio Stirpe</strong>, vicepresidente della Confindustria e fedelissimo di Bonomi, firma un <strong>comunicato di fuoco</strong> che non ha bisogno di commenti: “Non era mai successo che a sottoscrivere l’intesa fossero solo tre associazioni titolari del CCNL e, quel che rende il fatto ancora più grave, in assenza di Federalimentare”. “Proprio per evitare che si arrivasse a tanto – continua – più volte ho manifestato a Federalimentare disponibilità a intervenire, personalmente e direttamente, per favorire un chiarimento e una ricomposizione tra tutte le associazioni e la federazione e, da ultimo, ho scritto a tutti voi richiamandovi al rispetto degli accordi interconfederali per scongiurare il pericolo che si arrivasse a sottoscrivere impegni non coerenti con quelli concordati da Confindustria”.</p>
<p>Gli impegni imposti senza successo da Carlo Bonomi erano un aumento salariale più basso, (80 euro e non 119 euro come stabilito dal contratto) e un trattamento dei fondi pensione unilaterale che avrebbe dovuto coinvolgere di meno i lavoratori. Un <strong>diktat caduto nel vuoto</strong> che lo spiritoso presidente di Confindustria aveva definito una “rivoluzione”.</p>
<p>Ancora più clamorosa è la <strong>lettera</strong> che gli industriali firmatari dell’accordo inviano alle confederazioni sindacali in piena trattativa: “È emersa l&#8217;esigenza di trovare il necessario equilibrio che tuteli lavoratori ed imprese (&#8230;) chiediamo un incontro con l&#8217;auspicio di finalizzare un accordo negoziale nell&#8217;interesse dei lavoratori e delle imprese”. Una <strong>dichiarazione di guerra al presidente della Confindustria</strong> Carlo Bonomi che lo costringerà a ingoiare il rospo senza più commenti sulla sua “rivoluzione” mancata e un caso senza precedenti.</p>
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<h2 id="h-ivano-gualerzi-e-sara-palazzoli-cgil-confindustria-ha-perso-deve-rivedere-la-sua-rappresentanza">Ivano Gualerzi e Sara Palazzoli, CGIL: “Confindustria ha perso. Deve rivedere la sua rappresentanza”</h2>
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<p>Ne abbiamo parlato con <strong>Ivano Gualerzi</strong>, protagonista di quella singolare trattativa e attualmente passato all’organizzazione della CGIL con <strong>Sara Palazzoli</strong>, segretaria nazionale con delega al settore alimentare.</p>
<p>“Direi che una rivoluzione c’è stata”, commenta ironico Gualerzi, sindacalista CGIL reduce dalla trattativa. “<strong>Sul frontespizio del contratto nazionale</strong> che abbiamo firmato a luglio dello scorso anno <strong>per la prima volta non c’è la sigla di Federalimentari</strong>. Le posso assicurare che non era mai successo e ora la preoccupazione dei vertici della Confindustria è che possa succedere in altri settori. È evidente che i gruppi industriali che hanno firmato hanno scelto di pagare un po’ più salari in cambio di una bassa conflittualità”.</p>
<p>Ma mi spiegate perché il presidente della Confindustria ha preferito pagare il prezzo di una rottura del fronte industriale piuttosto che firmare un aumento salariale in un settore che in alcuni casi è stato favorito dalla pandemia?</p>
<p>“È una domanda che ci siamo posti anche noi”, commenta Sara Palazzoli. “Probabilmente il presidente di Confindustria non prevedeva che sarebbe andato incontro a una sconfitta così cocente. La sua è stata una <strong>scelta politica</strong> forse legata alla conflittualità con il governo precedente. Sta di fatto che <strong>Confindustria ha perso</strong>. Anche perché il sindacato si è presentato unito ai tavoli della trattativa, mentre la controparte era divisa: pensi soltanto al fatto che abbiamo fatto la trattativa in tre sale separate”.</p>
<p>Quali insegnamenti avete tratto da questa vicenda? Ivano Gualerzi non ha dubbi: “Ha ragione l&#8217;imprenditore che mi citava all’inizio della nostra conversazione, da questa vicenda, lo ripeto inedita e che meritava un clamore maggiore: emerge il tema della <strong>rappresentanza</strong>. Il nostro segretario Maurizio Landini pone da tempo questo tema, e oggi, alla luce di quello che è avvenuto con il contratto alimentaristi, quella è una questione non più rinviabile, non soltanto per il sindacato”.</p>
<p>Sara Palazzoli chiude con una considerazione sul futuro: “Se i vertici di Confindustria non abbasseranno l’ascia di guerra sul tema del lavoro, <strong>fenomeni come questi si ripeteranno</strong>”.</p>
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Perini

Bruno Perini

E&#8217; nato a Milano il 21 novembre del 1950. Laureato in Lettere e Filosofia nel 1977 all’Università Statale di Milano con una tesi su Marx e l’economia volgare è diventato giornalista professionista nel 1987. Giornalista economico finanziario e politico giudiziario, ha lavorato per circa trent’anni al quotidiano il manifesto dove ha curato la cronaca finanziaria e dal 1992 al 2000 la cronaca giudiziaria durante l’inchiesta Mani Pulite. Per 6 anni ha lavorato all’agenzia di Stampa Asca come cronista giudiziario e per due anni ha lavorato al settimanale della Rcs Il Mondo. Ha lavorato per circa 6 anni al mensile Prima Comunicazione e per due anni ha lavorato nel gruppo Sole 24 ore dove scriveva articoli sul quotidiano e contemporaneamente conduceva la rassegna stampa di Radio 24 e una trasmissione con gli ascoltatori sui temi di attualità. Per due anni ha lavorato in un’agenzia di ufficio stampa dove teneva corsi di giornalismo per coloro che tenevano i rapporti con i clienti. Da circa 5 anni collabora con Senza Filtro sui temi del lavoro e cura la rubrica &#8220;8000 battute sul lavoro&#8221;. E’ appassionato di musica rock, di letteratura, di gialli e del gioco del biliardo. Nel 2004 ha scritto un giallo dal titolo “Richiamo di sangue”, nel 2010 una biografia di Adriano Celentano “Memorie di zio Adriano” e nel 2013 un Giallo dal titolo “le figlie del diavolo”.

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La questione del contratto degli alimentaristi ha provocato una rivolta senza precedenti all&#8217;interno di Confindustria: i sindacati incassano, a rischio la presidenza di Carlo Bonomi. Ne parliamo con Ivano Gualerzi e Sara Palazzoli della CGIL.

Come ti smonto Confindustria: il contratto degli alimentaristi che rischia di detronizzare Bonomi - Informazione senza filtro

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<p>Martoriato dagli scarichi delle fabbriche negli anni Settanta, dalle plastiche, da anni di pesca selvaggia e abusiva. <strong>L’Adriatico</strong> ne ha passate e ne passa di tutti i colori, ma questo non significa che non conservi in sé la capacità di generare, ancora oggi, pesce sano e vario. E con un rispetto da parte degli operatori del settore che solo la preparazione può portare.</p>



<p>Nelle lagune venete. infatti, la storia s’intreccia con piccole realtà di grandi eccellenze, dove il rispetto per quel dono azzurro è diventato disciplina prioritaria, innovazione, occasione di rilancio per un mestiere antico come quello del <strong>pescatore</strong>, <strong>ma in chiave moderna</strong>. Ci ha sempre creduto così tanto da investire nella formazione <strong>Sandra Chiarato</strong>, Coordinatrice Donne Impresa Coldiretti Veneto, che per cinque anni, insieme ad Impresa Verde Coldiretti – l&#8217;anima dell&#8217;ente deputata alla formazione – ha premuto per ottenere l’avvallo della Regione ai <strong>corsi per pescatori</strong>.</p>



<p>Solo quest&#8217;anno il bando <strong>FEAMP</strong> (Fondo europeo per la politica marittima, la pesca e l&#8217;acquacoltura) ha approvato il progetto per la&nbsp;“<strong>Scuola di Pesca</strong>” che già opera per aggiornare i senior e che da settembre partirà per i giovani futuri&nbsp;professionisti del mare.</p>



<p>“Per cambiare il <strong>sillogismo pescatore-predatore</strong> è necessario formare i ragazzi con una concezione delle acque e della loro fauna completamente diversa”, dice la Chiarato. “Per rispettare il mare, per pescare nel modo giusto,&nbsp;qualcuno deve pur insegnare alle nuove generazioni&nbsp;che tecniche usare. Vanno spiegate le occasioni imprenditoriali che questo settore può offrire ancora oggi, e come la tecnologia ha reso attualmente questo mestiere durissimo un po’ meno duro, meno faticoso. Non è stato facile essere ascoltata, ma alla fine ce l’ho fatta. Ora anche per questo antico mestiere ci sarà una scuola. Del resto, qualcuno deve pur portare in tavola il cibo per le tantissime persone che lavorano davanti a un monitor”.</p>



<p>Ed ecco dunque i protagonisti di questo piccolo mondo antico, il regno dei prodotti ittici tipici dell’Adriatico veneto, dove gli abusivi hanno spesso straziato i fondali, ma dove da anni lavorano anche eccellenze del settore, <strong>modelli di sostenibilità</strong> pronti a sorprenderci, soprattutto ora che è pace fatta con l’UE. Dopo la lunga diatriba sulla taglia della vongola, infatti, lo scorso gennaio l’Unione ha accettato il mollusco veneto (22 millimetri di larghezza contro i 25 millimetri precedentemente imposti). Un segno, seppur tardivo, di cortesia istituzionale che ha rasserenato non poco gli operatori.</p>



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<h2 id="h-l-ostrica-rosa-e-gli-allevamenti-ecosostenibili-nel-delta-del-po">L’ostrica rosa e gli allevamenti ecosostenibili nel delta del Po</h2>



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<p>“Voi allevate le cozze più buone del mondo. Possibile non siate capaci di crescere anche le ostriche rosa?”</p>



<p>È cominciato tutto così, con una sfida benevola lanciata da un ostricoltore francese di terza generazione, <strong>Florence Tarbouriech</strong>, agli allevatori della prestigiosa cozza di Scardovari, nel cuore del Delta del Po. Da vent’anni acquirente convinto di questi&nbsp;molluschi che poi rivende ai cugini d’oltralpe, platea dai palati notoriamente raffinati, Tarbouriech ha conquistato e contagiato con il suo entusiasmo <strong>Alessio Greguoldo</strong>, 44 anni, che oggi è l’unico in Italia ad allevare le ostriche rosa con la <strong>tecnica della</strong> “<strong>marea solare</strong>” nelle acque di Scardovari.</p>



<p>La tecnica utilizzata e trasmessa da Tarbouriech è del tutto ecocompatibile perché funziona con energie rinnovabili. Curioso che a lanciare l’input sia stato un collega francese, il quale ha riconosciuto in queste acque la combinazione perfetta per un prodotto ittico sano e adatto alle tasche e al palato di tutti.</p>



<p>“In sostanza – spiega Greguoldo – riproduciamo le maree là dove non ci sono, dove non c’è quella che tecnicamente viene chiamata escursione, e che qui non supererebbe i cinquanta centimetri come avviene invece in Normandia. Attraverso dei pannelli che funzionano a energia solare ed eolica, <strong>simuliamo una marea</strong> alimentando dei motori che azionano tubi. Questi arrotolano le funi di ostriche, tirandole così fuori dall’acqua per un certo numero di ore al giorno, in base alle condizioni climatiche. L’impianto è controllabile da remoto, con una app, e questo naturalmente facilita molto il nostro mestiere”.</p>



<p>La varietà di ostrica porta il nome di Tarbouriech, dall’ostricoltore che ha inventato il sistema, e in Italia è più nota come <strong>ostrica rosa</strong>. Si distingue perché è più resistente e quindi più facilmente commerciabile, è più facile da pulire rispetto all’ostrica classica, e ha uno stato di carnosità, di riempimento, che rimane costante tutto l’anno. Soprattutto ha una sapidità mitigata dalle acque dolci, che in questo angolo di paradiso si mescolano a quelle salmastre soprattutto nei giorni in cui il vento di scirocco soffia forte.</p>



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<h2 id="h-il-rischio-dei-prodotti-nipponici-contaminati-da-fukushima">Il rischio dei prodotti nipponici contaminati da Fukushima</h2>



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<p>E mentre tanti luoghi comuni rimangono aggrappati alle coste dell’Adriatico, rischia di allentarsi l’attenzione nei confronti dei <strong>pericoli provenienti dal pesce di importazione</strong>, anche dal Paese del sol levante che ha dato i natali al sushi.</p>



<p>Recentissimo, infatti, è l’allarme lanciato dalla stessa Coldiretti e da&nbsp;Impresa Pesca Veneto.&nbsp;Secondo gli operatori del settore ci sarebbero in agguato&nbsp;<strong>21 milioni di chili di crostacei</strong>, <strong>molluschi</strong> e altre varietà ittiche giapponesi, cresciute nello stesso mare in cui il Governo ha deciso di riversare 1,25 milioni di tonnellate di <strong>acqua radioattiva</strong> trattata dalla centrale nucleare di <strong>Fukushima</strong>.</p>



<p>Eppure pesce e pescatori non mancano certo in Veneto, sebbene il settore arranchi a seguito della pandemia, a strascico del comparto della ristorazione. Sono 26.000 i locali che, in tempi normali, servono pesce nella Regione; 600 i pescherecci; 2.000 gli addetti. “Da anni – ricorda Greguoldo – la Sacca di Scardovari è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco, e non va dimenticato. È facile poi sentir sottolineare che il Po è inquinato, ma ricordo che affluenti diretti qui, non ve ne sono. I controlli sanitari sulla qualità dell’acqua, inoltre, sono costanti e serrati, e vengono fatti sia dal Consorzio che da organi esterni. Ogni prodotto del mare, infine, prima di essere venduto è rigorosamente sottoposto a un paio d’ore di stabulazione, cioè di depurazione”.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Marea.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Marea-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-45129" /></a></figure>



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<h2 id="h-la-pesca-in-veneto-tra-specie-da-proteggere-e-restituzione-al-mare">La pesca in Veneto tra specie da proteggere e restituzione al mare</h2>



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<p>Tra i tanti addetti impegnati in produzione tipiche, di provenienza sicura e a “miglio zero” in questo scampolo di Adriatico, ci sono anche i pescatori di <strong><em>moeche</em></strong>, piccola prelibatezza stagionale oggi pesantemente insidiata dai cambiamenti climatici, che provocano invasioni di specie non autoctone come le meduse. Le moeche sono i <strong>granchietti della laguna</strong> pescati agli inizi di autunno e di primavera, nel momento in cui fanno la muta, cioè lasciano il vecchio carapace per costruirsene uno più su misura.</p>



<p><strong>Domenico Rossi</strong> è uno dei venti pescatori di moeche della cooperativa San Marco, la più antica d’Italia, fondata a fine Ottocento, che raggruppa le maestranze storiche del settore. “Le reti vanno posizionate nelle secche lagunari in un certo modo a un metro, un metro e venti di profondità”, spiega Rossi. “Nelle reti rimangono poi decine di chili di pescato, ma si possono tenere solo pochissimi chili di moeche, che devono essere pescate quando sono in una precisa fase della muta. Tutto il resto viene restituito al mare e sarà pronto per la stagione successiva”. &nbsp;</p>



<p>La <strong>restituzione al mare</strong> è una regola ferrea per consentire una sana e fisiologica ripopolazione, e sta alla base della sostenibilità. Il grande traffico marittimo di navi da crociera e porta containers, però, ha fatto arrivare nelle acque dell’alto Adriatico migranti involontari: i <strong>grandi granchi blu dei Caraibi</strong>, che, ci spiega ancora Rossi, “non hanno nemici in natura qui, e quindi mangiano tutto, mentre&nbsp;non vengono mangiati da nessun’altra specie nelle nostre acque. Se fino a qualche anno fa ne trovavo uno ogni tanto, adesso la loro presenza è cresciuta in modo esponenziale”.</p>



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<h2 id="h-dalle-reti-da-pesca-alle-reti-social-il-pesce-a-km-zero-arriva-porta-a-porta">Dalle reti da pesca alle reti social: il pesce a km zero arriva porta a porta</h2>



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<p>Per controllare direttamente l’origine del pesce acquistato, la Coldiretti consiglia di verificare sul bancone l’etichetta, che per legge deve prevedere la zona di pesca, e scegliere la “<strong>zona Fao 37</strong>” se si vuole acquistare un prodotto pescato nei mari italiani.</p>



<p>E poi ci sono loro, quelli della nuova guardia, che per sensibilizzare i consumatori sull’importanza della pesca nostrana e illustrare i benefici dei prodotti ittici freschi passano con disinvoltura dalle reti dei pescherecci a quelle dei <strong>social</strong>. È il caso dei giovani imprenditori della&nbsp;<strong>Four Fish</strong>, cresciuti a bordo dei pescherecci di famiglia, e che già in epoca pre-COVID hanno vinto il concorso di Coldiretti “Oscar Green” per aver proposto la consegna di pesce fresco sottovuoto, porta a porta, come massima garanzia di freschezza e qualità a km zero.</p>



<p>“Per promuovere la capacità di riconoscere la qualità – spiega uno dei soci, <strong>Luca Veronese</strong> – ogni tanto facciamo dei piccoli concorsi scherzosi sui social. Si parte da un indovinello: capire dalla foto della coda di un pesce di quale pesce si tratta esattamente. I social diventano così una vetrina per la qualità ittica, perché mentre molti giovani si cimentano nel rebus, noi raccontiamo la storia. Delle nostre famiglie, delle nostre esperienze di pescatori. Ed è qui che il consumatore si appassiona e capisce davvero tutto il lavoro che c’è dietro”.</p>



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<p><em>In copertina Domenico rossi con le sue moeche</em></p>


Quant&#8217;è fragile l&#8217;Adriatico: dalla pesca selvaggia alla sostenibilità

<p>Valorizza la naturale fertilità del suono, difende la biodiversità di piante e animali, esclude l’utilizzo di pesticidi e organismi geneticamente modificati. Questi – ma non solo – sono e dovrebbero essere i capisaldi dell’<strong>agricoltura definita biologica</strong>, che nel tempo ha saputo raccogliere sempre più consensi e messe in pratica virtuose. Un’adesione in crescita, anche in termini di fruitori (alias consumatori), ma che allo stesso tempo deve affiancarsi alla necessità di tenere altissima la guardia perché le insidie degli improvvisati e di coloro che strumentalizzano il termine bio come specchietto per le allodole è sempre dietro l’angolo.</p>
<p>Il possibile effetto negativo è chiaro, e va a discapito di chi l’agricoltura biologica la pratica seriamente e di coloro che si trovano nel piatto cibo tutt’altro che sano e “tutelato”. A proposito di tutele: è recente la notizia che la stessa&nbsp;Federazione&nbsp;europea&nbsp;dei&nbsp;lavoratori&nbsp;alimentari,&nbsp;agricoli&nbsp;e del turismo (<strong>EFFAT</strong>) ha chiesto il divieto immediato del<strong> glifosato</strong>, erbicida definito cancerogeno anche dalla IARC dell’OMS. La cattiva notizia è che l’utilizzo massiccio di pesticidi ha impattato negativamente anche sulle aree che non sono state trattate da essi.</p>
<p>Con <em>SenzaFiltro</em> vogliamo immergerci in questo articolato terreno tematico, il biologico, irrigato da buoni intenti ma costellato anche da aspre insidie.</p>
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<h2 id="h-se-il-biologico-non-fa-male-non-fa-neanche-cos-bene-la-tesi-di-francesco-burlini">Se il biologico non fa male, non fa neanche così bene: la tesi di Francesco Burlini</h2>
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<p>La nostra analisi parte da alcune riflessioni di <strong>Francesco Burlini</strong>, veterinario, agricoltore, allevatore e<strong>, </strong>come si definisce lui stesso, ambientalista che combatte i “<strong>falsi ambientalisti</strong>”.</p>
<p>Questa sua battaglia è stata condensata nel libro <strong><em>Eresie ambientaliste</em></strong> (Gilgamesh Edizioni), un testo che divide e mette in forse alcuni aspetti cardine del biologico. “L’azienda di mio padre è stata la prima a usare il metodo della lotta biologica nel 1973, una vera scelta pionieristica per quei tempi”, racconta. “Allora si utilizzavano diserbanti tremendi, mio padre si lamentava di questi veleni e ha voluto cambiare perché facevano ammalare”.</p>
<p>Sono vari gli aspetti che fanno parecchio scaldare l’animo di Burlini: “Ci sono <strong>agricoltori che sfruttano il</strong> <strong>marchio del biologico</strong> per ottenere visibilità e fondi, e non per vero interesse nei confronti dell’ambiente. In più nel biologico <strong>le aziende pagano i controllori</strong> che rilasciano loro la certificazione: una bella contraddizione”.</p>
<p>Burlini punta il dito su altri aspetti descritti nel suo libro, sostenendo che l’agricoltura biologica non si è evoluta e che non è vero che sia meno impattante rispetto a quella tradizionale. Eresie o stereotipi?</p>
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<h2 id="h-lucio-cavazzoni-ex-ad-di-alce-nero-c-il-bio-che-cerca-guadagni-e-quello-che-tutela-i-territori">Lucio Cavazzoni, ex AD di Alce Nero: “C’è il bio che cerca guadagni e quello che tutela i territori”</h2>
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<p>Interpelliamo una delle voci più importanti del panorama biologico italiano: quella di<strong> Lucio Cavazzoni</strong>. Ex amministratore delegato di Alce Nero, ha contribuito alla nascita di realtà come Libera Terra Mediterraneo, Coop Sin Fronteras, Mediterre.bio. Attualmente è presidente di Goodland Srl.</p>
<p>Partiamo subito in quarta: considerando la problematica delle frodi da parte di chi sfrutta il bio per interessi personali e quella dei controlli non sempre attendibili, oggi qual è lo stato dell’arte del biologico? “Il <strong>tema delle frodi</strong> <strong>è sicuramente reale</strong> – risponde Cavazzoni – e purtroppo esiste in tutti gli ambiti lavorativi e della società, così come quello dei certificatori in diversi casi focalizzati sul business e non su una funzione di monitoraggio e guida, così come dovrebbe essere. Ma non è questo il problema principale del biologico, secondo me”.</p>
<p>E dove riscontra i principali elementi critici? “Nella sua commodizzazione, o meglio <strong>banalizzazione</strong>. Il biologico nasce per la sua forza propulsiva come inno alla vita e con la volontà di connettersi con il pianeta, creando coesistenza e partendo dalla consapevolezza di una interdipendenza profonda di cui vediamo concretamente con gli effetti sul clima e territori. Il pericolo è quindi pensare di fare agricoltura biologica seguendo una semplice ricetta, visto che la Commissione Europea ha stabilito in che cosa consiste fare biologico. Porto un esempio: anni fa in California ho visitato un campo di fragole di duecento ettari, a monocoltura, dove lavoravano messicani che comprendevano bambini e persone anziane, pagati pochissimo. Questa sarebbe l’azienda biologica più storica e famosa del contesto? Non direi, viste le varie contraddizioni. Altri esempi di banalizzazione sono le grandi industrie che dichiarano di fare prodotti biologici solo perché nei loro biscotti ci mettono dentro lo zucchero e la farina biologica; poi magari ci aggiungono conservanti e aromatizzanti. Non ha senso!”.</p>
<p>Per arginare questa banalizzazione selvaggia e tutelare chi fa il biologico vero che cosa proporrebbe di fare? Magari stringere le maglie dei criteri richiesti? “No, sarebbe inutile. È fondamentale fare passi avanti sul biologico lavorando sui grandi temi culturali, ambientali e sociali e per una sostenibilità vera. Questa oggi è la vera sfida: l’industria è interessata ai mercati, a noi interessano i territori. Ci sono tanti esempi di tutela del biologico che i fruitori stessi possono sostenere”. Tipo? “I <strong>mercati contadini</strong>, le occasioni in cui c’è relazione diretta tra chi produce e compra, l’incremento di fruitori del biologico, la <strong>ripopolazione delle campagne</strong> dove gli agricoltori hanno un ruolo di custodi del territorio: questi sono tutti passi avanti”.</p>
<p>Una lacuna del biologico che andrebbe risolta? “Bisogna continuare a evolvere con coerenza”, commenta Cavazzoni. “Prendo come esempio i<strong> biodistretti</strong>, che non sono una semplice accozzaglia di agricoltori, ma hanno l’intento di riportare una vita sana per tutti. Ecco, in questi distretti mi aspetto che ci si arrivi in bicicletta o con i mezzi pubblici, non in auto da lasciare in un grande parcheggio, come accade in alcuni casi”.</p>
<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Clarabella-Simone-lavori-in-vigna.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Clarabella-Simone-lavori-in-vigna-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-45257" /></a><figcaption>Simone Clarabella, mentre lavora in vigna</figcaption></figure>
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<h2 id="h-cascina-clarabella-la-franciacorta-dell-agricoltura-biologica-e-sociale">Cascina Clarabella, la Franciacorta dell’agricoltura biologica e sociale</h2>
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<p>Raggiungiamo il cuore della Franciacorta, sul territorio bresciano, dove ha sede Clarabella, cooperativa agricola e sociale onlus che fin dall’inizio ha voluto mettere in pratica con scrupolo e serietà l’agricoltura biologica, affrontando sfide e raggiungendo numerose soddisfazioni. A raccontarcele è<strong> Aldo Papetti</strong>, vicepresidente della coop ed enologo.</p>
<p>“Clarabella è nata nel 2002 da un’altra realtà per dare occasione di <strong>inclusione lavorativa</strong> a persone con disturbi e disabilità psichici”, spiega. “Il biologico ha rappresentato subito un caposaldo per noi: prendendoci cura delle persone non potevamo non farlo anche con la terra e i suoi prodotti”.</p>
<p><strong>Agricoltura sociale</strong> e <strong>biologica</strong> formano così un connubio inscindibile per la cooperativa bresciana, che dà vita al primo vigneto nel 2003: “Noi siamo la seconda azienda in Franciacorta ad aver adottato il biologico; pioniera è stata l’azienda <strong>Barone Pizzini</strong>, con cui abbiamo un rapporto di collaborazione”.</p>
<p>A dimostrazione che il vero biologico non è la banale esclusione di utilizzo di certe sostanze, ma l’attenzione profonda a tutto ciò che si sta facendo, Clarabella si distingue da molte realtà perché fa analizzare i terreni che coltiva: “In Franciacorta si è creato un polo di agronomi professionisti, il <strong>gruppo SATA</strong>, che segue le aziende specializzate sul biologico e sta facendo un bellissimo lavoro, tra cui appunto l’<strong>analisi dei terreni</strong>”, spiega Papetti. “Noi siamo associati a questo gruppo e ogni tot facciamo fare le analisi. Certo, hanno un costo, ma almeno c’è un vero controllo sulle sostanze presenti nella terra”.</p>
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<h2 id="h-aldo-papetti-cascina-clarabella-nel-bio-le-grandi-aziende-riescono-a-eludere-i-controlli">Aldo Papetti, Cascina Clarabella: “Nel bio le grandi aziende riescono a eludere i controlli”</h2>
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<p>Addentrandoci nel tema lavorativo chiediamo quale sia l’aspetto più faticoso da affrontare per chi quotidianamente, nel proprio lavoro imprenditoriale e agricolo, ha scelto la strada del biologico.</p>
<p>“Sicuramente il <strong>tempo</strong>, perché richiede più ore di lavoro, e i <strong>costi di gestione</strong>”, sottolinea Papetti. “Pensiamo ad esempio alle erbe infestanti: anziché usare il diserbante noi facciamo dei movimenti nella terra: un lavoro più impegnativo, ma che tutela dalle sostanze nocive”. E aggiunge: “Il biologico per sua caratteristica subisce ancora di più il <strong>meteo</strong>; non dimentichiamo annate difficili come quella del 2014, con una primavera e un’estate fortemente piovose, e anche quella del 2016. Se però le annate vanno bene traiamo doppio vantaggio”.</p>
<p>Tocchiamo il tasto dolente dei <strong>controlli</strong>: “Questo è sicuramente un tallone d’Achille per l’ambito. Per mia esperienza però ho trovato certificatori che sono sempre andati al fondo delle questioni. Il pericolo è più che altro a livello delle <strong>grandi aziende</strong>, che se cercano di fare le furbe in qualche modo purtroppo ci riescono”.</p>
<p>Affrontiamo infine un argomento spinoso, ossia la sfida del fare biologico in un territorio, quello <strong>bresciano</strong>, carico di bellezze e risorse, ma anche fortemente martoriato dall’<strong>inquinamento industriale</strong>: “Sì, si tratta di un territorio massacrato. Per fortuna le colline e la Franciacorta sono state meno colpite, ma ci sono zone, come quella della bassa bresciana, dove liquami e nitrati hanno avvelenato i terreni. Il problema della Franciacorta è avvenuto più che altro negli anni Ottanta e Novanta, dove ci hanno dato dentro parecchio con i diserbanti. Oggi con soddisfazione possiamo dire che grazie all’impegno degli agronomi del gruppo SATA la Franciacorta è quasi per metà a produzione biologica e con terreni controllati. Noi di Clarabella e altri abbiamo dimostrato che fare biologico è possibile”.</p>
<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@dirtjoy?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Zoe Schaeffer</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/organic-farm?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Unsplash</a></p>
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Bellingeri

Sara Bellingeri

Scrive fin da quando ha acchiappato in mano la sua prima matita e da allora la passione di raccontare e incontrare le storie non è mai sbiadita. Dal 2005 lavora come giornalista e responsabile ufficio stampa occupandosi soprattutto di diritti, ambiente, inclusione lavorativa, sanità e disabilità. Nel curriculum una laurea in Antropologia Filosofica, un master in comunicazione di eventi e tre libri. In testa la costante voglia di partire anche se il viaggio più emozionante glielo fanno fare ogni giorno i suoi bambini. “Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato”. La frase di Tennyson rappresenta al meglio il suo modo di vivere la vita, il lavoro e le esperienze.

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Sara Bellingeri - Informazione senza filtro

I vari aspetti del bio nel settore primario tra frodi, scetticismi e tutela dei territori. E un sistema di controlli non proprio inattaccabile.

L&#8217;agricoltura biologica vende, ma non sempre paga - Informazione senza filtro

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<p>Qualcuno pensa che il <strong>benessere degli animali negli allevamenti</strong> sia una preoccupazione solo per vegetariani, vegani e animalisti. Non è così. Ciascuno di noi dovrebbe pretendere che vivano serenamente. Per lo meno, dovrebbe farlo chiunque punti su un cibo buono, pulito e giusto (per citare lo slogan caro a Slow Food). Perché, come vedremo, la via maestra per affrontare la questione su larga scala è riassunta da questo principio: occorre convincere produttori e consumatori a “sacrificare” la quantità di carne a favore della qualità, che è garantita anche dal trattamento riservato agli animali.</p>



<p>C’è invece chi acquista e chi produce alimenti a basso costo, derivati da <strong>animali allevati in modo brutale</strong>; stressati e quindi colpiti facilmente da malattie (con un conseguente uso abnorme di antibiotici); privati di pascoli, fieno e foraggi freschi; nutriti con mangimi scadenti e pieni di additivi nocivi. Ciò che questi animali mangiano entra nella nostra dieta a base di carne, pesce, uova, latte e i loro derivati.</p>



<p>Non è il solo problema, dato che l’emergenza sanitaria ha evidenziato un fenomeno già noto agli addetti ai lavori: gli allevamenti intensivi possono diventare <strong>incubatori di microrganismi patogeni</strong>, vecchi e nuovi. Purtroppo c’è chi punta solo sul profitto – con pochissima attenzione per il resto, inclusa la nostra salute – e ha un obiettivo: far comprare più cibo (scadente) possibile ai prezzi più bassi.</p>



<p>Eppure scrive l’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare, istituita dall&#8217;UE nel 2002) sul suo sito: “La <strong>sicurezza della filiera</strong> è direttamente connessa al benessere degli animali&#8230; dati gli stretti legami (tra)… salute degli animali e malattie di origine alimentare”. Certo, a livello internazionale, comunitario e italiano le <strong>direttive</strong> ci sono. La direttiva 98/58/CE del Consiglio europeo definisce norme minime per la protezione degli ospiti degli allevamenti, altre norme UE prevedono standard generali nelle varie fasi (trasporto, macellazione, eccetera) e standard specifici per categorie (per esempio, vitelli, suini, galline ovaiole e polli da carne). Vari enti internazionali hanno emanato linee guida, dall’Organizzazione mondiale per la salute animale (OIE<a href="https://www.oie.int/en/animal-welfare/animal-welfare-at-a-glance/">)</a> al Consiglio d&#8217;Europa. In Italia, il <em>Piano nazionale per il benessere animale 2020</em> (PNBA) applica disposizioni previste dall’UE.</p>



<p>Per capire meglio,<em> SenzaFiltro</em> ne ha parlato con tre esperti: <strong>Piero Sardo</strong>, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità, tra i fondatori dell’associazione; la biologa <strong>Elisa Bianco</strong>, dal 2013 responsabile europea e per l’Italia del Settore alimentare di Compassion in World Farming (CIWF), la maggiore organizzazione internazionale per il benessere degli animali da allevamento (collabora, tra gli altri, con Aldi, Lidl, Ferrero, Barilla, Fumagalli Salumi, Eurovo, Chef Express); <strong>Arnaldo Santi</strong>, responsabile marketing di Fumagalli Salumi.</p>



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<h2 id="h-piero-sardo-slow-food-il-benessere-animale-un-istanza-che-deve-partire-dai-consumatori">Piero Sardo, Slow Food: “Il benessere animale è un’istanza che deve partire dai consumatori”</h2>



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<p>“Slow Food non è contro il consumo di carne, però c’è modo e modo di allevare gli animali. Sono stato tra i primi nell’associazione a spingere sulla questione”, dice <strong>Piero Sardo</strong>. Che ricorda: “Una dozzina di anni fa, durante un consiglio internazionale, feci passare una mozione con l’invito a non consumare foie gras, come si era già fatto con i salmoni d’allevamento. Avevo visitato alcune aziende in Francia ed ero rimasto inorridito. Dissi che non potevamo sostenere un <strong>diritto al piacere che si basa sulla sofferenza</strong>”.</p>



<p>La reazione? Sardo racconta che “scoppiò una forte polemica interna. Francesi, ungheresi, austriaci e parte dei tedeschi insorsero: ‘Escludiamo le produzioni più tradizionali, più contadine?’. Ho dovuto litigare ferocemente”. Come replicò? “Macché produzioni contadine. Ormai sono catene di montaggio in mano a grandi gruppi”.</p>



<p>Sardo oggi è convinto che, “sebbene il discorso in generale sia passato” dentro Slow Food, occorrano aggiustamenti: “Non si convince facilmente della giustezza della battaglia. Perché gli animali – pur se rispettati – alla fine ce li mangiamo. Questa è la barriera in <strong>un ragionamento che può apparire contraddittorio</strong>”.</p>



<p>Come cercate di sviluppare il discorso? Sardo risponde: “C’è un progetto che lanceremo nella XIII edizione di Cheese (<em>grande evento internazionale dedicato ai formaggi, dal 17 al 20 settembre a Bra, nel Cuneese,</em> <em>N.d.R.</em>). Vogliamo <strong>coinvolgere i ristoratori legati a Slow Food</strong>, perché è il modo più semplice per raggiungere i consumatori. Essi diranno: ridurremo del 50% i piatti di carne e per il resto useremo solo quella sostenibile. Sarebbe un passo avanti enorme. Mica si può usare la coercizione”.</p>



<p>I passi successivi? “I consumatori devono avere sempre la possibilità di capire – a cominciare dalle etichette – la provenienza, il tipo di allevamento, il genere di macellazione. Va resa obbligatoria, sulla base di verifiche, anche questo tipo di <strong>certificazione</strong>, altrimenti non è possibile distinguere tra fuffa e fatti concreti”.</p>



<p>Insomma, secondo il dirigente di Slow Food, “solo <strong>convincendo prima i consumatori</strong> si possono <strong>convincere tutti i produttori</strong> a cambiare strada”. Osserva: “Già si è diffusa, per fare un esempio, la scelta di non produrre salumi che contengono nitriti, dannosi per la salute: le imprese annusano l’aria e si adeguano, non sono mica sceme. Difficilmente le istituzioni statali, da sole, possono rimediare: si dovrebbero mettere contro le lobby di produttori di carne. Figuratevi”.</p>



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<h2 id="h-elisa-bianco-ciwf-allevamenti-inadeguati-scrivono-il-falso-sulle-confezioni">Elisa Bianco, CIWF: “Allevamenti inadeguati scrivono il falso sulle confezioni”</h2>



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<p>Appunto, le aziende vanno coinvolte. A <strong>Elisa Bianco</strong> (CIWF) spetta pure il compito di convincere i produttori di una circostanza: il benessere animale al centro delle politiche imprenditoriali è conveniente.</p>



<p>Afferma: “Noi riconosciamo l’allevamento come pratica, però vogliamo <strong>garantire un’esistenza degna di essere vissuta</strong>. CIWF ha migliorato la vita di più di due miliardi di animali nel mondo, soprattutto in Europa, Usa e Cina. Oltre tutto, l’impatto sulla salute umana di carne e derivati cattivi determina altissime spese per la collettività”.</p>



<p>Come procedete? “Prima chiediamo soprattutto <strong>trasparenza</strong>: l’azienda deve stabilire un piano graduale che diventi pubblico. Al centro ci possono essere vari aspetti da correggere, come abuso di gabbie, ricorso a mutilazioni, selezione delle razze in funzione del rapido accrescimento, utilizzo irresponsabile degli antibiotici”. Però alle aziende una produzione così costa di più. “<strong>L’onere si recupera</strong> col miglioramento della produttività e con un calo dei costi di approvvigionamento di prodotti cari, come gli antibiotici”.</p>



<p>Che cosa spinge alcune imprese a aderire? “Pesa molto una <strong>sensibilità sempre più crescente da parte dei consumatori</strong>. Conta anche la legislazione in tema di sicurezza alimentare. Inoltre alcuni scandali hanno spinto gli stessi investitori a chiedere miglioramenti”.</p>



<p>Le scelte dei consumatori dunque contano moltissimo, conferma la dirigente del CIWF: “Tutte le indagini rivelano che la gente è pronta a pagare di più prodotti che rispettano il benessere animale. Semmai oggi c’è un problema: è diventato di moda scrivere sulle confezioni che si cura questo aspetto, ma spesso quello che contengono arriva da <strong>allevamenti del tutto inadeguati</strong>. Non è illegale scriverlo, per ora, però <strong>l’acquirente viene disinformato</strong>”.</p>



<p><strong>In Italia le norme bastano?</strong> “L’Italia ha acquisito quelle dell’UE, l’area del mondo più avanzata. Per alcune specie ci sono direttive chiare e rispettate; è il caso delle galline ovaiole. In altri casi gli standard previsti non sono rispettati – con i suini, per esempio – o sono insufficienti: è il caso dei polli da carne. In altri ancora non esiste nulla, dai conigli alle vacche da latte. <strong>Sanzioni non sono previste</strong>, anche se l’UE ci sta lavorando”.</p>



<p>La dottoressa esprime però una preoccupazione per una recente iniziativa dei ministeri della Salute e delle Politiche agricole in Italia: “Si vuole introdurre l&#8217;etichettatura in base al cosiddetto <strong>SQNBA</strong> (<em>Sistema di qualità nazionale per il benessere animale,</em> <em>N.d.R.</em>), che sembra purtroppo destinato a prevedere <strong>standard insufficienti</strong>. Rischiano di essere etichettati in quel modo, per esempio, prodotti derivati da scrofe costrette nelle gabbie, a svantaggio di chi cura davvero il loro benessere”.</p>



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<h2 id="h-arnaldo-santi-fumagalli-salumi-occorre-sostenibilit-ambientale-ma-anche-economica">Arnaldo Santi, Fumagalli Salumi: “Occorre sostenibilità ambientale, ma anche economica”</h2>



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<p>Bussiamo alla porta di una delle imprese legate al CIWF. È il caso di Fumagalli Salumi: azienda familiare con radici nel 1920, ha tre stabilimenti a Nerviano (MI), Tavernerio (CO) e Langhirano (PR), 53 milioni di fatturato nel 2019, 190 addetti, un mercato esteso a 21 Paesi (oltre l’Italia), il 68% dei prodotti esportati, 90.000 maiali trattati ogni anno, certificazioni e riconoscimenti.</p>



<p><strong>Arnaldo Santi</strong>, uno di famiglia, elenca le loro regole sul benessere animale: spazi superiori a quelli previsti dalle normative; lettiere in paglia; antibiotici soltanto se sono indispensabili; no alla mutilazione di code e denti (i maiali privi di stress non mordono); alimentazione di qualità e controllata; tracciabilità della produzione; personale formato.</p>



<p>“Pensiamo da sempre che la materia prima debba venire da <strong>allevamenti di proprietà</strong>, anche per garantire trasparenza, sicurezza e qualità. Questa impostazione ha portato pure al nostro impegno per il benessere animale, avviato nel 2010”, dice Santi. “Oggi <strong>il prodotto piace ai consumatori</strong> anche <strong>per tutti i valori</strong> che ruotano intorno alla produzione. Vendiamo per due terzi all’estero perché altrove c’è maggiore sensibilità. Proprio dai mercati del Nord Europa ci sono arrivate le prime richieste di garanzie nel campo del benessere, più di dieci anni fa, e noi abbiamo risposto, iniziando poi a collaborare con Compassion”.</p>



<p>Però il manager non nasconde che “la difficoltà sta nel rendere compatibile questo approccio con l’esigenza di offrire prezzi non eccessivi al consumatore, altrimenti non si potrebbe andare avanti. <strong>Occorre la sostenibilità ambientale, ma pure quella economica</strong>”.</p>



<p>Insomma, l’equilibrio tra qualità e quantità – per produttori e consumatori – è la chiave di volta per garantire anche il benessere animale. Come direbbe Renzo Arbore: meditate, gente, meditate. E soprattutto imparate a scegliere.</p>



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Allevamenti e benessere animale: non dev&#8217;essere per forza un macello

<p>Martoriato dagli scarichi delle fabbriche negli anni Settanta, dalle plastiche, da anni di pesca selvaggia e abusiva. <strong>L’Adriatico</strong> ne ha passate e ne passa di tutti i colori, ma questo non significa che non conservi in sé la capacità di generare, ancora oggi, pesce sano e vario. E con un rispetto da parte degli operatori del settore che solo la preparazione può portare.</p>
<p>Nelle lagune venete. infatti, la storia s’intreccia con piccole realtà di grandi eccellenze, dove il rispetto per quel dono azzurro è diventato disciplina prioritaria, innovazione, occasione di rilancio per un mestiere antico come quello del <strong>pescatore</strong>, <strong>ma in chiave moderna</strong>. Ci ha sempre creduto così tanto da investire nella formazione <strong>Sandra Chiarato</strong>, Coordinatrice Donne Impresa Coldiretti Veneto, che per cinque anni, insieme ad Impresa Verde Coldiretti – l&#8217;anima dell&#8217;ente deputata alla formazione – ha premuto per ottenere l’avvallo della Regione ai <strong>corsi per pescatori</strong>.</p>
<p>Solo quest&#8217;anno il bando <strong>FEAMP</strong> (Fondo europeo per la politica marittima, la pesca e l&#8217;acquacoltura) ha approvato il progetto per la&nbsp;“<strong>Scuola di Pesca</strong>” che già opera per aggiornare i senior e che da settembre partirà per i giovani futuri&nbsp;professionisti del mare.</p>
<p>“Per cambiare il <strong>sillogismo pescatore-predatore</strong> è necessario formare i ragazzi con una concezione delle acque e della loro fauna completamente diversa”, dice la Chiarato. “Per rispettare il mare, per pescare nel modo giusto,&nbsp;qualcuno deve pur insegnare alle nuove generazioni&nbsp;che tecniche usare. Vanno spiegate le occasioni imprenditoriali che questo settore può offrire ancora oggi, e come la tecnologia ha reso attualmente questo mestiere durissimo un po’ meno duro, meno faticoso. Non è stato facile essere ascoltata, ma alla fine ce l’ho fatta. Ora anche per questo antico mestiere ci sarà una scuola. Del resto, qualcuno deve pur portare in tavola il cibo per le tantissime persone che lavorano davanti a un monitor”.</p>
<p>Ed ecco dunque i protagonisti di questo piccolo mondo antico, il regno dei prodotti ittici tipici dell’Adriatico veneto, dove gli abusivi hanno spesso straziato i fondali, ma dove da anni lavorano anche eccellenze del settore, <strong>modelli di sostenibilità</strong> pronti a sorprenderci, soprattutto ora che è pace fatta con l’UE. Dopo la lunga diatriba sulla taglia della vongola, infatti, lo scorso gennaio l’Unione ha accettato il mollusco veneto (22 millimetri di larghezza contro i 25 millimetri precedentemente imposti). Un segno, seppur tardivo, di cortesia istituzionale che ha rasserenato non poco gli operatori.</p>
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<h2 id="h-l-ostrica-rosa-e-gli-allevamenti-ecosostenibili-nel-delta-del-po">L’ostrica rosa e gli allevamenti ecosostenibili nel delta del Po</h2>
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<p>“Voi allevate le cozze più buone del mondo. Possibile non siate capaci di crescere anche le ostriche rosa?”</p>
<p>È cominciato tutto così, con una sfida benevola lanciata da un ostricoltore francese di terza generazione, <strong>Florence Tarbouriech</strong>, agli allevatori della prestigiosa cozza di Scardovari, nel cuore del Delta del Po. Da vent’anni acquirente convinto di questi&nbsp;molluschi che poi rivende ai cugini d’oltralpe, platea dai palati notoriamente raffinati, Tarbouriech ha conquistato e contagiato con il suo entusiasmo <strong>Alessio Greguoldo</strong>, 44 anni, che oggi è l’unico in Italia ad allevare le ostriche rosa con la <strong>tecnica della</strong> “<strong>marea solare</strong>” nelle acque di Scardovari.</p>
<p>La tecnica utilizzata e trasmessa da Tarbouriech è del tutto ecocompatibile perché funziona con energie rinnovabili. Curioso che a lanciare l’input sia stato un collega francese, il quale ha riconosciuto in queste acque la combinazione perfetta per un prodotto ittico sano e adatto alle tasche e al palato di tutti.</p>
<p>“In sostanza – spiega Greguoldo – riproduciamo le maree là dove non ci sono, dove non c’è quella che tecnicamente viene chiamata escursione, e che qui non supererebbe i cinquanta centimetri come avviene invece in Normandia. Attraverso dei pannelli che funzionano a energia solare ed eolica, <strong>simuliamo una marea</strong> alimentando dei motori che azionano tubi. Questi arrotolano le funi di ostriche, tirandole così fuori dall’acqua per un certo numero di ore al giorno, in base alle condizioni climatiche. L’impianto è controllabile da remoto, con una app, e questo naturalmente facilita molto il nostro mestiere”.</p>
<p>La varietà di ostrica porta il nome di Tarbouriech, dall’ostricoltore che ha inventato il sistema, e in Italia è più nota come <strong>ostrica rosa</strong>. Si distingue perché è più resistente e quindi più facilmente commerciabile, è più facile da pulire rispetto all’ostrica classica, e ha uno stato di carnosità, di riempimento, che rimane costante tutto l’anno. Soprattutto ha una sapidità mitigata dalle acque dolci, che in questo angolo di paradiso si mescolano a quelle salmastre soprattutto nei giorni in cui il vento di scirocco soffia forte.</p>
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<h2 id="h-il-rischio-dei-prodotti-nipponici-contaminati-da-fukushima">Il rischio dei prodotti nipponici contaminati da Fukushima</h2>
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<p>E mentre tanti luoghi comuni rimangono aggrappati alle coste dell’Adriatico, rischia di allentarsi l’attenzione nei confronti dei <strong>pericoli provenienti dal pesce di importazione</strong>, anche dal Paese del sol levante che ha dato i natali al sushi.</p>
<p>Recentissimo, infatti, è l’allarme lanciato dalla stessa Coldiretti e da&nbsp;Impresa Pesca Veneto.&nbsp;Secondo gli operatori del settore ci sarebbero in agguato&nbsp;<strong>21 milioni di chili di crostacei</strong>, <strong>molluschi</strong> e altre varietà ittiche giapponesi, cresciute nello stesso mare in cui il Governo ha deciso di riversare 1,25 milioni di tonnellate di <strong>acqua radioattiva</strong> trattata dalla centrale nucleare di <strong>Fukushima</strong>.</p>
<p>Eppure pesce e pescatori non mancano certo in Veneto, sebbene il settore arranchi a seguito della pandemia, a strascico del comparto della ristorazione. Sono 26.000 i locali che, in tempi normali, servono pesce nella Regione; 600 i pescherecci; 2.000 gli addetti. “Da anni – ricorda Greguoldo – la Sacca di Scardovari è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco, e non va dimenticato. È facile poi sentir sottolineare che il Po è inquinato, ma ricordo che affluenti diretti qui, non ve ne sono. I controlli sanitari sulla qualità dell’acqua, inoltre, sono costanti e serrati, e vengono fatti sia dal Consorzio che da organi esterni. Ogni prodotto del mare, infine, prima di essere venduto è rigorosamente sottoposto a un paio d’ore di stabulazione, cioè di depurazione”.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Marea.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Marea-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-45129" /></a></figure>
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<h2 id="h-la-pesca-in-veneto-tra-specie-da-proteggere-e-restituzione-al-mare">La pesca in Veneto tra specie da proteggere e restituzione al mare</h2>
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<p>Tra i tanti addetti impegnati in produzione tipiche, di provenienza sicura e a “miglio zero” in questo scampolo di Adriatico, ci sono anche i pescatori di <strong><em>moeche</em></strong>, piccola prelibatezza stagionale oggi pesantemente insidiata dai cambiamenti climatici, che provocano invasioni di specie non autoctone come le meduse. Le moeche sono i <strong>granchietti della laguna</strong> pescati agli inizi di autunno e di primavera, nel momento in cui fanno la muta, cioè lasciano il vecchio carapace per costruirsene uno più su misura.</p>
<p><strong>Domenico Rossi</strong> è uno dei venti pescatori di moeche della cooperativa San Marco, la più antica d’Italia, fondata a fine Ottocento, che raggruppa le maestranze storiche del settore. “Le reti vanno posizionate nelle secche lagunari in un certo modo a un metro, un metro e venti di profondità”, spiega Rossi. “Nelle reti rimangono poi decine di chili di pescato, ma si possono tenere solo pochissimi chili di moeche, che devono essere pescate quando sono in una precisa fase della muta. Tutto il resto viene restituito al mare e sarà pronto per la stagione successiva”. &nbsp;</p>
<p>La <strong>restituzione al mare</strong> è una regola ferrea per consentire una sana e fisiologica ripopolazione, e sta alla base della sostenibilità. Il grande traffico marittimo di navi da crociera e porta containers, però, ha fatto arrivare nelle acque dell’alto Adriatico migranti involontari: i <strong>grandi granchi blu dei Caraibi</strong>, che, ci spiega ancora Rossi, “non hanno nemici in natura qui, e quindi mangiano tutto, mentre&nbsp;non vengono mangiati da nessun’altra specie nelle nostre acque. Se fino a qualche anno fa ne trovavo uno ogni tanto, adesso la loro presenza è cresciuta in modo esponenziale”.</p>
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<h2 id="h-dalle-reti-da-pesca-alle-reti-social-il-pesce-a-km-zero-arriva-porta-a-porta">Dalle reti da pesca alle reti social: il pesce a km zero arriva porta a porta</h2>
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<p>Per controllare direttamente l’origine del pesce acquistato, la Coldiretti consiglia di verificare sul bancone l’etichetta, che per legge deve prevedere la zona di pesca, e scegliere la “<strong>zona Fao 37</strong>” se si vuole acquistare un prodotto pescato nei mari italiani.</p>
<p>E poi ci sono loro, quelli della nuova guardia, che per sensibilizzare i consumatori sull’importanza della pesca nostrana e illustrare i benefici dei prodotti ittici freschi passano con disinvoltura dalle reti dei pescherecci a quelle dei <strong>social</strong>. È il caso dei giovani imprenditori della&nbsp;<strong>Four Fish</strong>, cresciuti a bordo dei pescherecci di famiglia, e che già in epoca pre-COVID hanno vinto il concorso di Coldiretti “Oscar Green” per aver proposto la consegna di pesce fresco sottovuoto, porta a porta, come massima garanzia di freschezza e qualità a km zero.</p>
<p>“Per promuovere la capacità di riconoscere la qualità – spiega uno dei soci, <strong>Luca Veronese</strong> – ogni tanto facciamo dei piccoli concorsi scherzosi sui social. Si parte da un indovinello: capire dalla foto della coda di un pesce di quale pesce si tratta esattamente. I social diventano così una vetrina per la qualità ittica, perché mentre molti giovani si cimentano nel rebus, noi raccontiamo la storia. Delle nostre famiglie, delle nostre esperienze di pescatori. Ed è qui che il consumatore si appassiona e capisce davvero tutto il lavoro che c’è dietro”.</p>
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<p><em>In copertina Domenico rossi con le sue moeche</em></p>


In Veneto esiste una nuova attenzione verso l&#8217;ambiente marino, dalle scuole di pesca agli allevamenti ecosostenibili nel delta del Po.

Quant&#8217;è fragile l&#8217;Adriatico: dalla pesca selvaggia alla sostenibilità - Informazione senza filtro

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<p>Rispettare le norme e i contratti di lavoro per ottenere i contributi dell&#8217;Unione europea. È il principio sancito con la condizionalità sociale inscritta nel nuovo regolamento della Politica Agricola Comunitaria (PAC) per volontà dell&#8217;Europarlamento e con l&#8217;intento di introdurre un altro strumento finanziario di <strong>contrasto al caporalato e al lavoro nero/grigio</strong>, utile anche a ridurre la concorrenza sleale sofferta dalle imprese che operano legalmente.</p>



<p>In estrema sintesi: le aziende agricole che percepiranno contributi finanziari dall&#8217;Unione europea dovranno rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori e i contratti collettivi se non vorranno essere obbligate a restituire le somme ottenute.</p>



<p>E nessuno si meravigli che, dopo quindici anni di discussioni sollecitate dai sindacati e dalle organizzazioni che si occupano di diritti sociali, l&#8217;UE abbia deciso di mettere all&#8217;ordine del giorno il tema della <strong>legalità nei campi</strong>: non c&#8217;è Stato membro che non debba fare i conti con ampie o ampissime aree di illegalità e con la gestione criminale e mafiosa del reclutamento di manovalanza sottocosto.</p>



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<h2 id="h-se-non-sei-in-regola-niente-fondi-l-europa-si-muove-contro-il-caporalato">Se non sei in regola, niente fondi: l’Europa si muove contro il caporalato</h2>



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<p>Secondo il <strong>VII rapporto GRETA</strong>, sulla lotta contro la tratta di esseri umani, “il lavoro sommerso in agricoltura interessa in media il <strong>25&nbsp;% dei lavoratori europei</strong>, con una maggiore concentrazione nei Paesi del Mediterraneo e dell&#8217;Est Europa”. In Romania la percentuale sale al 40%, in Portogallo arriva al 60%, nell&#8217;area del Mediterraneo è saldamente al 30%. Poi ci sono i cantieri di Francia, Belgio e Germania affollati da irregolari, le strutture turistiche dei centri balneari e delle stazioni sciistiche in cui è diffusa l&#8217;area grigia della stagionalità, e perfino la grande industria del Nord Europa contribuisce ad alimentare un “sistema illegale organizzato che muove centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dalla parte più povera dell&#8217;Unione europea”.</p>



<p>Lo afferma <strong>Leonardo Palmisano</strong>, autore e editore d&#8217;inchieste e indagini su questo fenomeno, sottraendo all&#8217;Italia anche l&#8217;esclusività della gestione mafiosa: “La mafia rumena, quella bulgara e quella albanese utilizzano i propri canali di traffico anche per spostare braccia da un Paese all&#8217;altro”.</p>



<p>Proprio i Paesi dell&#8217;Est Europa, con alcuni del Nord, si sono finora opposti alla <strong>condizionalità sociale</strong>. Da ultimo l&#8217;hanno ribadito il 26 maggio scorso, quando si è riunito il Trilogo (composto dalle rappresentanze di Parlamento, Consiglio dei ministri e Commissione) ed è emersa la spaccatura tra i <strong>quattordici Stati favorevoli</strong> – guidati da Italia, Francia, Germania e Spagna – e i <strong>tredici contrari</strong>: &#8220;Nazioni per lo più governate dalla destra, animata anche da un senso di rivalsa nei confronti dei diritti sociali, spaventate dalla riduzione della mobilità di lavoratori, vitale per evitare l&#8217;esplosione di conflitti sociali interni”. È la considerazione di <strong>Pietro Ruffolo</strong>, responsabile delle Politiche europee della FLAI CGIL e vicepresidente della Federazione europea dei sindacati del cibo, dell&#8217;agricoltura e del turismo (EFFAT).</p>



<p>Proprio la Federazione è la prima firmataria della <strong>lettera</strong> sottoscritta da oltre 150 organizzazioni nazionali e continentali con cui si chiede ai vertici dell&#8217;UE il riconoscimento di “diritti, giustizia sociale e dignità sul lavoro” per “almeno dieci milioni di persone impiegate nell’<strong>agricoltura europea</strong>, principalmente come lavoratori stagionali, lavoratori a giornata o in altre condizioni di precarietà”, che soffrono “condizioni di lavoro disumane, salari bassi, lunghe ore di lavoro, un’alta percentuale di lavoro nero e alloggi al di sotto degli standard” e “cadono spesso preda di uno sfruttamento diffuso, comprese le pratiche dei caporali e altre forme di <strong>schiavitù moderna</strong>”.</p>



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<h2 id="h-condizionalit-sociale-le-ragioni-di-chi-contrario-troppa-burocrazia">Condizionalità sociale, le ragioni di chi è contrario: troppa burocrazia</h2>



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<p>Lo scudo sollevato a difesa dello status quo è “<strong>l&#8217;allungamento dei tempi burocratici</strong> a causa dei controlli da effettuare per verificare che le imprese abbiano operato legalmente”, spiega Ruffolo. Motivazione condivisa dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese, comprese quelle che sostengono la condizionalità sociale come Coldiretti: “I principi che la ispirano sono per noi riferimenti valoriali irrinunciabili per uno sviluppo equilibrato e sostenibile dell’agricoltura – afferma <strong>Romano Magrini</strong>, responsabile lavoro di Coldiretti – però dobbiamo evitare qualsiasi onere amministrativo aggiuntivo applicando norme e sistemi di controllo esistenti nei singoli Stati membri”.</p>



<p>Un argomento recepito dal nuovo testo normativo, tant&#8217;è che “l’unica novità che de facto viene a crearsi è un collegamento tra i controlli nazionali effettuati sulla base delle normative del diritto del lavoro esistenti e gli organismi pagatori che erogano i contributi PAC agli agricoltori”, spiega <strong>Pina Picierno</strong>, parlamentare del gruppo Socialisti e Democratici e componente della Commissione Agricoltura. “Nessuno dovrà espletare un’ulteriore pratica amministrativa, e manteniamo una PAC semplificata pur garantendo la distribuzione dei pagamenti a chi rispetti i diritti”.</p>



<p>“Oltre alla protezione dell’ambiente dobbiamo pensare a quella delle persone per avere una <strong>PAC sostenibile in tutti i sensi</strong>”, continua Picierno. “Con questa nuova norma avremo una concorrenza leale tra tutti gli agricoltori, e i pochi che se ne approfittano non riceveranno più i fondi europei”.</p>



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<h2 id="h-che-cos-e-come-si-entra-nella-rete-del-lavoro-agricolo-di-qualit">Che cos’è e come si entra nella rete del lavoro agricolo di qualità</h2>



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<p>La discussione sulla condizionalità sociale è, infatti, intrecciata a quella su “<strong>una nuova distribuzione dei pesi</strong> tra <strong>grandi strutture di produzione</strong> e vendita e <strong>piccole imprese agricole</strong>”, altro tema sottolineato da Pietro Ruffolo e oggetto di trattative in sede comunitaria. A sentire Romano Magrini, “chi si pone fuori dal sistema delle regole va penalizzato, per questo crediamo che nei rapporti di filiera sia decisiva anche l’attuazione nazionale della Direttiva Ue contro le pratiche sleali, che vieta alcune pratiche distorsive che penalizzano soprattutto gli agricoltori”.</p>



<p>Ipotizzando che la norma sia approvata e con alle spalle l&#8217;esperienza della legge italiana contro il caporalato, <strong>Yvan Sagnet</strong>, fondatore dell&#8217;associazione NoCap, individua uno strumento utile all&#8217;efficacia della condizionalità sociale nella effettiva costruzione della <strong>rete del lavoro agricolo di qualità</strong>.</p>



<p>“Possiamo e dobbiamo denunciare gli abusi e svolgere azioni repressive”, afferma. “Ancor più dobbiamo prevenire e <strong>rendere operativa la rete</strong>, che è la chiave di volta, individuando i soggetti gestori e apportando alcune modifiche ai requisiti necessari per farne parte”. Oggi, in sostanza, l&#8217;adesione si fonda sulla <strong>fotografia storica dell&#8217;azienda</strong>: se non ha commesso violazioni, può essere inserita nella rete; “ma il passato può essere diverso dal presente – sottolinea Sagnet – e avere le certificazioni penali in ordine non sempre vuol dire che l&#8217;azienda è realmente sana”.</p>



<p>Alla rete del lavoro agricolo di qualità fa riferimento anche Leonardo Palmisano, ipotizzando “<strong>corsie preferenziali nell&#8217;attribuzione dei fondi</strong> del Programma di Sviluppo Rurale regionale, perché l&#8217;eticità deve sostanziarsi in un vantaggio economico”. Per ottenere questo obiettivo bisogna superare “la debolezza delle organizzazioni di rappresentanza delle imprese agricole, comune a qualunque altro corpo intermedio, la frammentazione delle imprese stesse e la convinzione che sia utile la concorrenza al ribasso”, continua Palmisano. “Abbiamo bisogno di più orizzontalità dei processi di programmazione a livello territoriale per allargare la<strong> condivisione dei valori, anche economici</strong>”.</p>



<p>In fondo, conclude l&#8217;autore pugliese, con la condizionalità sociale “non si vuole mica imporre il socialismo, piuttosto si vuole dare valore al lavoro e alla qualità”.</p>



<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@ballaschottner?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Bence Balla-Schottner</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/agriculture?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Unsplash</a></p>



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Condizionalità sociale: l&#8217;agricoltura europea chiude i rubinetti ai caporali

<p>Qualcuno pensa che il <strong>benessere degli animali negli allevamenti</strong> sia una preoccupazione solo per vegetariani, vegani e animalisti. Non è così. Ciascuno di noi dovrebbe pretendere che vivano serenamente. Per lo meno, dovrebbe farlo chiunque punti su un cibo buono, pulito e giusto (per citare lo slogan caro a Slow Food). Perché, come vedremo, la via maestra per affrontare la questione su larga scala è riassunta da questo principio: occorre convincere produttori e consumatori a “sacrificare” la quantità di carne a favore della qualità, che è garantita anche dal trattamento riservato agli animali.</p>
<p>C’è invece chi acquista e chi produce alimenti a basso costo, derivati da <strong>animali allevati in modo brutale</strong>; stressati e quindi colpiti facilmente da malattie (con un conseguente uso abnorme di antibiotici); privati di pascoli, fieno e foraggi freschi; nutriti con mangimi scadenti e pieni di additivi nocivi. Ciò che questi animali mangiano entra nella nostra dieta a base di carne, pesce, uova, latte e i loro derivati.</p>
<p>Non è il solo problema, dato che l’emergenza sanitaria ha evidenziato un fenomeno già noto agli addetti ai lavori: gli allevamenti intensivi possono diventare <strong>incubatori di microrganismi patogeni</strong>, vecchi e nuovi. Purtroppo c’è chi punta solo sul profitto – con pochissima attenzione per il resto, inclusa la nostra salute – e ha un obiettivo: far comprare più cibo (scadente) possibile ai prezzi più bassi.</p>
<p>Eppure scrive l’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare, istituita dall&#8217;UE nel 2002) sul suo sito: “La <strong>sicurezza della filiera</strong> è direttamente connessa al benessere degli animali&#8230; dati gli stretti legami (tra)… salute degli animali e malattie di origine alimentare”. Certo, a livello internazionale, comunitario e italiano le <strong>direttive</strong> ci sono. La direttiva 98/58/CE del Consiglio europeo definisce norme minime per la protezione degli ospiti degli allevamenti, altre norme UE prevedono standard generali nelle varie fasi (trasporto, macellazione, eccetera) e standard specifici per categorie (per esempio, vitelli, suini, galline ovaiole e polli da carne). Vari enti internazionali hanno emanato linee guida, dall’Organizzazione mondiale per la salute animale (OIE<a href="https://www.oie.int/en/animal-welfare/animal-welfare-at-a-glance/">)</a> al Consiglio d&#8217;Europa. In Italia, il <em>Piano nazionale per il benessere animale 2020</em> (PNBA) applica disposizioni previste dall’UE.</p>
<p>Per capire meglio,<em> SenzaFiltro</em> ne ha parlato con tre esperti: <strong>Piero Sardo</strong>, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità, tra i fondatori dell’associazione; la biologa <strong>Elisa Bianco</strong>, dal 2013 responsabile europea e per l’Italia del Settore alimentare di Compassion in World Farming (CIWF), la maggiore organizzazione internazionale per il benessere degli animali da allevamento (collabora, tra gli altri, con Aldi, Lidl, Ferrero, Barilla, Fumagalli Salumi, Eurovo, Chef Express); <strong>Arnaldo Santi</strong>, responsabile marketing di Fumagalli Salumi.</p>
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<h2 id="h-piero-sardo-slow-food-il-benessere-animale-un-istanza-che-deve-partire-dai-consumatori">Piero Sardo, Slow Food: “Il benessere animale è un’istanza che deve partire dai consumatori”</h2>
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<p>“Slow Food non è contro il consumo di carne, però c’è modo e modo di allevare gli animali. Sono stato tra i primi nell’associazione a spingere sulla questione”, dice <strong>Piero Sardo</strong>. Che ricorda: “Una dozzina di anni fa, durante un consiglio internazionale, feci passare una mozione con l’invito a non consumare foie gras, come si era già fatto con i salmoni d’allevamento. Avevo visitato alcune aziende in Francia ed ero rimasto inorridito. Dissi che non potevamo sostenere un <strong>diritto al piacere che si basa sulla sofferenza</strong>”.</p>
<p>La reazione? Sardo racconta che “scoppiò una forte polemica interna. Francesi, ungheresi, austriaci e parte dei tedeschi insorsero: ‘Escludiamo le produzioni più tradizionali, più contadine?’. Ho dovuto litigare ferocemente”. Come replicò? “Macché produzioni contadine. Ormai sono catene di montaggio in mano a grandi gruppi”.</p>
<p>Sardo oggi è convinto che, “sebbene il discorso in generale sia passato” dentro Slow Food, occorrano aggiustamenti: “Non si convince facilmente della giustezza della battaglia. Perché gli animali – pur se rispettati – alla fine ce li mangiamo. Questa è la barriera in <strong>un ragionamento che può apparire contraddittorio</strong>”.</p>
<p>Come cercate di sviluppare il discorso? Sardo risponde: “C’è un progetto che lanceremo nella XIII edizione di Cheese (<em>grande evento internazionale dedicato ai formaggi, dal 17 al 20 settembre a Bra, nel Cuneese,</em> <em>N.d.R.</em>). Vogliamo <strong>coinvolgere i ristoratori legati a Slow Food</strong>, perché è il modo più semplice per raggiungere i consumatori. Essi diranno: ridurremo del 50% i piatti di carne e per il resto useremo solo quella sostenibile. Sarebbe un passo avanti enorme. Mica si può usare la coercizione”.</p>
<p>I passi successivi? “I consumatori devono avere sempre la possibilità di capire – a cominciare dalle etichette – la provenienza, il tipo di allevamento, il genere di macellazione. Va resa obbligatoria, sulla base di verifiche, anche questo tipo di <strong>certificazione</strong>, altrimenti non è possibile distinguere tra fuffa e fatti concreti”.</p>
<p>Insomma, secondo il dirigente di Slow Food, “solo <strong>convincendo prima i consumatori</strong> si possono <strong>convincere tutti i produttori</strong> a cambiare strada”. Osserva: “Già si è diffusa, per fare un esempio, la scelta di non produrre salumi che contengono nitriti, dannosi per la salute: le imprese annusano l’aria e si adeguano, non sono mica sceme. Difficilmente le istituzioni statali, da sole, possono rimediare: si dovrebbero mettere contro le lobby di produttori di carne. Figuratevi”.</p>
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<h2 id="h-elisa-bianco-ciwf-allevamenti-inadeguati-scrivono-il-falso-sulle-confezioni">Elisa Bianco, CIWF: “Allevamenti inadeguati scrivono il falso sulle confezioni”</h2>
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<p>Appunto, le aziende vanno coinvolte. A <strong>Elisa Bianco</strong> (CIWF) spetta pure il compito di convincere i produttori di una circostanza: il benessere animale al centro delle politiche imprenditoriali è conveniente.</p>
<p>Afferma: “Noi riconosciamo l’allevamento come pratica, però vogliamo <strong>garantire un’esistenza degna di essere vissuta</strong>. CIWF ha migliorato la vita di più di due miliardi di animali nel mondo, soprattutto in Europa, Usa e Cina. Oltre tutto, l’impatto sulla salute umana di carne e derivati cattivi determina altissime spese per la collettività”.</p>
<p>Come procedete? “Prima chiediamo soprattutto <strong>trasparenza</strong>: l’azienda deve stabilire un piano graduale che diventi pubblico. Al centro ci possono essere vari aspetti da correggere, come abuso di gabbie, ricorso a mutilazioni, selezione delle razze in funzione del rapido accrescimento, utilizzo irresponsabile degli antibiotici”. Però alle aziende una produzione così costa di più. “<strong>L’onere si recupera</strong> col miglioramento della produttività e con un calo dei costi di approvvigionamento di prodotti cari, come gli antibiotici”.</p>
<p>Che cosa spinge alcune imprese a aderire? “Pesa molto una <strong>sensibilità sempre più crescente da parte dei consumatori</strong>. Conta anche la legislazione in tema di sicurezza alimentare. Inoltre alcuni scandali hanno spinto gli stessi investitori a chiedere miglioramenti”.</p>
<p>Le scelte dei consumatori dunque contano moltissimo, conferma la dirigente del CIWF: “Tutte le indagini rivelano che la gente è pronta a pagare di più prodotti che rispettano il benessere animale. Semmai oggi c’è un problema: è diventato di moda scrivere sulle confezioni che si cura questo aspetto, ma spesso quello che contengono arriva da <strong>allevamenti del tutto inadeguati</strong>. Non è illegale scriverlo, per ora, però <strong>l’acquirente viene disinformato</strong>”.</p>
<p><strong>In Italia le norme bastano?</strong> “L’Italia ha acquisito quelle dell’UE, l’area del mondo più avanzata. Per alcune specie ci sono direttive chiare e rispettate; è il caso delle galline ovaiole. In altri casi gli standard previsti non sono rispettati – con i suini, per esempio – o sono insufficienti: è il caso dei polli da carne. In altri ancora non esiste nulla, dai conigli alle vacche da latte. <strong>Sanzioni non sono previste</strong>, anche se l’UE ci sta lavorando”.</p>
<p>La dottoressa esprime però una preoccupazione per una recente iniziativa dei ministeri della Salute e delle Politiche agricole in Italia: “Si vuole introdurre l&#8217;etichettatura in base al cosiddetto <strong>SQNBA</strong> (<em>Sistema di qualità nazionale per il benessere animale,</em> <em>N.d.R.</em>), che sembra purtroppo destinato a prevedere <strong>standard insufficienti</strong>. Rischiano di essere etichettati in quel modo, per esempio, prodotti derivati da scrofe costrette nelle gabbie, a svantaggio di chi cura davvero il loro benessere”.</p>
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<h2 id="h-arnaldo-santi-fumagalli-salumi-occorre-sostenibilit-ambientale-ma-anche-economica">Arnaldo Santi, Fumagalli Salumi: “Occorre sostenibilità ambientale, ma anche economica”</h2>
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<p>Bussiamo alla porta di una delle imprese legate al CIWF. È il caso di Fumagalli Salumi: azienda familiare con radici nel 1920, ha tre stabilimenti a Nerviano (MI), Tavernerio (CO) e Langhirano (PR), 53 milioni di fatturato nel 2019, 190 addetti, un mercato esteso a 21 Paesi (oltre l’Italia), il 68% dei prodotti esportati, 90.000 maiali trattati ogni anno, certificazioni e riconoscimenti.</p>
<p><strong>Arnaldo Santi</strong>, uno di famiglia, elenca le loro regole sul benessere animale: spazi superiori a quelli previsti dalle normative; lettiere in paglia; antibiotici soltanto se sono indispensabili; no alla mutilazione di code e denti (i maiali privi di stress non mordono); alimentazione di qualità e controllata; tracciabilità della produzione; personale formato.</p>
<p>“Pensiamo da sempre che la materia prima debba venire da <strong>allevamenti di proprietà</strong>, anche per garantire trasparenza, sicurezza e qualità. Questa impostazione ha portato pure al nostro impegno per il benessere animale, avviato nel 2010”, dice Santi. “Oggi <strong>il prodotto piace ai consumatori</strong> anche <strong>per tutti i valori</strong> che ruotano intorno alla produzione. Vendiamo per due terzi all’estero perché altrove c’è maggiore sensibilità. Proprio dai mercati del Nord Europa ci sono arrivate le prime richieste di garanzie nel campo del benessere, più di dieci anni fa, e noi abbiamo risposto, iniziando poi a collaborare con Compassion”.</p>
<p>Però il manager non nasconde che “la difficoltà sta nel rendere compatibile questo approccio con l’esigenza di offrire prezzi non eccessivi al consumatore, altrimenti non si potrebbe andare avanti. <strong>Occorre la sostenibilità ambientale, ma pure quella economica</strong>”.</p>
<p>Insomma, l’equilibrio tra qualità e quantità – per produttori e consumatori – è la chiave di volta per garantire anche il benessere animale. Come direbbe Renzo Arbore: meditate, gente, meditate. E soprattutto imparate a scegliere.</p>
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Marco Brando

Nato a Genova nel 1958 (Acquario ascendente Gemelli) e cresciuto alla Spezia, dopo un innamoramento per Medicina a Pavia, si è dedicato a Scienze politiche. Fa il giornalista dal 1982 e detesta da sempre il giornalismo addomesticato. Ha lavorato 16 anni e mezzo all&#8217;Unità, dove è stato un inviato e ha seguito, tra l&#8217;altro, l&#8217;inchiesta &#8220;Mani Pulite&#8221;. Nel 2000 si è trasferito a Bari per lanciare il Corriere del Mezzogiorno, cronaca pugliese del Corriere della Sera. Dal 2007 è di nuovo a Milano: come caporedattore di City, quotidiano free press del gruppo Rcs, fino al 2012; poi come caposervizio del Settimanale Nuovo (Cairo editore). Da luglio 2018 fa il free lance. Ha un blog su IlFattoQuotidiano.it, collabora con i siti d&#8217;informazione Strisciarossa.it e Tessere.org, scrive per FQ Millennium, mensile del Fatto Quotidiano. Tra i suoi libri: &#8220;Sud Est. Vagabondaggi estivi di un settentrionale in Puglia&#8221; (Palomar, Bari 2006), &#8220;Lo strano caso di Federico II di Svevia. Un mito medievale nella cultura di massa&#8221; (Palomar, Bari 2008; con prefazione e postfazione dei medievisti Raffaele Licinio e Franco Cardini) e &#8220;L&#8217;imperatore nel suo labirinto. Usi, abusi e riusi del mito di Federico II di Svevia&#8221; (Tessere, Firenze 2019; con prefazione e postfazione dei medievisti Giuseppe Sergi e Tommaso di Carpegna Falconieri). Gli sono stati conferiti alcuni premi giornalistici: l&#8217;ultimo è il premio nazionale &#8220;Antonio Maglio&#8221;, consegnato nel 2019 ad Alezio (Lecce). È socio dell&#8217;Associazione italiana di Public History (Aiph).

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Consumare carne in modo sostenibile si può, ma è una richiesta che deve partire dai consumatori: qualità al posto della quantità. L&#8217;opinione di Pietro Sardo di Slow Food, Elisa Bianco di CIWF e Arnaldo Santi di Fumagalli Salumi.

Allevamenti e benessere animale: non dev&#8217;essere per forza un macello - Informazione senza filtro

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<p>Nell’ultimo anno e mezzo la vendita online di prodotti anche alimentari, insieme alla nuova popolarità riscossa dai piccoli esercizi commerciali, ha rappresentato una costante.</p>



<p>Un fenomeno in crescita nell’ambito della cosiddetta GDO (Grande Distribuzione Organizzata) è stata la <strong>Marca del Distributore</strong>, espressione che fa riferimento ai prodotti commercializzati all’interno di questi punti vendita con lo stesso marchio dell’insegna del distributore.</p>



<p>Secondo i dati del <em><a href="http://www.marca.bolognafiere.it/media/marca/2021/allegati/Sintesi_XVII_Rapporto_MarcabyBolognaFiere.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Rapporto MARCA by BolognaFiere</a></em>, documento che analizza i prodotti a Marca del Distributore presentato lo scorso marzo, la vendita di questi prodotti ha raggiunto nel 2020<strong> gli 11,8 miliardi di euro</strong>, registrano una crescita del 9,6% in più rispetto all’anno precedente.</p>



<p>Alla base del successo, secondo il Rapporto, l’<strong>aumento dell’assortimento </strong>di questa tipologia di prodotti, e i <strong>prezzi</strong> sicuramente più accessibili rispetto ai marchi tradizionali o comunque più noti, oltre alla dimensione della <strong>sostenibilità</strong> intesa nella triplice accezione di sostenibilità per l’ambiente, per la comunità e per le persone, che rende i nostri prodotti in linea con quanto accade a livello internazionale.</p>



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<h2 id="h-mario-gasbarrino-ad-dec-italia-la-marca-del-distributore-misura-la-modernit-del-sistema-distributivo">Mario Gasbarrino, AD Decò Italia: “La Marca del Distributore misura la modernità del sistema distributivo”</h2>



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<p>A quanto pare non si tratta di un successo inaspettato, ma di un processo già avviato prima della pandemia. Questo sostiene <strong>Mario Gasbarrino</strong>, Amministratore Delegato di Decò Italia e strettamente legato in passato al Viaggiatore Goloso, che esiste da tempo come caso di eccellenza di Marca del Distributore con risultati molto positivi.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Gasbarrino.jpeg"><img width="1024" height="576" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Gasbarrino-1024x576.jpeg" alt="" class="wp-image-45242" /></a><figcaption>Mario Gasbarrino, AD di Decò Italia (<em>Photo Credits: Mark Up</em>)</figcaption></figure></div>



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<p>“Il mondo stava già cambiando e per effetto della pandemia c’è stata un’accelerazione. Le direzioni fondamentali di questo cambiamento sono da una parte la crescita dell’online, la crescita del canale discount e anche un’accelerazione, un po’ meno marcata ma comunque forte, della <strong>marca privata</strong>. Nei primi quattro mesi del 2021, rispetto al 2019, i prodotti a Marca del Distributore sono cresciuti del 15% contro il 5% delle marche leader, quindi c’è stata una grande accelerazione. Un altro dato rilevante riguarda la <strong>crescita delle vendite non promozionali</strong>, pari al 15 %, contro il 5% di quelle promozionali. Questo vuol dire che le persone hanno comprato meno in promozione”, afferma Gasbarrino.<br><br>Si può quindi iniziare ad affermare con una certa sicurezza che il costo non è più l’unico fattore chiave, ma iniziano a entrare in gioco fattori che hanno a che fare con la <strong>qualità</strong> e la <strong>reputazione</strong>: “L’affermazione della Marca Del Distributore è a mio avviso un misuratore della modernità del sistema distributivo di un Paese. È in ballo un tema di credibilità di un marchio rispetto a un altro. Se un’azienda mette il suo nome sulla marca privata non può permettersi di sbagliare; questo a lungo andare porta a rassicurare i clienti e fidelizzarli. Non si cerca più solo il prezzo in sé e per sé. Tutto ciò influisce inevitabilmente sulla reputazione di un marchio, che oggi è più che mai un aspetto fondamentale che guida le scelte”.</p>



<p>Aspetti, questi, che riguardano sia la grande distribuzione che le <strong>realtà più piccole</strong>, dove però la Marca del Distributore è meno presente per una serie di ragioni.</p>



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<h2 id="h-eleonora-graffione-consorzio-coralis-anche-noi-favoriti-dal-lockdown-puntiamo-su-e-commerce-e-whatsapp">Eleonora Graffione, Consorzio Coralis: “Anche noi, favoriti dal lockdown, puntiamo su e-commerce e WhatsApp”</h2>



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<p><strong>Eleonora Graffione </strong>è dal 2002, anno della sua costituzione, presidente del Consorzio Coralis, che rappresenta venti strutture sul mercato nazionale che operano sui canali retail e cash&amp;carry, per un totale di circa 2.000 dipendenti complessivamente. Il mondo di Coralis è quello delle cosiddette piccole realtà fortemente radicate sul territorio, perlopiù a gestione famigliare: “Non abbiamo le dimensioni dei grandi gruppi della distribuzione, vedi Conad o altri, ma c’è una grande forza imprenditoriale. A differenza delle cooperative le nostre realtà non hanno un centro distributivo, ma ciascuna è gestita in autonomia”.</p>



<p><br><br>L’ultimo anno e mezzo ha visto una crescita generalizzata: “Siamo stati favoriti dal lockdown anche a causa dello stop della ristorazione. Le realtà sul territorio in generale hanno conosciuto un revival, con molti benefici. Abbiamo chiuso molto bene il 2020 in quasi tutte le aziende che fanno capo a Coralis”.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/EleonoraGraffione.jpeg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/EleonoraGraffione-1024x683.jpeg" alt="" class="wp-image-45244" /></a><figcaption>Eleonora Graffione, Presidente del Consorzio Coralis (<em>Photo credits: Distribuzionemoderna.info</em>)</figcaption></figure>



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<p>L’evoluzione del mercato e il cambiamento delle abitudini di consumo hanno portato a un <strong>ripensamento delle modalità di vendita </strong>e di<strong> rapporto con la clientela</strong>: “Quasi tutte le realtà hanno potenziato il canale WhatsApp e l’utilizzo dei social per la vendita; in generale abbiamo potenziato la presenza in rete anche grazie a un accordo quadro con una società che gestisce una piattaforma e-commerce”.</p>



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<h2 id="h-la-marca-del-distributore-vincente-anche-per-i-piccoli">La Marca del Distributore è vincente anche per i piccoli?</h2>



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<p>Se questi fattori accomunano piccole realtà e Grande Distribuzione Organizzata, per il discorso legato al boom della Marca del Distributore la situazione è un po’ diversa. “Noi non abbiamo una Marca del Distributore: abbiamo istituito <strong>Etichetto</strong>, che è più che altro un protocollo elaborato con una cinquantina di fornitori dove si stabiliscono impegni e requisiti rispetto ai prodotti”.</p>



<p>Per la Graffione è difficile che prenda piede nelle piccole realtà: “A mio avviso la Marca del Distributore funziona quando ci sono grandi volumi, visto gli investimenti che comporta in termini di packaging e in generale attenzione al prodotto. La Marca del Distributore, da com’è nata, ha fatto grandissimi passi avanti; in questo modo prevale rispetto ai grandi nomi dell’industria, e alcune catene stanno facendo un ottimo lavoro. Quello che auspico è che la distribuzione faccia delle <strong>scelte di responsabilità sociale</strong> nell’origine del prodotto, soprattutto quando si parla di prodotti alimentari”.</p>



<p>Proprio il tema della <strong>sostenibilità</strong>, come visto, è sempre più protagonista di dati e ricerche sulla Marca del Distributore. Per la Graffione però qualche passo in avanti deve essere ancora fatto: “Fino a ieri questo argomento non era neanche nel nostro modus operandi, prima non si considerava. Oggi questi meccanismi esistono ancora, ma ci vuole un ragionamento a monte da parte del distributore. Siamo ancora un po’ distanti”.</p>



<p>Il successo dei prodotti “a marca privata” mostra però che la direzione dei consumi sta cambiando e che la strada già intrapresa è quella giusta. Che sia arrivato il momento che piccoli e grandi facciano fronte comune per consolidare la “nuova” cultura del consumo?</p>



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<p><em>Photo by <a href="https://unsplash.com/@vikimo?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Viki Mohamad</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/supermarket?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></em></p>


Made in supermercato: la rivincita dei prodotti a Marca del Distributore

<p>Rispettare le norme e i contratti di lavoro per ottenere i contributi dell&#8217;Unione europea. È il principio sancito con la condizionalità sociale inscritta nel nuovo regolamento della Politica Agricola Comunitaria (PAC) per volontà dell&#8217;Europarlamento e con l&#8217;intento di introdurre un altro strumento finanziario di <strong>contrasto al caporalato e al lavoro nero/grigio</strong>, utile anche a ridurre la concorrenza sleale sofferta dalle imprese che operano legalmente.</p>
<p>In estrema sintesi: le aziende agricole che percepiranno contributi finanziari dall&#8217;Unione europea dovranno rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori e i contratti collettivi se non vorranno essere obbligate a restituire le somme ottenute.</p>
<p>E nessuno si meravigli che, dopo quindici anni di discussioni sollecitate dai sindacati e dalle organizzazioni che si occupano di diritti sociali, l&#8217;UE abbia deciso di mettere all&#8217;ordine del giorno il tema della <strong>legalità nei campi</strong>: non c&#8217;è Stato membro che non debba fare i conti con ampie o ampissime aree di illegalità e con la gestione criminale e mafiosa del reclutamento di manovalanza sottocosto.</p>
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<h2 id="h-se-non-sei-in-regola-niente-fondi-l-europa-si-muove-contro-il-caporalato">Se non sei in regola, niente fondi: l’Europa si muove contro il caporalato</h2>
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<p>Secondo il <strong>VII rapporto GRETA</strong>, sulla lotta contro la tratta di esseri umani, “il lavoro sommerso in agricoltura interessa in media il <strong>25&nbsp;% dei lavoratori europei</strong>, con una maggiore concentrazione nei Paesi del Mediterraneo e dell&#8217;Est Europa”. In Romania la percentuale sale al 40%, in Portogallo arriva al 60%, nell&#8217;area del Mediterraneo è saldamente al 30%. Poi ci sono i cantieri di Francia, Belgio e Germania affollati da irregolari, le strutture turistiche dei centri balneari e delle stazioni sciistiche in cui è diffusa l&#8217;area grigia della stagionalità, e perfino la grande industria del Nord Europa contribuisce ad alimentare un “sistema illegale organizzato che muove centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dalla parte più povera dell&#8217;Unione europea”.</p>
<p>Lo afferma <strong>Leonardo Palmisano</strong>, autore e editore d&#8217;inchieste e indagini su questo fenomeno, sottraendo all&#8217;Italia anche l&#8217;esclusività della gestione mafiosa: “La mafia rumena, quella bulgara e quella albanese utilizzano i propri canali di traffico anche per spostare braccia da un Paese all&#8217;altro”.</p>
<p>Proprio i Paesi dell&#8217;Est Europa, con alcuni del Nord, si sono finora opposti alla <strong>condizionalità sociale</strong>. Da ultimo l&#8217;hanno ribadito il 26 maggio scorso, quando si è riunito il Trilogo (composto dalle rappresentanze di Parlamento, Consiglio dei ministri e Commissione) ed è emersa la spaccatura tra i <strong>quattordici Stati favorevoli</strong> – guidati da Italia, Francia, Germania e Spagna – e i <strong>tredici contrari</strong>: &#8220;Nazioni per lo più governate dalla destra, animata anche da un senso di rivalsa nei confronti dei diritti sociali, spaventate dalla riduzione della mobilità di lavoratori, vitale per evitare l&#8217;esplosione di conflitti sociali interni”. È la considerazione di <strong>Pietro Ruffolo</strong>, responsabile delle Politiche europee della FLAI CGIL e vicepresidente della Federazione europea dei sindacati del cibo, dell&#8217;agricoltura e del turismo (EFFAT).</p>
<p>Proprio la Federazione è la prima firmataria della <strong>lettera</strong> sottoscritta da oltre 150 organizzazioni nazionali e continentali con cui si chiede ai vertici dell&#8217;UE il riconoscimento di “diritti, giustizia sociale e dignità sul lavoro” per “almeno dieci milioni di persone impiegate nell’<strong>agricoltura europea</strong>, principalmente come lavoratori stagionali, lavoratori a giornata o in altre condizioni di precarietà”, che soffrono “condizioni di lavoro disumane, salari bassi, lunghe ore di lavoro, un’alta percentuale di lavoro nero e alloggi al di sotto degli standard” e “cadono spesso preda di uno sfruttamento diffuso, comprese le pratiche dei caporali e altre forme di <strong>schiavitù moderna</strong>”.</p>
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<h2 id="h-condizionalit-sociale-le-ragioni-di-chi-contrario-troppa-burocrazia">Condizionalità sociale, le ragioni di chi è contrario: troppa burocrazia</h2>
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<p>Lo scudo sollevato a difesa dello status quo è “<strong>l&#8217;allungamento dei tempi burocratici</strong> a causa dei controlli da effettuare per verificare che le imprese abbiano operato legalmente”, spiega Ruffolo. Motivazione condivisa dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese, comprese quelle che sostengono la condizionalità sociale come Coldiretti: “I principi che la ispirano sono per noi riferimenti valoriali irrinunciabili per uno sviluppo equilibrato e sostenibile dell’agricoltura – afferma <strong>Romano Magrini</strong>, responsabile lavoro di Coldiretti – però dobbiamo evitare qualsiasi onere amministrativo aggiuntivo applicando norme e sistemi di controllo esistenti nei singoli Stati membri”.</p>
<p>Un argomento recepito dal nuovo testo normativo, tant&#8217;è che “l’unica novità che de facto viene a crearsi è un collegamento tra i controlli nazionali effettuati sulla base delle normative del diritto del lavoro esistenti e gli organismi pagatori che erogano i contributi PAC agli agricoltori”, spiega <strong>Pina Picierno</strong>, parlamentare del gruppo Socialisti e Democratici e componente della Commissione Agricoltura. “Nessuno dovrà espletare un’ulteriore pratica amministrativa, e manteniamo una PAC semplificata pur garantendo la distribuzione dei pagamenti a chi rispetti i diritti”.</p>
<p>“Oltre alla protezione dell’ambiente dobbiamo pensare a quella delle persone per avere una <strong>PAC sostenibile in tutti i sensi</strong>”, continua Picierno. “Con questa nuova norma avremo una concorrenza leale tra tutti gli agricoltori, e i pochi che se ne approfittano non riceveranno più i fondi europei”.</p>
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<h2 id="h-che-cos-e-come-si-entra-nella-rete-del-lavoro-agricolo-di-qualit">Che cos’è e come si entra nella rete del lavoro agricolo di qualità</h2>
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<p>La discussione sulla condizionalità sociale è, infatti, intrecciata a quella su “<strong>una nuova distribuzione dei pesi</strong> tra <strong>grandi strutture di produzione</strong> e vendita e <strong>piccole imprese agricole</strong>”, altro tema sottolineato da Pietro Ruffolo e oggetto di trattative in sede comunitaria. A sentire Romano Magrini, “chi si pone fuori dal sistema delle regole va penalizzato, per questo crediamo che nei rapporti di filiera sia decisiva anche l’attuazione nazionale della Direttiva Ue contro le pratiche sleali, che vieta alcune pratiche distorsive che penalizzano soprattutto gli agricoltori”.</p>
<p>Ipotizzando che la norma sia approvata e con alle spalle l&#8217;esperienza della legge italiana contro il caporalato, <strong>Yvan Sagnet</strong>, fondatore dell&#8217;associazione NoCap, individua uno strumento utile all&#8217;efficacia della condizionalità sociale nella effettiva costruzione della <strong>rete del lavoro agricolo di qualità</strong>.</p>
<p>“Possiamo e dobbiamo denunciare gli abusi e svolgere azioni repressive”, afferma. “Ancor più dobbiamo prevenire e <strong>rendere operativa la rete</strong>, che è la chiave di volta, individuando i soggetti gestori e apportando alcune modifiche ai requisiti necessari per farne parte”. Oggi, in sostanza, l&#8217;adesione si fonda sulla <strong>fotografia storica dell&#8217;azienda</strong>: se non ha commesso violazioni, può essere inserita nella rete; “ma il passato può essere diverso dal presente – sottolinea Sagnet – e avere le certificazioni penali in ordine non sempre vuol dire che l&#8217;azienda è realmente sana”.</p>
<p>Alla rete del lavoro agricolo di qualità fa riferimento anche Leonardo Palmisano, ipotizzando “<strong>corsie preferenziali nell&#8217;attribuzione dei fondi</strong> del Programma di Sviluppo Rurale regionale, perché l&#8217;eticità deve sostanziarsi in un vantaggio economico”. Per ottenere questo obiettivo bisogna superare “la debolezza delle organizzazioni di rappresentanza delle imprese agricole, comune a qualunque altro corpo intermedio, la frammentazione delle imprese stesse e la convinzione che sia utile la concorrenza al ribasso”, continua Palmisano. “Abbiamo bisogno di più orizzontalità dei processi di programmazione a livello territoriale per allargare la<strong> condivisione dei valori, anche economici</strong>”.</p>
<p>In fondo, conclude l&#8217;autore pugliese, con la condizionalità sociale “non si vuole mica imporre il socialismo, piuttosto si vuole dare valore al lavoro e alla qualità”.</p>
<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@ballaschottner?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Bence Balla-Schottner</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/agriculture?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Unsplash</a></p>
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Gianni di Bari

Ho speso 34 dei miei quasi 58 anni ad occuparmi di comunicazione. Ho iniziato come giornalista, pubblicista dal ‘92 e professionista dal ’97, per testate locali, regionali e nazionali. Sono passato alla comunicazione per le aziende e per le istituzioni, che pratico tutt’oggi. L&#8217;interesse professionale si è focalizzato sulla promozione delle produzioni agroalimentari italiane, anche facendo leva sulle connessioni tra cibo e cultura, e su azioni di marketing territoriale orientate all&#8217;incremento dei flussi turistici, anche attraverso la valorizzazione delle forme d&#8217;arte tradizionali. Nel mentre ho fatto parte del gruppo di progettazione e organizzazione del Gargano Film Festival, prima rassegna cinematografica estiva realizzata nel territorio garganico, e del concorso Sud in Corto, realizzato in collaborazione con la Warner Bros. Ho presieduto il Circolo Arci Bellamì, luogo di promozione della cultura teatrale e musicale di base, e gestito la vineria Anime Brille, nel centro storico di Foggia, dove organizzo rassegne teatrali, musicali e librarie. Il tempo del mio volontariato lo dedico all&#8217;organizzazione e alla comunicazione di eventi culturali e comunitari per l’associazione Casa Di Vittorio. MOTTO Sono senza filtro perché condividere un’opinione diversa fa bene a chi legge &#8212; e-mail gianni.db@fiordirisorse.eu Città di origine Foggia Città di adozione Quella dove trascorrerò la vecchiaia in riva al mare Titolo di studio Diploma di maturità scientifica Il mio lavoro È prevalente l’attività di comunicazione istituzionale e assistenza legislativa. Poi organizzo eventi ed elaboro progetti di marketing territoriale mentre collaboro a Senza Filtro Per SenzaFiltro scrivo di Attualità e politica Film preferito C’era una volta in America (Sergio Leone), però ho pianto al termine di The rise of Skywalker (ultimo capitolo della saga di Star Wars 40 anni dopo il primo visto al cinema) Disco preferito “Harvest” Neil Young (solo perché è stata la mia porta d’accesso al rock ‘n ‘roll) Libro preferito Tutto ciò che hanno scritto Borges e Calvino

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