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<p>No, non è sinonimo del posto fisso. La domanda a cui risponde questo numero è: siamo al sicuro, mentre lavoriamo, o forse gli incidenti e le malattie sono più insidiosi e diffusi di quanto crediamo?</p>


Numero 107 &#8211; Un posto sicuro

No, non è sinonimo del posto fisso. La domanda a cui risponde questo numero è: siamo al sicuro, mentre lavoriamo, o forse gli incidenti e le malattie sono più insidiosi e diffusi di quanto crediamo?

Numero 107 - Un posto sicuro

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<p>Si considera un liberale allo stato puro e un’inguaribile ottimista. Ma quando lo trascini in un giudizio sulle liberalizzazioni e le privatizzazioni che hanno costellato l’economia italiana dopo la caduta dei boiardi di Stato negli anni Ottanta il suo giudizio è severo, senza appello: “In molti casi siamo passati <strong>da uno Stato onnipresente a uno Stato corporativo</strong>. E in alcuni casi dal monopolio pubblico a quello privato. La politica delle concessioni? Alcuni dei protagonisti delle <strong>privatizzazioni</strong> hanno pensato che si potessero fare <strong>senza regole</strong>. E questa politica dissennata ha prodotto tragedie come, ad esempio, il crollo del ponte Morandi”.</p>



<p><strong>Pietro Paganini</strong>, 46 anni, analista e divulgatore economico e geopolitico, professore aggiunto in Business Administration presso la Fox School of Business della Temple University di Philadelphia (2015) e presso il Dipartimento di Business Administration della John Cabot University di Roma (2008), fondatore di <em>Competere –</em> Policies for Sustainable Development (una piattaforma di professionisti che produce analisi e ricerche per innovare i processi produttivi), si considera un outsider della comunità economica e finanziaria. “Una voce fuori dal coro” come lui stesso si definisce.</p>



<p>Lo abbiamo invitato a fare una riflessione sul tema assai ostico e controverso delle <strong>liberalizzazioni</strong> e sul <strong>decreto concorrenza</strong> firmato dal Governo Draghi.</p>



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<p><strong>Partiamo da Palazzo Chigi. Che cosa ne pensa del decreto sulla concorrenza firmato dal governo presieduto da Mario Draghi?</strong><strong></strong></p>



<p>Se lo guardiamo da un certo punto di vista dovremmo essere ottimisti: finalmente in materia di concorrenza e liberalizzazioni qualcosa si muove. Si rende conto che era dai tempi di Luigi Bersani che i governi non ponevano l’esigenza di mettere mano alle liberalizzazioni? Lei mi diceva che l’ha letto superficialmente, il decreto, ma io le devo dire che non poteva fare altrimenti: purtroppo quel documento è superficiale, non entra nei dettagli, si limita a porre con un certo vigore il problema. Non addebito a Draghi questo limite. Penso che il presidente del Consiglio abbia voluto porre in primo luogo un principio programmatico di grande importanza, e questo non è cosa di poco conto. Naturalmente toccherà al Parlamento e ai singoli ministeri entrare nei dettagli. E qui iniziano le note dolenti, a mio parere.</p>



<p><strong>Mi pare di capire che il suo ottimismo comincia già a vacillare. Che cosa non la convince del programma del Governo Draghi in materia di concorrenza e liberalizzazioni?</strong><strong></strong></p>



<p>Quello che preoccupa non è Mario Draghi. Lui è un uomo pragmatico, ha messo in priorità un programma e mostra di volerlo realizzare con un certo slancio. E allora, dirà lei, dov’è il problema? Le confesso che sono pessimista su chi lo circonda; non tanto i singoli ministri, ma i partiti che hanno dato vita a questo governo. E che in alcuni casi mi pare rispondano più agli interessi corporativi di alcuni settori della società piuttosto che all&#8217;interesse dei cittadini.</p>



<p><strong>Mi faccia indovinare: si riferisce alle concessioni delle aziende che gestiscono i centri balneari o ai tassisti, o alla corporazione dei notai e dei farmacisti? Perché mi pare che lì sia stato rinviato tutto purché nulla cambi.</strong><strong></strong></p>



<p>Non voglio essere così severo. Mentre effettivamente per i notai non cambierà nulla, per le aziende balneari Draghi ha fatto una proposta realistica: facciamo innanzitutto una mappatura di queste aziende, apriamo questo mercato alla concorrenza con delle gare e riconosciamo dei vantaggi a quelle famiglie che in questi anni hanno fatto investimenti negli stabilimenti balneari. Mi sembra una proposta equilibrata da perseguire. Per quanto riguarda invece i tassisti, siamo a un punto di non ritorno, e comunque non più rinviabile. Hanno impedito qualsiasi liberalizzazione, hanno approfittato di un mercato chiuso alla concorrenza e ora si trovano in crisi: come mi confermava lei, in una città come Milano i depositi di taxi sono stracolmi. Come mai? È il risultato di un mancato cambiamento. Oggi in Italia ci sono in questo settore circa 25.000 addetti. Se si riuscisse a far entrare altri soggetti si potrebbe arrivare a 50.000 addetti, magari con mezzi di trasporto più sostenibili.</p>



<p><strong>Nel settore dell’energia la liberalizzazione c’è stata, basti pensare alle centinaia di telefonate di aziende che si propongono di fornire luce e gas.</strong><strong></strong></p>



<p>Mi permetta di dubitare che quella sia vera concorrenza. Purtroppo, soprattutto nel settore dell’energia, grazie alla costituzione di veri e propri cartelli tra le aziende produttrici e distributrici il cittadino è impotente, è di fronte a un finto regime di libertà. La definirei concorrenza monopolistica. Quando i servizi non migliorano e ci sono accordi non dichiarati tra i provider non c’è concorrenza.</p>



<p><strong>Mi scusi professor Paganini, ma non le pare che in questo Paese la politica delle concessioni abbia fatto nascere una nuova forma di rendita di posizione e abbia provocato delle tragedie, come ad esempio il crollo del ponte Morandi?</strong><strong></strong></p>



<p>Lei tocca un tasto assai delicato. E sa perché le dico questo? Perché purtroppo in Italia alcuni operatori hanno interpretato le privatizzazioni come se ognuno potesse fare quello che vuole. In realtà le privatizzazioni raggiungono il loro scopo se rafforzano i servizi ai cittadini e vengono rispettate le regole. Lei citava il crollo del ponte Morandi: quello è un esempio di non rispetto delle regole. Se non ci sono regole si rischia di passare da un monopolio di Stato a un monopolio dei privati. Soltanto con il rispetto delle regole e i controlli la politica delle concessioni può essere fonte di benessere per i cittadini. Prendiamo come esempio il Green pass: qualche anno fa lo avrei definito un provvedimento fascista, autoritario. Oggi lo considero uno strumento utile a far rispettare le regole della convivenza.</p>



<p><strong>Forse al fondo di tutte queste questioni c’è un problema culturale. Lei che ne dice?</strong><strong></strong></p>



<p>Certo che c’è un problema culturale. E la cultura si forma su valori condivisi mentre spesso la tutela da parte dello Stato è riservata a pochi gruppi. Soprattutto in Italia, il Parlamento, che nella nostra Repubblica dovrebbe essere sovrano, subisce pesantemente il potere della burocrazia, e spesso è asservito a interessi privati. Finché ci sarà questa cultura non si andrà da nessuna parte.</p>



<p><strong>Torniamo alla cronaca politica dell’epoca di Mario Draghi: che valutazione dà della situazione attuale?</strong><strong></strong></p>



<p>Le sembrerà strano, ma ancora una volta voglio affidarmi all’ottimismo della ragione. Io spero che si proceda nel processo di liberalizzazione di alcuni gangli vitali della nostra economia. E mi auguro che vengano fatte non per favorire pochi centri di potere, ma per favorire i cittadini. Però devo constatare che questo obiettivo si può realizzare se si affronta un tema che a me appare cruciale.</p>



<p><strong>A che cosa si riferisce?</strong><strong></strong></p>



<p>Mi riferisco alla crisi della democrazia che tocca tutto il mondo, non esclusa l’Italia. Mi spiego: io sono un sostenitore di Mario Draghi, penso che sia l’uomo giusto per aiutarci a uscire dalla crisi. Ma penso anche che non ci si può affidare a un solo uomo per affrontare una crisi così profonda. E invece mi pare che i partiti stiano facendo proprio questo, si affidano a un uomo, probabilmente perché non hanno un’alternativa credibile, e mi creda: in queste condizioni politiche le liberalizzazioni non le faremo mai. Prenda gli applausi al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Certo che se li merita, quegli applausi, ma ho trovato fastidioso quel gesto da parte della politica, perché ancora una volta dimostra la debolezza dei partiti e la incapacità di proporre un progetto alternativo. Invece che delegare la politica a un uomo solo, sia esso Mattarella o Draghi, i partiti dovrebbero interrogarsi sul perché fino a ora non si sono fatte liberalizzazioni nell’interesse dei cittadini. Che risposta mi do io? È la paura del cambiamento. È da lì che dobbiamo partire se vogliamo che qualcosa muti davvero nel nostro Paese.</p>



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<p><em>Photo credits: affaritaliani.it</em></p>


L&#8217;economista Pietro Paganini: &#8220;Liberalizzazioni? Con partiti così deboli non le faremo mai&#8221;


<p>Ho letto in pochi giorni il nuovo libro di <strong>Mariangela Pira</strong>,<strong> <em>Il mondo nuovo</em> </strong>(Chiarelettere 2021), e per chi come me segue il suo podcast <em>3 fattori</em> non ha deluso le aspettative, ma neanche le ha entusiasmate.</p>



<p>Mariangela Pira, giornalista professionista, è una brillante <strong>conduttrice e reporter di Sky Tg24</strong>. La geopolitica, e in particolare la geopolitica economica, sono il suo pane quotidiano, e i suoi libri editi da Chiarelettere sono un’appendice del suo operato.</p>



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<h2 id="h-come-cambia-il-mondo-geopolitico-dopo-il-covid-19">Come cambia il mondo geopolitico dopo il COVID-19</h2>



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<p>Con <em>Il mondo nuovo</em> (Chiarelettere, 2021), che si configura come una naturale prosecuzione del precedente <em>Anno Zero d.C.</em> (Chiarelettere, 2020), la Pira racconta con un’indagine capillare cosa è cambiato e <strong>come cambierà il mondo dopo la crisi causata dal COVID-19</strong>, che ha messo a nudo le fragilità del nostro sistema globalizzato e segnato una cesura storica tra un prima e un dopo.</p>



<p><strong>Fragilità</strong> tanto esterne quanto interne. Non è stato semplice leggere nero su bianco quello che ci è successo in questi due anni. Appartengo ad una generazione, nata negli anni Ottanta-Novanta, che ha subito un tracollo finanziario nel 2008, e all’alba del 2020 pensava di essersi lasciata il peggio alle spalle, e con esso i suoi termini freddi e complessi – spread, mutui subprime e simili.</p>



<p>E invece a fine 2021 <strong>il surreale è diventato reale</strong>. Nulla sarà più come prima, e nel bene e nel male dobbiamo farcene una ragione. Il COVID-19 ha stravolto le nostre vite, e nuove terminologie sono diventate il nostro sapere quotidiano. <strong>Draghi</strong>, dopo averci salvato dalla Grande Recessione, domina come un sovrano illuminato il Recovery Fund in Europa, si spera che il PNRR inietti speranza, oltre che soldi, nel nostro Paese “da rimodernare”, e nel giro di due anni siamo diventati tutti virologi, economisti, ideologi di differenti fazioni (vax o no vax), affamati di dire la nostra.</p>



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<h2 id="h-un-analisi-basata-sui-confronti-tra-epoche-di-grande-cambiamento">Un’analisi basata sui confronti tra epoche di grande cambiamento</h2>



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<p>Nelle 276 pagine del libro, Mariangela Pira cerca di <strong>cavalcare l’onda di confusione</strong> creata da questo mondo nuovo e di fare ordine. Come scritto nel sottotitolo, prova a raccontarlo con parole semplici a fronte di una copertina dove risalta il suo volto solare e rassicurante. La professionalità al servizio di tutti, una perfetta operazione di marketing in un mondo alla deriva.</p>



<p>Così l’incognita sul futuro ha un sapore diverso, più mite, e ci si appella alla storia per ricordarci <strong>come eravamo e come potremmo essere</strong>.</p>



<p>La scelta storica del <strong>primo capitolo</strong>, all’interno della quale si collegano tutte le tematiche successive, svela la <strong>chiave di lettura</strong> della Pira sul post pandemia. L’autrice, con un’analisi su difficoltà e politiche di due epoche distinte – il dopoguerra e la nostra – rimarca l’importanza di cogliere dal nostro passato una visione lungimirante nel ricostruire dalle fondamenta, grazie agli aiuti ricevuti, quello che è stato distrutto. Ma, come ricorda lei, ad avercene nel mondo di oggi de “gli Einaudi, i De Gasperi, che hanno riscritto la Repubblica. Come loro non possiamo permetterci di rattoppare, dobbiamo ricostruire”.</p>



<p>In questa digressione nella storia recente l’autrice tesse la sua <strong>inchiesta interdisciplinare</strong>, dove agli argomenti cruciali si collegano riflessioni e possibili soluzioni, con un forte richiamo allo spirito critico del lettore e alla responsabilità del singolo cittadino. Perché proprio dall’esperienza con la pandemia è emersa in Italia una “<strong>drammatica arretratezza istituzionale e sociale</strong> rispetto al principio di <strong>responsabilità collettiva</strong>”, al confronto con Paesi esteri come Taiwan e la Corea del Sud, dove istituzioni e cittadini si sono mossi insieme con consapevolezza e preparazione.</p>



<p>Sono rimasta invece delusa dal paragrafo intitolato “<strong>Il ritardo del Sud</strong>”, in cui i diversi esperti intervistati, tra cui spiccano <strong>Carlo Amenta</strong> (economista) e <strong>Lucio Di Gaetano</strong> (investment manager) evidenziano come piaga d’Egitto del Meridione, la <strong>cultura del sussidio</strong> che disincentiva il lavoro. Mi piacerebbe farli confrontare con alcuni dei più importanti meridionalisti contemporanei, come il prof. Gianfranco Viesti o il giornalista Pino Aprile, per smontare o almeno attivare un dibattito onesto e critico sulla condizione del Mezzogiorno rispetto a chi vuole banalizzare il tutto con frasi a effetto e slogan senza contenuto.</p>



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<h2 id="h-perche-leggere-il-mondo-nuovo">Perché leggere <em>Il mondo nuovo</em></h2>



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<p>Questo, a mio avviso, è il motivo per invitarvi a leggere questo libro: un connubio vincente tra <strong>contenuti di qualità spiegati con chiarezza</strong>, dove la teoria incontra la pratica con i consigli di molti esperti dei rispettivi settori, per orientarsi con serietà e concretezza nel nuovo mondo.</p>



<p>Scritto per chi non mastica di economia, <em>Il mondo nuovo</em> è un’opera che mira al difficile <strong>intento divulgativo</strong> verso un pubblico esteso, presumo il più eterogeneo e non targettizzato possibile, attraverso una scrittura semplice e chiara. Un ottimo inizio <strong>per chi, digiuno di materie tecnico-economiche</strong>, vorrà in seguito approfondire con letture più impegnative.</p>



<p>Eppure, nonostante il pathos del momento che stiamo vivendo, non sono riuscita a sottolinearlo o rileggerlo. Non so se la mia mente è anestetizzata nei confronti di una scrittura che ci riconduce al nostro presente. Non so se proprio per questa incognita temporale ho bisogno di evadere mentre leggo, ma so per certo che <strong>non mi sono sentita toccata o coinvolta </strong>da questa lettura.</p>



<p>Da fervida lettrice, per me la differenza tra un libro efficiente al suo dovere ed efficace a cogliere nel segno è tutta qui.</p>


Se il giornalismo sa di stantio più del mondo nuovo

<p>È successo ancora: sabato scorso, a <strong>Torino</strong>, <strong>Roberto</strong>, <strong>Marco </strong>e <strong>Filippo sono morti</strong> mentre lavoravano all’assemblamento di una <strong>gru</strong>, che si è schiantata al suolo per ragioni ancora da chiarire. Dalle prime ricostruzioni pare che i tre operai, che si trovavano in cima alla struttura per montarne il braccio, siano precipitati da diversi metri di altezza e siano poi rimasti schiacciati dal crollo dei blocchi di cemento. Filippo, il più giovane, aveva appena vent’anni. È l’ennesimo, assurdo episodio che aggiunge nuove vittime alla scia di sangue causata dagli <strong>infortuni sul lavoro</strong>: una vera ferita aperta nel cuore del nostro Paese</p>
<p>Da anni, infatti, <strong>in Italia muoiono in media tre persone ogni giorno</strong> a seguito di <strong>incidenti avvenuti sul luogo di lavoro</strong>. Sono più di mille all’anno. Questi numeri sono confermati anche nel 2021: i dati INAIL relativi ai primi dieci mesi dell’anno contano già 1.017 vittime sul lavoro. E non si tratta solo di 1.017 vite strappate, ma anche di altrettante famiglie distrutte, con impatti permanenti e devastanti.</p>
<p>Nonostante questa strage si perpetui da almeno due decenni sotto i nostri occhi, la maggior parte di noi l’ha sempre guardata con distacco e rassegnazione, come se non si potesse fare nulla per cambiare le cose. Oggi però, forse per la prima volta, la questione della sicurezza sta finalmente conquistando una maggiore attenzione generale: in televisione se ne parla quasi ogni giorno, sui giornali nazionali sono nate rubriche specifiche (ad esempio “Morire di lavoro” del quotidiano <em>La Repubblica</em>) e sempre più testate riservano spazi di approfondimento sul tema, e anche il Governo e i sindacati sembrano avere un focus più mirato.</p>
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<h2 id="h-come-impiegare-l-attenzione-sul-tema-della-sicurezza-sul-lavoro">Come impiegare l’attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro?</h2>
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<p>Se il primo passo per affrontare un problema è parlarne, renderlo visibile e tangibile, allora questa esposizione a livello mediatico e istituzionale è senza dubbio un segnale positivo. Allo stesso tempo, però, bisogna essere consapevoli che da sola non basterà: è ormai dimostrato da numerosi studi e ricerche (a partire dagli studi di James Reason, raccolti nel testo <em>Human error</em>, fino alle pubblicazioni INAIL su questo tema) che <strong>la maggior parte degli incidenti</strong> avviene non per l’assenza di regole o procedure, né per problemi di natura tecnica, ma a causa di <strong>comportamenti sbagliati</strong>, dettati dalla fretta, dalla disattenzione, dalla mancata percezione delle possibili conseguenze di un atto non sicuro.</p>
<p>Ecco perché l&#8217;azione normativa del Governo – ad esempio l’inasprimento delle sanzioni e il potenziamento dei controlli – e quella informativa degli organi di stampa vanno necessariamente supportate da iniziative che incidano più capillarmente a livello culturale, che permettano di <strong>diffondere e consolidare buone pratiche</strong> sia a livello individuale che collettivo. Ma chi si assume la responsabilità e l’onere di farlo?</p>
<p>Io credo che un ruolo fondamentale in questo senso lo abbiano le <strong>aziende</strong>, e in particolare le grandi aziende: quelle che già da tempo hanno avuto la lungimiranza, ma anche la possibilità concreta, di avviare al loro interno pratiche di diffusione della cultura della sicurezza.</p>
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<h2 id="h-sicurezza-sul-lavoro-non-se-ne-esce-se-le-grandi-aziende-non-aiutano-le-pmi">Sicurezza sul lavoro, non se ne esce se le grandi aziende non aiutano le PMI</h2>
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<p>Le <strong>grandi aziende</strong> che operano in Italia possiedono un patrimonio di conoscenze e di esperienze incredibilmente prezioso. Negli ultimi vent’anni la maggior parte di esse ha assistito al progressivo <strong>calo degli indici infortunistici</strong>, frutto di un maggior focus sulla sicurezza e di investimenti più consistenti, in gran parte motivati dalle pressioni generate dal contesto internazionale, con i clienti esteri spesso molto più esigenti sul rispetto di standard elevati in termini di prevenzione degli incidenti.</p>
<p>Poiché il miglioramento delle performance di sicurezza ha portato anche vantaggi in termini di <strong>efficienza</strong>, oggi nelle grandi organizzazioni è diffusa la consapevolezza che maggiore è l’attenzione alla sicurezza, maggiori saranno i benefici anche a livello operativo. Eppure l’impatto di questi miglioramenti sulle statistiche nazionali è pressoché nullo, e questo dato è estremamente significativo.</p>
<p>Viviamo in un Paese il cui tessuto produttivo è soprattutto fatto di <strong>piccole e medie imprese</strong>; ed è lì che purtroppo da anni si concentra la maggior parte degli infortuni mortali. <strong>Manca la consapevolezza</strong> <strong>che le grandi aziende hanno acquisito</strong>, mancano i mezzi e la sensibilità per tradurla in formazione, in cultura, in azioni puntuali e concrete, e non per evitare eventuali sanzioni, ma perché <em>the safer, the better</em>, da ogni punto di vista.</p>
<p>Le grandi aziende hanno quindi oggi la responsabilità etica di influenzare l’ambiente che le circonda. Se fossimo in un videogioco, potremmo dire che hanno superato il primo livello; devono adesso alzare l’asticella, passare al secondo livello, dove le regole del gioco sono di tipo <strong>cooperativo</strong>. Fino ad oggi il tesoro di conoscenze ed esperienze che ha portato le grandi aziende a migliorare le proprie performance di sicurezza è stato nella maggior parte dei casi tenuto per sé; in parte per la cultura – molto diffusa nel nostro Paese – di alimentare più il bagaglio individuale che quello collettivo, in parte perché viviamo in un’era in cui siamo schiavi delle performance, del raggiungimento dei KPI, delle pressioni dettati dalle leggi di mercato. Non c’è stato, di fatto, l’interesse a fare sistema.</p>
<p>Almeno finora. Perché oggi, la pandemia ce l’ha insegnato, <strong>non possiamo più pensare di avere successo agendo individualmente</strong>: è evidente che, come ha detto anche il Presidente Mattarella il 29 novembre 2021, siamo indissolubilmente legati, dipendiamo tutti gli uni dagli altri.</p>
<p>Se vogliamo vincere la battaglia della sicurezza sul lavoro, se vogliamo arrestare questa assurda scia di vittime sul lavoro che ci accompagna da oltre vent’anni, occorre collaborare. Occorre che le grandi aziende rappresentino per le piccole e medie imprese quella <strong>spinta propulsiva</strong> di cui esse stesse hanno beneficiato in passato per migliorarsi.</p>
<p>Certo, il processo di crescita della cultura della sicurezza in Italia non può dipendere solo dal settore privato, deve coinvolgere anche la <strong>Pubblica Amministrazione</strong>. Ma le grandi aziende hanno la forza necessaria per mettersi insieme, condividere esperienze, produrre <em>know how</em> e diffonderlo presso le piccole e medie imprese, aiutandole a crescere, portandole a innalzare i propri standard, agendo da traino e da supporto per il bene del Paese.</p>
<p>Perseguire l’interesse individuale non premia più, anzi probabilmente non l’ha mai fatto: “Se brucia la casa del mio vicino, il problema è anche mio”, diceva il poeta latino Orazio. <strong>Le piccole e medie imprese sono il vicino</strong>: sono i nostri collaboratori, i fornitori che lavorano per noi e con noi, dai quali dipende in buona parte anche il nostro successo.</p>
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<h2 id="h-quanto-vale-un-investimento-nella-sicurezza">Quanto vale un investimento nella sicurezza?</h2>
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<p>Se questa giusta causa non fosse di per sé sufficiente, teniamo conto che oggi <strong>investire in sicurezza</strong> – e agire concretamente perché questo investimento ricada a cascata lungo tutta la filiera – è innanzitutto un’opportunità economica e un vantaggio in termini di immagine d’impresa. Basti pensare ai <strong>criteri ESG</strong> (Environment, Social, Governance), sempre più diffusi per analizzare un investimento non solo dal punto di vista economico, ma misurandone gli effetti di natura ambientale, sociale e di governance.</p>
<p>Tra i criteri di rating in area Social <strong>la componente Health &amp; Safety</strong>, in termini di contenimento degli infortuni e di salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori, ha un peso importante. Come sarà valutata quindi un’azienda che magari ha buoni standard di sicurezza, ma si appoggia a fornitori che non operano secondo principi sostenibili e che non garantiscono condizioni di lavoro tali da assicurare il benessere delle proprie persone?</p>
<p>A mio parere, dunque, parlare di Health &amp; Safety oggi significa entrare in un nuovo scenario, quello della <strong>sostenibilità etica</strong>, in cui la creazione di valore non è più solo verso gli azionisti, ma verso tutti gli stakeholder: azionisti, investitori, management, dipendenti, fornitori, clienti, società civile, politica, associazioni. In sintesi, <strong>verso le persone</strong>, intese come risorse della società, delle aziende e del pianeta.</p>
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<h2 id="h-i-comportamenti-emergenti-di-un-sistema-di-imprese">I “comportamenti emergenti” di un sistema di imprese</h2>
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<p>Auspico davvero che il contesto in cui viviamo sproni tutte le grandi aziende a prendersi una responsabilità nella creazione di valore per il Paese, che metta al centro il tema sicurezza innanzitutto da un punto di vista etico e sociale, ma con risvolti anche a livello economico e finanziario. Mi auguro che smettano di operare in maniera distinta e isolata, e che si uniscano per creare <strong>un insieme interconnesso</strong>, influenzandosi l’una con l&#8217;altra, mettendo a fattor comune conoscenze ed esperienze.</p>
<p>“L’insieme è maggiore della somma delle sue parti”, direbbero i fisici della cosiddetta <strong>teoria dei</strong> <strong>comportamenti emergenti</strong>. Secondo questa teoria, ogniqualvolta uno schema o una configurazione di alto livello si origina a partire dalle migliaia di interazioni semplici che avvengono tra agenti locali, si manifestano fenomeni nuovi e inaspettati, che non sono riconducibili a nessuna delle singole parti dell’insieme, ma solo al suo complesso.</p>
<p>Prendiamo ad esempio l’acqua, che ha caratteristiche diverse dalle molecole che la compongono. Una molecola d’acqua, isolata, non bagna e non è trasparente. Non è nemmeno liquida. Il fatto che l’acqua sia liquida è dunque una caratteristica “emergente”, in quanto appartiene all’insieme ma non ai singoli componenti. Queste proprietà emergenti, poi, generano comportamenti “emergenti” – come il fatto che l’acqua, a determinate temperature, si trasformi in ghiaccio – cioè dinamiche che non dipendono dai dettagli delle parti, ma sono figlie della loro interazione, del loro essere organizzate in “sistema”.</p>
<p>Pensiamo allora a quale comportamento emergente produrrebbe un <strong>sistema di grandi aziende</strong> che avesse come giusta causa la responsabilità etica, sociale ed economica a tutela di salute, sicurezza e ambiente, e che aggregasse le figure apicali HSE delle imprese leader del Paese al fine di unire forze, competenze e risorse in una rete attiva sul territorio. Se gli scienziati hanno ragione, non possiamo nemmeno immaginare le <strong>potenzialità emergenti</strong> di una tale intelligenza collettiva.</p>
<p>Allora non limitiamoci a immaginarle: <strong>rompiamo gli individualismi, facciamo sistema e scopriamo insieme l’impatto che avremo</strong>.</p>
</p>
<p>Foto di&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/@cleyder-duque-1585619?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Cleyder Duque</a></strong>&nbsp;da&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-in-possesso-di-utensile-elettrico-verde-e-nero-3637789/?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Pexels</a></strong></p>
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Davide-Scotti

Davide Scotti

Piacentino, laureato alla University of Aberdeen, ha vissuto otto anni nel Regno Unito. Si occupa di salute e sicurezza sul lavoro lavorando a livello internazionale nell’industria petrolifera. Ha ricoperto diversi ruoli ed è oggi a capo del Dipartimento HSE Culture, Communication &amp; Training di Saipem. È coproduttore di tre cortometraggi di successo e di iniziative mirate a favorire il cambiamento culturale in ambito di salute e sicurezza, tra cui il pluripremiato programma LiHS (Leadership in Health &amp; Safety). È Segretario Generale della Fondazione LHS, costituita con la missione di diffondere codici di comunicazione nuovi con i quali contribuire alla crescita culturale dell’industria e società in genere. È coautore de “Il libro che ti salva la vita”, edito da Sperling &amp; Kupfler nel 2014, e ideatore del Safety Leadership Event, il più grande evento nazionale sulla cultura della sicurezza che, in quattro edizioni, ha coinvolto più di 3 mila persone. Speaker e formatore, tiene corsi su questi temi in Italia e all’estero.

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Sicurezza sul lavoro, appello urgente: alle piccole imprese serve aiuto dalle grandi

Le grandi imprese hanno una cultura della sicurezza solida e rodata: ora sta a loro fare sistema e diffonderla anche alle PMI, per avviare un circolo virtuoso che sarebbe di beneficio per tutti.

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<p>“<strong>Siamo di fronte a una situazione vergognosa</strong>. Vorrei che <em>SenzaFiltro</em> mi aiutasse a far capire al Governo che non può investire miliardi in questa maniera, senza aver rispetto di una tipologia di impresa. Quella stessa che dovrà anche eseguire tutto il Piano Nazionale di Ripresa”.</p>



<p>È forse questa la dichiarazione che sintetizza meglio la risposta al nostro quesito. Le parole sono di <strong>Gabriele Buia</strong>, presidente ANCE, l’Associazione Nazionale Costruttori Edili. La domanda di partenza era: “Da dove sono sbucate le <strong>numerose maestranze all’opera nel settore edile</strong>, all’indomani dell’entrata in vigore dei <strong>bonus</strong>? Come può essere garantita la formazione, e quindi, attraverso la consapevolezza dei rischi, la <strong>sicurezza nei cantieri</strong>?”.</p>



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<h2 id="h-i-bonus-edili-chiamano-nuove-imprese-ma-non-nuova-sicurezza">I bonus edili chiamano nuove imprese ma non nuova sicurezza</h2>



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<p>Perché è un’autentica corsa all’oro quella fatta scattare dal <strong>bonus e super-bonus del 110%</strong> applicabili sui lavori per restauri e adeguamenti green sugli immobili. I rimborsi delle spese che vengono effettuati attraverso la cessazione del credito fiscale (<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/superbonus-casa-te-lo-do-io-il-110/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">come ha testimoniato per noi Paolo Righi</a>,&nbsp;Presidente di Confassociazioni Immobiliare) hanno trovato in prima battuta ostacolo nella burocrazia farraginosa.</p>



<p>“Oggi la cosa è un po’ cambiata – ci aggiorna il presidente Righi – nel senso che il problema è l’inverso. La procedura è stata un po’ alleggerita, ci sono tanti cantieri, ma <strong>se tutte queste imprese non possono essere controllate non le si deve far lavorare</strong>, perché non è che possono morire le persone così.&nbsp;Per questo Confassociazioni Immobiliare chiede da sempre che questa opportunità dei bonus venga spalmata in <strong>più anni</strong>, perché questo darebbe alle aziende stabilità, tempo per programmarsi.”</p>



<p>Intanto tra le aziende bonus e super-bonus hanno trovato terreno fertile, facendo nascere negli ultimi due anni&nbsp;<strong>quasi 30.000 nuove imprese edili, di cui 6.200 nel solo ultimo trimestre</strong>.&nbsp;I dati sono forniti dall’analisi trimestrale Movimprese, condotta da Unioncamere e Infocamere, sui dati del registro delle imprese delle Camere di Commercio. Un’epidemia di cantieri e impalcature sotto gli occhi di tutti. E pensare che la vera impresa, prima della pandemia, era trovare manovalanza qualificata, disponibilità di capomastri che potessero eseguire e far eseguire sugli immobili anche solo un piccolo adeguamento normativo o una ristrutturazione.</p>



<p>La realtà?<strong> La corsa ai bonus lascia per strada la sicurezza</strong>. Genera<strong> imprese fantasma</strong>, con dipendenti inesistenti e subappalti selvaggi. Basta aggirare il contratto nazionale del settore per omettere la voce “sicurezza”. E la politica? Ancora una volta è in ritardo siderale su un fenomeno di portata nazionale.</p>



<p></p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/yards-3709429_1920-Per-Michela.jpg"><img width="1024" height="681" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/yards-3709429_1920-Per-Michela-1024x681.jpg" alt="" class="wp-image-47609" /></a></figure>



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<h2 id="h-bonus-a-pioggia-imprese-edili-fantasma-controlli-insufficienti">Bonus a pioggia, imprese edili fantasma, controlli insufficienti</h2>



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<p>Il presidente ANCE Gabriele Buia ci spiega anche che l’annosa tematica dei <strong>controlli</strong> è stata più volte riproposta e affrontata, che l’ANCE ha denunciato ripetutamente la <strong>carenza di organico negli enti ispettivi italiani</strong>. Una lacuna che nei piani del Governo dovrebbe essere colmata con le nuove assunzioni previste per le necessità di settore, e non solo per gli interventi riguardanti i bonus, ma anche per tutto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.</p>



<p>“Chiaramente, nonostante la buona volontà e il potenziamento – continua il presidente Ance – le grandi aperture di cantieri di questi ultimi periodi fanno sì che ci sia una mole di controlli tale che, anche con l’aumento del personale, non sarà possibile farli in maniera costante o quantomeno adeguata all’entità delle opere che si stanno eseguendo. Quello che noi cerchiamo di promuovere è la <strong>cultura della sicurezza</strong>.”</p>



<p>“In ogni provincia abbiamo gli enti bilaterali, di emanazione contrattuale con i sindacati. Tra questi ce n’è uno espressamente dedicato alla sicurezza nel lavoro, che assiste solo le imprese che rispettano il <strong>contratto dell’edilizia</strong>.&nbsp;Questo perché c’è in atto un sistema di dati che vincola appunto all’applicazione dei sistemi di sicurezza. Se non si applica il nostro contratto, apparentemente più oneroso, non si può beneficiare di questa assistenza.&nbsp;Perché noi diamo dei servizi sulla sicurezza e, non meno importante, sulla <strong>formazione</strong>, più alti e quindi più costosi, perché molto più validi di altri settori industriali.&nbsp;Va tenuto conto che i datori di lavoro, sommando le varie voci contributive, versano ogni anno tra i 60 e i 70 milioni di euro. Eppure non bastano”.</p>



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<h2 id="h-imprese-edili-senza-dipendenti-e-senza-attenzione-alla-sicurezza-sfruttano-il-110">Imprese edili senza dipendenti e senza attenzione alla sicurezza: sfruttano il 110%</h2>



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<p>Riuscire però a trasformare la prospettiva degli imprenditori in merito alla sicurezza è un processo che richiede tempo, perché va alle radici della cultura del lavoro. Ma i numerosi cantieri ci sono adesso. La gente, sull’impalcatura, ci sale per lavorarci ora.<a></a></p>



<p>“Lei ha toccato il tasto nevralgico – replica Buia – che continuo a denunciare a gran voce. <strong>Il Governo, secondo ANCE, pecca sull’attenzione</strong>. Il Governo deve dirci se quella della sicurezza sul lavoro sono tematiche da ribalta mediatica, quando ogni tanto viene riportato un caso eclatante di morte o infortuni, o se vuole davvero impegnarsi sui fattori della sicurezza e sulla riduzione degli infortuni. Perché non può essere solo una presa di posizione occasionale, quando occorre.”&nbsp;</p>



<p>“Glielo dico perché, alla luce di questi numerosissimi cantieri che stanno aprendo, stiamo assistendo a <strong>un fatto che definire vergognoso forse è poco</strong>. Da una parte il mondo delle costruzioni è impegnato a investire sulla qualità, sul rispetto del contratto, insomma su tutto ciò che è la cultura della sicurezza; dall’altra parte assistiamo a situazioni vergognose, cioè all’apertura continua di imprese che applicano il codice ATECO costruzioni, che sono solo <strong>società che si propongono</strong>&nbsp;<strong>per eseguire il lavoro, ma non hanno organizzazione, non hanno dipendenti</strong>. Sono nate strumentalmente per fare in modo che si possa aprire il cantiere per usufruire del bonus del 110%.”</p>



<p>“<strong>Non è questa l’impresa che serve in Italia</strong>, non sono queste le imprese che possono garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro, perché senza un’organizzazione minima non si può debellare questa piaga sociale. Non si può, è fuori da ogni logica. Sto cercando di far capire al Governo che per quanto riguarda l’applicazione dei bonus, e tutti i cantieri che stanno aprendo, insiti nell’impresa stessa, <strong>occorrono quantomeno imprese qualificate</strong>, in grado di applicare il contratto di lavoro delle costruzioni, mettendo in atto tutte le misure necessarie e opportune a <strong>sconfiggere la piaga delle morti sul lavoro</strong>. Non si sta agendo così”.</p>



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<h2 id="h-mercato-drogato-da-finte-imprese-edili-necessaria-l-attenzione-immediata-del-governo">“Mercato drogato da finte imprese edili, necessaria l’attenzione immediata del Governo”</h2>



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<p>Parole amare quelle di Buia, altrettanto amaramente supportate dai <strong>numeri</strong>, ancora una volta quelli del Registro delle Imprese.</p>



<p>Il saldo tra <strong>aperture</strong> e <strong>chiusure</strong>, nel terzo trimestre del 2021, si è attestato su un <strong>attivo di 22.258</strong>. Questa soglia era stata superata solo due volte nel decennio pre-pandemico. Ancora una volta viene da chiederci: <strong>ma tutto questo personale da dove sbuca?</strong></p>



<p>Semplicemente, all’interno delle neonate imprese edili,&nbsp;<strong>il personale non esiste</strong>. Ce lo spiega ancora Buia:&nbsp;“Non hanno <strong>alcuna organizzazione sul piano della sicurezza</strong> e del controllo dei luoghi di lavoro a tutela delle loro maestranze. Non hanno niente. Le maestranze non le hanno; in caso contrario, imprese che aprono dalla sera alla mattina non possono avere l’organizzazione adeguata, perché non hanno avuto il tempo materiale minimo per farlo. <strong>È una situazione che merita l’attenzione immediata del Governo</strong>. Immediata. L’unico strumento che possiamo avere per intervenire rapidamente è applicare le norme che sono in vigore nei cantieri dell’Italia centrale impegnati nella ricostruzione per terremoto. La normativa esiste già, è pronta. Basta aggiungere due frasi: ‘Viene applicata a tutti i bonus presenti qui’. Sono soldi pubblici a beneficio di privati, e devono essere utilizzati esattamente come avvenuto fino a ieri, quando c’era un investimento pubblico. Mi sorprende che nessun bonus previsto sia sottoposto a una politica del genere”.</p>



<p>“A questo si aggiunge il problema che spesso queste imprese non hanno dipendenti diretti, perché <strong>subappaltano tutto</strong>. Oggi sul mercato privato, che è quello che caratterizza praticamente chi accede ai bonus in generale, <strong>non occorre dimostrare niente</strong>. Basta che lei si iscriva alla Camera di Commercio con il codice ATECO costruzioni, e con un telefono e una stanza fa impresa. Le sembra possibile che, con i problemi che abbiamo dal 2020, noi dobbiamo avere una categoria imprenditoriale che di imprenditoria non ha niente se non scopi profittevoli? E si badi: non è un fatto dimensionale, una questione di piccoli, medi, grandi. Assolutamente no. Io sto chiedendo che ogni impresa abbia un’organizzazione proporzionata all’entità dei lavori che sta eseguendo.”</p>



<p>“E non voglio demonizzare il subappalto. Storicamente oggi il mondo delle costruzioni è molto frammentato, si fa grande uso del subappalto. Si chiede però che l’azienda appaltatrice, l’impresa principale, abbia un organigramma che consente formazione e sicurezza. <strong>Col sistema attuale si droga il mercato</strong>, a svantaggio delle imprese corrette che hanno dei costi fissi. Mancano così figure professionali, c’è carenza di manodopera, non si trovano maestranze professionalizzate, dipendenti di tutte le tipologie. Si calcola che da oggi ai prossimi anni mancheranno al settore circa 265.000 lavoratori.”</p>



<p>Se si cerca di dare una geografia al fenomeno, gli stessi dati forniscono una mappa di carattere nazionale omogenea, con il <strong>Mezzogiorno</strong> che ha una marcia in più: <strong>un più facile reperimento di manodopera</strong>, quella stessa che nei decenni scorsi emigrava in cerca di lavoro, e adesso lo trova sotto casa.</p>



<p></p>



<p><em>In copertina: Gabriele Buia, Presidente ANCE</em></p>



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Gabriele Buia, presidente ANCE: “Troppe imprese edili, spesso fantasma, e i controlli non bastano”

<p>A forza di raccontarci in Italia che quello che serve è <strong>un posto sicuro</strong> &#8211; cioè un posto garantito, protetto, intoccabile, meglio se pubblico che lì davvero non ti viene a cercare nessuno per contestarti qualcosa &#8211; abbiamo perso dimestichezza col significato primario: &#8220;<strong>garantito contro eventuali pericoli</strong>&#8220;, rimarcano i dizionari. </p>
<p><strong>Lavorare al sicuro</strong> è un concetto che negli ultimi decenni abbiamo troppo spesso delegato fuori di noi: a un responsabile, all&#8217;imprenditore, a un dispositivo di protezione, a una sirena, ai protocolli, ai colleghi più in alto di noi nell&#8217;assurda gerarchia delle competenze anche quando si tratta di salvarci la pelle. Finché non ha fatto capolino anche in Italia una nuova cultura che oltre oceano chiamavano <em><strong>nudging </strong></em>per addolcire la pillola e per mettere l&#8217;accento sul fatto che <strong>non è la norma, non è l&#8217;imposizione, che fa aumentare la sicurezza</strong>. La gentilezza della spinta nel farci prendere decisioni non è mica arrivata col nudging, però: negli ultimi decenni eravamo già cresciuti con una strategica disposizione dei prodotti sugli scaffali dei supermercati o con una elencazione non casuale delle portate nei menù dei ristoranti fino alla richiesta posta sulla sinistra dello schermo bancomat se stampare o meno la ricevuta  ben sapendo che il cittadino medio è destrimano. </p>
<p>A livello sociale si è visto che la sicurezza può essere accompagnata con la scaltrezza della semplicità, e funziona, e allora perché non farlo anche dentro le aziende e sui luoghi di lavoro in generale? Perché cambiare cultura ha un costo altissimo in termini personali e perché molte imprese, dimensione a prescindere, prediligono la messa in conto  dei <strong>corsi di formazione di rito</strong> o addirittura <strong>l&#8217;infortunio </strong>o <strong>l&#8217;incidente </strong>piuttosto che la <strong>rimessa in discussione dei valori</strong>. Fa venire i brividi ma è meglio dirselo chiaro. </p>
<p>Nel mensile che state per leggere ci siamo dati una regola chiara: <strong>non usare mai l&#8217;espressione </strong>&#8220;<strong>morti bianche</strong>&#8221; perché, quando a Nobìlita 2021 è salito sul palco di Imola Bruno Giordano, insediatosi da poco a capo dell&#8217;Ispettorato nazionale del lavoro, e ha ribadito con forza che quelle morti di bianco non hanno proprio niente, tutti ci siamo alzati in piedi e lo abbiamo applaudito e ci siamo commossi. Ma mica penseremo che basti tirare giù qualche lacrima mentre stiamo comodamente seduti sulle sedie di un festival? Piuttosto è urgente riformulare i pensieri intorno a u<strong>n concetto più contemporaneo di sicurezza</strong>, ed è ancora più urgente uscire dalla volgarità delle parole con cui il giornalismo e la politica mettono le mani sulle vite dei lavoratori. </p>
<p>C&#8217;è ancora troppa <strong>ipocrisia </strong>sul tema, ma buone azioni e sacri progetti sono già in mezzo al lavoro; che poi è la stessa ipocrisia con cui abbiamo partecipato quasi tutti alle simulazioni antincendio fatte in azienda, quando ci si ritrova riuniti nel piazzale, si firma la presenza, si aspetta il proprio turno per uscire e per rientrare, si ride e si prende quella mezz&#8217;ora come una mezz&#8217;ora di pausa rubata alla tabella di marcia dell&#8217;ufficio. </p>
<p>Ho in mente la faccia delle migliaia di hostess che da anni provano a spiegarci cosa fare in caso di emergenza in volo: vorrei vedere noi passeggeri coi loro occhi di certo nauseati dall&#8217;indifferenza che rimandiamo. Perché tanto non succede mica a noi, perché tanto le conosciamo le regole, perché tanto ti pare che l&#8217;impresa per cui lavoro non tiene alla mia sicurezza: nessuna di queste certezze, invece, ha un fondamento reale e <strong>nessuno dovrebbe mai sentirsi al sicuro dall&#8217;insicurezza</strong>. </p>
<p>Forse abbiamo visto troppi supereroi al cinema o nei fumetti e abbiamo finito per crederci.</p>
</p>
<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@weanimalsmedia?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Jo-Anne McArthur</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/cages-chicken?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></p>


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Zolotti

Stefania Zolotti

Direttrice responsabile di SenzaFiltro e giornalista con il debole per le relazioni e le persone. Studiosa e appassionata di geografie umane e di paesi. Con la laurea in giurisprudenza non ha mai intrapreso le classiche strade: l&#8217;unico ufficio legale in cui ha lavorato è stato quello di Altroconsumo a Milano dal 2001 al 2003, con una parentesi nella sede di Bolzano grazie al patentino di bilinguismo tedesco. Dal 2002 Collabora come freelance con la rivista Business People e dal 2023 con Artribune dove racconta storie italiane di teatri di periferia. &#8220;Sentimenti precisi&#8221; è il nome del progetto con cui dal 2021 gira l&#8217;Italia tenendo laboratori contro i blocchi della scrittura: lo fa per aziende, associazioni, scuole, singole persone e gruppi. Dal 2008 al 2017 Responsabile Comunicazione e Segretaria di direzione per una grande azienda pubblica del settore ambiente dove ha sviluppato progetti di green marketing e di educazione sostenibile. Dal 2012 contribuisce a creare e coordinare progetti per la business community FiordiRisorse, che è anche l&#8217;Associazione editrice di SenzaFiltro. Autrice del libro &#8220;Ti fai male&#8221; (2020), romanzo generazionale scritto inizialmente come ghostwriter. Ha lavorato per 20 anni come giornalista nel campo del vino e del cibo collaborando con le principali testate nazionali e pubblicando due libri: &#8220;Vino a doppio senso. Guida ironica per uomini e donne&#8221; (Gabrio Marinelli Editore, 2006) e &#8220;Il Bicchiere mezzo pieno. Liberarsi dagli esperti è il primo passo per bere bene&#8221; (Le Lettere, 2020). L&#8217;ultimo libro, di cui è curatrice, è &#8220;Coaching, maneggiare con cura&#8221; di Carlo Bisi (Edizioni FiordiRisorse, 2023). &nbsp; E-mail: stefania.z@fiordirisorse.eu

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Editoriale 107. Un posto sicuro

A forza di raccontarci in Italia che quello che serve è un posto sicuro &#8211; cioè un posto garantito, protetto, intoccabile, meglio se pubblico che lì davvero non ti viene a cercare nessuno per contestarti qualcosa &#8211; abbiamo perso dimestichezza col significato primario: &#8220;garantito contro eventuali pericoli&#8220;, rimarcano i dizionari. Lavorare al sicuro è un [&hellip;]

Editoriale 107. Un posto sicuro - Informazione senza filtro

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<p>A forza di raccontarci in Italia che quello che serve è <strong>un posto sicuro</strong> &#8211; cioè un posto garantito, protetto, intoccabile, meglio se pubblico che lì davvero non ti viene a cercare nessuno per contestarti qualcosa &#8211; abbiamo perso dimestichezza col significato primario: &#8220;<strong>garantito contro eventuali pericoli</strong>&#8220;, rimarcano i dizionari. </p>



<p><strong>Lavorare al sicuro</strong> è un concetto che negli ultimi decenni abbiamo troppo spesso delegato fuori di noi: a un responsabile, all&#8217;imprenditore, a un dispositivo di protezione, a una sirena, ai protocolli, ai colleghi più in alto di noi nell&#8217;assurda gerarchia delle competenze anche quando si tratta di salvarci la pelle. Finché non ha fatto capolino anche in Italia una nuova cultura che oltre oceano chiamavano <em><strong>nudging </strong></em>per addolcire la pillola e per mettere l&#8217;accento sul fatto che <strong>non è la norma, non è l&#8217;imposizione, che fa aumentare la sicurezza</strong>. La gentilezza della spinta nel farci prendere decisioni non è mica arrivata col nudging, però: negli ultimi decenni eravamo già cresciuti con una strategica disposizione dei prodotti sugli scaffali dei supermercati o con una elencazione non casuale delle portate nei menù dei ristoranti fino alla richiesta posta sulla sinistra dello schermo bancomat se stampare o meno la ricevuta  ben sapendo che il cittadino medio è destrimano. </p>



<p>A livello sociale si è visto che la sicurezza può essere accompagnata con la scaltrezza della semplicità, e funziona, e allora perché non farlo anche dentro le aziende e sui luoghi di lavoro in generale? Perché cambiare cultura ha un costo altissimo in termini personali e perché molte imprese, dimensione a prescindere, prediligono la messa in conto  dei <strong>corsi di formazione di rito</strong> o addirittura <strong>l&#8217;infortunio </strong>o <strong>l&#8217;incidente </strong>piuttosto che la <strong>rimessa in discussione dei valori</strong>. Fa venire i brividi ma è meglio dirselo chiaro. </p>



<p>Nel mensile che state per leggere ci siamo dati una regola chiara: <strong>non usare mai l&#8217;espressione </strong>&#8220;<strong>morti bianche</strong>&#8221; perché, quando a Nobìlita 2021 è salito sul palco di Imola Bruno Giordano, insediatosi da poco a capo dell&#8217;Ispettorato nazionale del lavoro, e ha ribadito con forza che quelle morti di bianco non hanno proprio niente, tutti ci siamo alzati in piedi e lo abbiamo applaudito e ci siamo commossi. Ma mica penseremo che basti tirare giù qualche lacrima mentre stiamo comodamente seduti sulle sedie di un festival? Piuttosto è urgente riformulare i pensieri intorno a u<strong>n concetto più contemporaneo di sicurezza</strong>, ed è ancora più urgente uscire dalla volgarità delle parole con cui il giornalismo e la politica mettono le mani sulle vite dei lavoratori. </p>



<p>C&#8217;è ancora troppa <strong>ipocrisia </strong>sul tema, ma buone azioni e sacri progetti sono già in mezzo al lavoro; che poi è la stessa ipocrisia con cui abbiamo partecipato quasi tutti alle simulazioni antincendio fatte in azienda, quando ci si ritrova riuniti nel piazzale, si firma la presenza, si aspetta il proprio turno per uscire e per rientrare, si ride e si prende quella mezz&#8217;ora come una mezz&#8217;ora di pausa rubata alla tabella di marcia dell&#8217;ufficio. </p>



<p>Ho in mente la faccia delle migliaia di hostess che da anni provano a spiegarci cosa fare in caso di emergenza in volo: vorrei vedere noi passeggeri coi loro occhi di certo nauseati dall&#8217;indifferenza che rimandiamo. Perché tanto non succede mica a noi, perché tanto le conosciamo le regole, perché tanto ti pare che l&#8217;impresa per cui lavoro non tiene alla mia sicurezza: nessuna di queste certezze, invece, ha un fondamento reale e <strong>nessuno dovrebbe mai sentirsi al sicuro dall&#8217;insicurezza</strong>. </p>



<p>Forse abbiamo visto troppi supereroi al cinema o nei fumetti e abbiamo finito per crederci.</p>



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<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@weanimalsmedia?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Jo-Anne McArthur</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/cages-chicken?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></p>



<p>Quando si parla di <strong>sicurezza nei luoghi di lavoro</strong> si pensa perlopiù alla prevenzione da infortuni e incidenti, dimenticando spesso un altro ambito che può subire altrettante conseguenze negative, non meno invalidanti o persino letali: parliamo della salute. I <strong>danni da esposizione a sostanze nocive </strong>costituiscono una problematica tangibile e un costo a livello umano, lavorativo e sanitario tutt’altro che trascurabile.</p>



<p>Per affrontare il tema ci confrontiamo con una realtà che a livello nazionale si batte da tempo per la tutela dei diritti delle persone con patologie che trovano faticosamente riconoscimento: l’<strong>associazione onlus MARA</strong>. Composta da più di 1.500 soci, persegue diversi obiettivi, in particolare quello di fornire informazione e supporto ai e alle pazienti affetti da <strong>sensibilità chimica multipla</strong>, fibromialgia, encefalomielite mialgica, e con diagnosi differenziale di sindrome da stanchezza cronica e patologie correlate. Allo stesso tempo sostiene la ricerca scientifica e organizza eventi di sensibilizzazione, oltre a progetti sociosanitari per le persone svantaggiate, contrastando dinamiche di emarginazione sociale e mobbing. L’associazione ha inoltre stipulato convenzioni per aiutare i pazienti ad accedere ad analisi e approcci terapeutici con costi ridotti.</p>



<p>A fondarla è <strong>Tiziana Scotti</strong>, attuale presidente, che pone subito in evidenza il problema cardine: “Nel caso della sensibilità chimica multipla parliamo di una patologia di cui non solo si fa fatica a dimostrare l’eventuale correlazione con esposizioni pericolose avvenute nelle zone di abitazione o in luoghi di lavoro, ma per la quale è una <strong>lotta vederne riconosciuta</strong> e<strong> ammessa l’esistenza</strong>”. E puntualizza: “Ci sono casi di persone che presentano sensibilità chimica multipla sorta in seguito ad esposizione prolungata a toner di stampanti, a vernici e in generale ad ambienti di lavoro con emissioni pericolose, tra cui <strong>metalli pesanti</strong>. La cosa più dura è che lo Stato non riconosce determinate patologie, e questo significa essere privi di un codice di esenzione e soprattutto di un centro di riferimento per la diagnosi, in particolar modo precoce, oltre che per la cura”.</p>



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<h2 id="h-costretta-a-vendere-casa-e-auto-e-a-curarmi-all-estero-le-malattie-lavorative-non-riconosciute-dall-italia">“Costretta a vendere casa e auto e a curarmi all’estero”: le malattie lavorative non riconosciute dall’Italia</h2>



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<p>Contesti di lavoro che fanno ammalare e che fanno perdere la possibilità stessa di lavorare, patologie invalidanti con effetti tangibili ma considerate fantasmi: un crogiuolo di contraddizioni incandescenti in un Paese che si vanta di avere un sistema di sanità pubblica efficiente.</p>



<p>“La maggior parte di noi sono malati gravi”, racconta Tiziana Scotti, che conosce sulla propria pelle gli effetti devastanti di questo tipo di patologie. “<strong>A trent’anni ho dovuto interrompere la mia attività lavorativa</strong>”.</p>



<p>Per Tiziana, così come per molte altre persone che condividono la sua situazione, inizia un percorso complesso: “Ci si rivolge al <strong>medico legale</strong> per vedere riconosciuta la propria patologia, che comporta conseguenze neurologiche, endocrine, allergiche e non da ultime esistenziali, oltre che economiche. Per curarci dobbiamo infatti <strong>andare all’estero e sostenere spese onerose</strong>: io ad esempio ho dovuto vendere auto e casa per sostenere tutte le spese, incluse quelle di viaggio. Per la salute si cerca di fare tutto”.</p>



<p>In merito a questa grave lacuna l’associazione MARA si sta attivando in maniera forte: “Stiamo cercando di mettere in piedi un <strong>progetto per curare i pazienti qui in Italia</strong>: chi fosse interessato a sostenere l’iniziativa può contattarci”.</p>



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<h2 id="h-sensibilita-chimica-multipla-alcune-regioni-ne-negano-l-esistenza">Sensibilità chimica multipla, alcune Regioni ne negano l’esistenza</h2>



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<p>Lo scenario riguardante il riconoscimento di alcune patologie gravi come la <strong>sensibilità chimica multipla </strong>è in Italia a dir poco assurdo, e ci srotola davanti agli occhi un film già visto e basato sulla totale frammentarietà e ambiguità. In pratica questa patologia viene <strong>riconosciuta in alcune Regioni mentre in altre no</strong>, come se la malattia fosse un marchio DOP slegato dalla scienza.</p>



<p>“Non hanno rinnovato la tabellazione del medico legale”, specifica Tiziana Scotti. “Anche il riconoscimento resta comunque solo una formalità, perché qui in Italia manca un centro che fornisca un percorso diagnostico-terapeutico. Nel Lazio c’era un centro regionale per la diagnosi e cura ma è stato chiuso, una situazione vergognosa: <strong>ci sono grossi conflitti di interesse con lo Stato </strong>perché quando ti trovi di fronte persone malate a causa dell’ambiente e da esposizioni tossiche è come ammettere una responsabilità”.</p>



<p>La presidente sottolinea anche la situazione d’abbandono da parte di un altro ambito importante del macrocosmo sanitario: le farmacie. “<strong>Per le case farmaceutiche le patologie di origine ambientale sono prive di interesse </strong>e di introito economico, quando invece dal nostro osservatorio possiamo dare un campanello d’allarme dicendo che queste patologie sono in aumento e sono sempre più correlate tra loro. Servirebbero approcci di diagnosi e di cura multidisciplinari che qui invece mancano”.</p>



<p>La situazione è peggiorata con la pandemia? “Per noi malati gravi l’avvento del COVID non ha cambiato nulla, <strong>siamo in lockdown perenne da anni</strong>”, chiosa Tiziana. “Da anni viviamo chiusi, in case protette e bonificate, in ogni caso isolati”. Lacune che innescano odissee dove a finire a tappeto sono la salute, il lavoro, la vita.</p>



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<h2 id="h-malattia-da-sostanze-nocive-sul-posto-di-lavoro-come-agire">Malattia da sostanze nocive sul posto di lavoro: come agire</h2>



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<p><strong>Salute compromessa e responsabilità da dimostrare</strong>. La presidente dell’associazione MARA definisce una lotta continuail percorso intrapreso a livello legale dalle persone che si ammalano: “Bisogna essere affiancati da medici e avvocati etici e preparati”.</p>



<p>Nel nostro servizio non possiamo non interfacciarci con <strong>Roberto Cao</strong>, consulente legale dell’associazione MARA, con cui collabora da una decina d’anni. Nella vita di tutti i giorni è un avvocato che conosce bene il tema del<strong> diritto alla salute </strong>e dei danni da esposizione a sostanze nocive. A proposito della questione sicurezza nei contesti lavorativi afferma: “Da quello che ho potuto constatare c’è un problema di mancata di consapevolezza sulle possibili conseguenze derivate dall’esposizione a sostanze chimiche. Inoltre <strong>manca una norma a livello nazionale </strong>che riconosca la sensibilità chimica multipla: questo è un ostacolo gigantesco. All’interno della comunità medica ci sono divisioni rispetto all’esistenza della patologia. <strong>In Italia il diritto sanitario è a macchia di leopardo</strong> e attualmente a riconoscere questa patologia ci sono solo alcune Regioni”. Il resto è cronistoria già raccontata.</p>



<p>Addentrandoci in ambito legale, un lavoratore o una lavoratrice che si ammalano in seguito all’esposizione a sostanze nocive nel contesto in cui svolgono la loro attività che cosa possono fare?</p>



<p>“Innanzitutto è necessaria la dimostrazione di un <strong>nesso causale </strong>tra esposizione nociva e patologia e per farlo è necessaria una <strong>relazione tecnica</strong> preparata da un <strong>medico legale</strong>. L’INAIL dovrebbe riconoscere il nesso di causalità e la malattia professionale oltre a una<strong> rendita</strong> nei casi più gravi. Il risarcimento è da parte del datore di lavoro confermata la sua responsabilità, civile o penale. Diverso è il caso in cui la sede di lavoro sia soggetta ad esposizioni nocive, ma non per responsabilità del contesto lavorativo stesso, bensì perché la zona in cui è ubicata riceve queste emissioni”.</p>



<p>Riguardo all’<strong>indennizzo</strong>, Cao sottolinea: “È un’alternativa allo stipendio, ma purtroppo <strong>non riesce quasi mai a sostenere</strong> le spese necessarie: ad esempio i malati di sensibilità chimica multipla necessitano di integratori, cure all’estero e isolamento da sostanze chimiche; inoltre le loro condizioni non consentono quasi mai a queste persone di lavorare. Molte di queste persone hanno bisogno di accompagnatori che li sostengano nelle trasferte. Ci sono situazioni che vanno al di là dell’immaginazione e che possono portare a gesti estremi”.</p>



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<h2 id="h-la-prevenzione-secondaria-salvavita-poco-frequentato-sul-posto-di-lavoro">La prevenzione secondaria, salvavita poco frequentato sul posto di lavoro</h2>



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<p>Ci confrontiamo con un altro consulente dell’associazione MARA, <strong>Giacomo Rao</strong>, medico legale con esperienza di dirigente medico alla sovrintendenza sanitaria centrale, settore prevenzione ricerca direzione generale&nbsp;INAIL.</p>



<p>“Il tema della prevenzione da esposizione a sostanze tossiche nei luoghi di lavoro è affrontato spesso in maniera farraginosa”, commenta. “Diversi enti spendono molti soldi per fare prevenzione primaria per ridurre giustamente gli inquinanti più pericolosi, ma di fatto risulta impossibile togliere del tutto le esposizioni. Per un’efficace&nbsp;sorveglianza sanitaria personalizzata&nbsp;occorrerebbe approfondire la ricerca sulla<strong>&nbsp;prevenzione secondaria</strong>, che mira a intercettare dei <strong>biomarcatori precoci</strong> di esposizione e di effetto prima che la malattia si manifesti. Individuando queste alterazioni biochimiche <strong>potremmo salvare la vita a molti lavoratori e lavoratrici</strong>. Recenti ricerche individuano ncRNAs, tra&nbsp;cui microRNA, profili di metilazione come potenziali&nbsp;biomarcatori molecolari precoci di diverse tecnopatie”.</p>



<p>Sanità, scienza, tutela dei diritti, ricerca: in un’Italia sempre più frammentata tutti questi ingredienti, di base preziosi, perdono pezzi per strada e si sfaldano a discapito delle vite in carne e ossa, tra responsabilità che si continuano a non voler trattare e nemmeno nominare. Guarda caso, come le stesse malattie tuttora non riconosciute.</p>



<p></p>



<p>Foto di&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/@kindelmedia?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Kindel Media</a></strong>&nbsp;da&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/foto/laboratorio-medicina-ricerca-scienza-8325758/?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Pexels</a></strong></p>



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Malattie da lavoro non riconosciute in Italia: &#8220;Costretta a vendere casa e auto per curarmi all&#8217;estero&#8221;

<p>“<strong>Siamo di fronte a una situazione vergognosa</strong>. Vorrei che <em>SenzaFiltro</em> mi aiutasse a far capire al Governo che non può investire miliardi in questa maniera, senza aver rispetto di una tipologia di impresa. Quella stessa che dovrà anche eseguire tutto il Piano Nazionale di Ripresa”.</p>
<p>È forse questa la dichiarazione che sintetizza meglio la risposta al nostro quesito. Le parole sono di <strong>Gabriele Buia</strong>, presidente ANCE, l’Associazione Nazionale Costruttori Edili. La domanda di partenza era: “Da dove sono sbucate le <strong>numerose maestranze all’opera nel settore edile</strong>, all’indomani dell’entrata in vigore dei <strong>bonus</strong>? Come può essere garantita la formazione, e quindi, attraverso la consapevolezza dei rischi, la <strong>sicurezza nei cantieri</strong>?”.</p>
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<h2 id="h-i-bonus-edili-chiamano-nuove-imprese-ma-non-nuova-sicurezza">I bonus edili chiamano nuove imprese ma non nuova sicurezza</h2>
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<p>Perché è un’autentica corsa all’oro quella fatta scattare dal <strong>bonus e super-bonus del 110%</strong> applicabili sui lavori per restauri e adeguamenti green sugli immobili. I rimborsi delle spese che vengono effettuati attraverso la cessazione del credito fiscale (<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/superbonus-casa-te-lo-do-io-il-110/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">come ha testimoniato per noi Paolo Righi</a>,&nbsp;Presidente di Confassociazioni Immobiliare) hanno trovato in prima battuta ostacolo nella burocrazia farraginosa.</p>
<p>“Oggi la cosa è un po’ cambiata – ci aggiorna il presidente Righi – nel senso che il problema è l’inverso. La procedura è stata un po’ alleggerita, ci sono tanti cantieri, ma <strong>se tutte queste imprese non possono essere controllate non le si deve far lavorare</strong>, perché non è che possono morire le persone così.&nbsp;Per questo Confassociazioni Immobiliare chiede da sempre che questa opportunità dei bonus venga spalmata in <strong>più anni</strong>, perché questo darebbe alle aziende stabilità, tempo per programmarsi.”</p>
<p>Intanto tra le aziende bonus e super-bonus hanno trovato terreno fertile, facendo nascere negli ultimi due anni&nbsp;<strong>quasi 30.000 nuove imprese edili, di cui 6.200 nel solo ultimo trimestre</strong>.&nbsp;I dati sono forniti dall’analisi trimestrale Movimprese, condotta da Unioncamere e Infocamere, sui dati del registro delle imprese delle Camere di Commercio. Un’epidemia di cantieri e impalcature sotto gli occhi di tutti. E pensare che la vera impresa, prima della pandemia, era trovare manovalanza qualificata, disponibilità di capomastri che potessero eseguire e far eseguire sugli immobili anche solo un piccolo adeguamento normativo o una ristrutturazione.</p>
<p>La realtà?<strong> La corsa ai bonus lascia per strada la sicurezza</strong>. Genera<strong> imprese fantasma</strong>, con dipendenti inesistenti e subappalti selvaggi. Basta aggirare il contratto nazionale del settore per omettere la voce “sicurezza”. E la politica? Ancora una volta è in ritardo siderale su un fenomeno di portata nazionale.</p>
</p>
<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/yards-3709429_1920-Per-Michela.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="681" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/yards-3709429_1920-Per-Michela-1024x681.jpg" alt="" class="wp-image-47609" /></a></figure>
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<h2 id="h-bonus-a-pioggia-imprese-edili-fantasma-controlli-insufficienti">Bonus a pioggia, imprese edili fantasma, controlli insufficienti</h2>
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<p>Il presidente ANCE Gabriele Buia ci spiega anche che l’annosa tematica dei <strong>controlli</strong> è stata più volte riproposta e affrontata, che l’ANCE ha denunciato ripetutamente la <strong>carenza di organico negli enti ispettivi italiani</strong>. Una lacuna che nei piani del Governo dovrebbe essere colmata con le nuove assunzioni previste per le necessità di settore, e non solo per gli interventi riguardanti i bonus, ma anche per tutto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.</p>
<p>“Chiaramente, nonostante la buona volontà e il potenziamento – continua il presidente Ance – le grandi aperture di cantieri di questi ultimi periodi fanno sì che ci sia una mole di controlli tale che, anche con l’aumento del personale, non sarà possibile farli in maniera costante o quantomeno adeguata all’entità delle opere che si stanno eseguendo. Quello che noi cerchiamo di promuovere è la <strong>cultura della sicurezza</strong>.”</p>
<p>“In ogni provincia abbiamo gli enti bilaterali, di emanazione contrattuale con i sindacati. Tra questi ce n’è uno espressamente dedicato alla sicurezza nel lavoro, che assiste solo le imprese che rispettano il <strong>contratto dell’edilizia</strong>.&nbsp;Questo perché c’è in atto un sistema di dati che vincola appunto all’applicazione dei sistemi di sicurezza. Se non si applica il nostro contratto, apparentemente più oneroso, non si può beneficiare di questa assistenza.&nbsp;Perché noi diamo dei servizi sulla sicurezza e, non meno importante, sulla <strong>formazione</strong>, più alti e quindi più costosi, perché molto più validi di altri settori industriali.&nbsp;Va tenuto conto che i datori di lavoro, sommando le varie voci contributive, versano ogni anno tra i 60 e i 70 milioni di euro. Eppure non bastano”.</p>
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<h2 id="h-imprese-edili-senza-dipendenti-e-senza-attenzione-alla-sicurezza-sfruttano-il-110">Imprese edili senza dipendenti e senza attenzione alla sicurezza: sfruttano il 110%</h2>
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<p>Riuscire però a trasformare la prospettiva degli imprenditori in merito alla sicurezza è un processo che richiede tempo, perché va alle radici della cultura del lavoro. Ma i numerosi cantieri ci sono adesso. La gente, sull’impalcatura, ci sale per lavorarci ora.<a></a></p>
<p>“Lei ha toccato il tasto nevralgico – replica Buia – che continuo a denunciare a gran voce. <strong>Il Governo, secondo ANCE, pecca sull’attenzione</strong>. Il Governo deve dirci se quella della sicurezza sul lavoro sono tematiche da ribalta mediatica, quando ogni tanto viene riportato un caso eclatante di morte o infortuni, o se vuole davvero impegnarsi sui fattori della sicurezza e sulla riduzione degli infortuni. Perché non può essere solo una presa di posizione occasionale, quando occorre.”&nbsp;</p>
<p>“Glielo dico perché, alla luce di questi numerosissimi cantieri che stanno aprendo, stiamo assistendo a <strong>un fatto che definire vergognoso forse è poco</strong>. Da una parte il mondo delle costruzioni è impegnato a investire sulla qualità, sul rispetto del contratto, insomma su tutto ciò che è la cultura della sicurezza; dall’altra parte assistiamo a situazioni vergognose, cioè all’apertura continua di imprese che applicano il codice ATECO costruzioni, che sono solo <strong>società che si propongono</strong>&nbsp;<strong>per eseguire il lavoro, ma non hanno organizzazione, non hanno dipendenti</strong>. Sono nate strumentalmente per fare in modo che si possa aprire il cantiere per usufruire del bonus del 110%.”</p>
<p>“<strong>Non è questa l’impresa che serve in Italia</strong>, non sono queste le imprese che possono garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro, perché senza un’organizzazione minima non si può debellare questa piaga sociale. Non si può, è fuori da ogni logica. Sto cercando di far capire al Governo che per quanto riguarda l’applicazione dei bonus, e tutti i cantieri che stanno aprendo, insiti nell’impresa stessa, <strong>occorrono quantomeno imprese qualificate</strong>, in grado di applicare il contratto di lavoro delle costruzioni, mettendo in atto tutte le misure necessarie e opportune a <strong>sconfiggere la piaga delle morti sul lavoro</strong>. Non si sta agendo così”.</p>
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<h2 id="h-mercato-drogato-da-finte-imprese-edili-necessaria-l-attenzione-immediata-del-governo">“Mercato drogato da finte imprese edili, necessaria l’attenzione immediata del Governo”</h2>
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<p>Parole amare quelle di Buia, altrettanto amaramente supportate dai <strong>numeri</strong>, ancora una volta quelli del Registro delle Imprese.</p>
<p>Il saldo tra <strong>aperture</strong> e <strong>chiusure</strong>, nel terzo trimestre del 2021, si è attestato su un <strong>attivo di 22.258</strong>. Questa soglia era stata superata solo due volte nel decennio pre-pandemico. Ancora una volta viene da chiederci: <strong>ma tutto questo personale da dove sbuca?</strong></p>
<p>Semplicemente, all’interno delle neonate imprese edili,&nbsp;<strong>il personale non esiste</strong>. Ce lo spiega ancora Buia:&nbsp;“Non hanno <strong>alcuna organizzazione sul piano della sicurezza</strong> e del controllo dei luoghi di lavoro a tutela delle loro maestranze. Non hanno niente. Le maestranze non le hanno; in caso contrario, imprese che aprono dalla sera alla mattina non possono avere l’organizzazione adeguata, perché non hanno avuto il tempo materiale minimo per farlo. <strong>È una situazione che merita l’attenzione immediata del Governo</strong>. Immediata. L’unico strumento che possiamo avere per intervenire rapidamente è applicare le norme che sono in vigore nei cantieri dell’Italia centrale impegnati nella ricostruzione per terremoto. La normativa esiste già, è pronta. Basta aggiungere due frasi: ‘Viene applicata a tutti i bonus presenti qui’. Sono soldi pubblici a beneficio di privati, e devono essere utilizzati esattamente come avvenuto fino a ieri, quando c’era un investimento pubblico. Mi sorprende che nessun bonus previsto sia sottoposto a una politica del genere”.</p>
<p>“A questo si aggiunge il problema che spesso queste imprese non hanno dipendenti diretti, perché <strong>subappaltano tutto</strong>. Oggi sul mercato privato, che è quello che caratterizza praticamente chi accede ai bonus in generale, <strong>non occorre dimostrare niente</strong>. Basta che lei si iscriva alla Camera di Commercio con il codice ATECO costruzioni, e con un telefono e una stanza fa impresa. Le sembra possibile che, con i problemi che abbiamo dal 2020, noi dobbiamo avere una categoria imprenditoriale che di imprenditoria non ha niente se non scopi profittevoli? E si badi: non è un fatto dimensionale, una questione di piccoli, medi, grandi. Assolutamente no. Io sto chiedendo che ogni impresa abbia un’organizzazione proporzionata all’entità dei lavori che sta eseguendo.”</p>
<p>“E non voglio demonizzare il subappalto. Storicamente oggi il mondo delle costruzioni è molto frammentato, si fa grande uso del subappalto. Si chiede però che l’azienda appaltatrice, l’impresa principale, abbia un organigramma che consente formazione e sicurezza. <strong>Col sistema attuale si droga il mercato</strong>, a svantaggio delle imprese corrette che hanno dei costi fissi. Mancano così figure professionali, c’è carenza di manodopera, non si trovano maestranze professionalizzate, dipendenti di tutte le tipologie. Si calcola che da oggi ai prossimi anni mancheranno al settore circa 265.000 lavoratori.”</p>
<p>Se si cerca di dare una geografia al fenomeno, gli stessi dati forniscono una mappa di carattere nazionale omogenea, con il <strong>Mezzogiorno</strong> che ha una marcia in più: <strong>un più facile reperimento di manodopera</strong>, quella stessa che nei decenni scorsi emigrava in cerca di lavoro, e adesso lo trova sotto casa.</p>
</p>
<p><em>In copertina: Gabriele Buia, Presidente ANCE</em></p>
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Michela-Danieli

Michela Danieli

E&#8217; giornalista professionista dal 2002 e titolare di tessera stampa internazionale dal 2012. Vive tra Padova e Stoccolma, da dove collabora con il Fatto Quotidiano dal 2013 e con Senza Filtro dal 2015. Il suo sguardo è rivolto, da sempre, all&#8217;inchiesta giornalistica evitata dagli altri, alla denuncia sociale, politica e di carattere economico. La definizione che pensa le rassomigli di più è quella attribuitale da una leggenda de Il Resto del Carlino: &#8220;Ragazza pericolosissima!

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Michela Danieli - Informazione senza filtro

Il presidente dell&#8217;Associazione Nazionale Costruttori Edili, Gabriele Buia: &#8220;Mercato drogato da nuove imprese edili senza dipendenti: vogliono sfruttare i bonus. Chiediamo attenzione immediata del Governo&#8221;.

Gabriele Buia, presidente ANCE: “Troppe imprese edili, spesso fantasma, e i controlli non bastano” - Informazione senza filtro

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<p>Incidenti sul lavoro: dovrebbero esserci <strong>1.400 tecnici della prevenzione in più</strong> nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, in Italia. A denunciarlo <strong>Maurizio Di Giusto</strong>, ex presidente dell&#8217;associazione UNPISI tecnici della prevenzione, docente universitario, presidente della commissione dell&#8217;albo nazionale dei tecnici per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro (TPALL).</p>



<p>Sono loro gli esperti che intervengono a rimuovere le cause di pericolo, prima che qualsiasi incidente possa accadere. La loro presenza in aziende pubbliche e private è fondamentale per <strong>prevenire gli incidenti sul lavoro</strong>, spiega Di Giusto: “È un tema molto caldo quello della prevenzione, alla luce del disegno di legge in corso di approvazione in Senato, il quale non tiene conto della prevenzione primaria, l’unico fattore per prevenire i morti e gli incidenti sul lavoro. Normativamente si torna indietro, mettendo in atto essenzialmente <strong>un approccio di tipo repressivo</strong>, che in tutti questi anni ha contribuito a ridurre i numeri alti delle morti sul lavoro degli anni Sessanta, mentre negli ultimi tempi il dato si è stabilizzato”.</p>



<p>In Italia secondo dati INAIL il <strong>costo degli infortuni sul lavoro </strong>per la società è di<strong> 104 miliardi di euro</strong>, pari al 6% del PIL nazionale. Parla di strategia Maurizio Di Giusto: “Per aggredire lo zoccolo duro dei morti sul lavoro vanno cercate nuove strategie della vigilanza e soprattutto l&#8217;attivazione di strumenti di prevenzione primaria, favorendo una cultura della prevenzione nelle scuole, finanziando le imprese che attuano investimenti in prevenzione, l&#8217;assunzione di tecnici, e favorendo soprattutto con incentivi di chi assume professionisti di questo tipo. La mia non è un’idea corporativista legata all’interesse di questa professione: noi siamo professionisti sanitari a 360°. La nostra mission è ridurre infortuni e morti tramite strategie e competenze, perché conosciamo il settore in modo approfondito”.</p>



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<h2 id="h-maurizio-di-giusto-unpisi-dal-governo-una-politica-repressiva-sulla-sicurezza-ma-serve-investire-sulla-prevenzione">Maurizio Di Giusto, UNPISI: “Dal Governo una politica repressiva sulla sicurezza. Ma serve investire sulla prevenzione”</h2>



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<p>Il contesto è funzionale ad attuare una strategia primaria di prevenzione, spiega Di Giusto: “<strong>Investire nei contesti sociali</strong> è la vera strategia che mostra evidenze scientifiche di efficacia, mentre il ministero del Lavoro ed enti afferenti hanno una visione diversa: quella di inasprire le <strong>attività di sanzione</strong> senza pensare che questo causerà maggior sommerso, mancata comunicazione, con un numero più alto di imprese che cercheranno di lavorare all&#8217;ombra, invece di comunicare e chiedere supporto, perché l&#8217;obiettivo è quello di <strong>eludere i controlli</strong>. È una dicotomia sbagliata ridurre infortuni e morti attraverso le sanzioni, così come per gli incidenti stradali non serve inasprire le pene, che sono solo deterrenti. Il vero cambiamento è sviluppare nei ragazzi una nuova cultura del lavoro e permeare la società civile con stimoli ai corretti comportamenti”.</p>



<p>“La prevenzione ha successo quando non accade nulla”, sottolinea Di Giusto. “Nel momento in cui una persona infortunata sul lavoro o che ha una malattia professionale si rivolge a un ospedale o al medico di famiglia, è la dimostrazione che la prevenzione non ha funzionato. <strong>Occorre agire prima che si manifestino eventi avversi</strong>. Si sta tracciando un solco sempre più ampio tra controllori e controllati, queste nuove misure credo che non avranno l&#8217;efficacia che il Governo si aspetta. Ci vuole coraggio per operare le scelte che il Governo le istituzioni compiono, perché i frutti saranno raccolti probabilmente tra cinque o dieci anni. Oggi è stata fatta la scelta politica, riguardo i morti sul lavoro, di inasprire le pene per dimostrare che il Governo ha fatto qualcosa. Sono palliativi che servono solo a dare una risposta mediatica, di presenza del Governo e delle istituzioni”.</p>



<p>La ricetta che propone Di Giusto è quella di “<strong>investire in prevenzione tramite attività di vigilanza</strong>, con aziende e cantieri che si attivano e chiedono di essere supportati dal dipartimento della prevenzione, consulenti che le affiancano per permettere di lavorare in sicurezza; invece è un investimento che non si segue. Se si incrementano le risorse finanziarie, gran parte di esse è speso per i <strong>posti letto delle strutture ospedaliere</strong> perché <strong>sono visibili e portano voti</strong>. Non si sostiene invece un incremento di fondi per assumere e rendere i professionisti competenti per la prevenzione, perché non danno visibilità e ritorno politico sul territorio”.</p>



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<h2 id="h-i-vantaggi-dell-assunzione-di-un-tecnico-della-prevenzione">I vantaggi dell&#8217;assunzione di un tecnico della prevenzione</h2>



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<p>Nelle <strong>Marche</strong>, dove si dovrebbero attivare migliaia di cantieri per la <strong>ricostruzione post terremoto</strong>, la CGIL ha denunciato che sono <strong>solo 56 i tecnici della prevenzione</strong>.</p>



<p>Così commenta la situazione Di Giusto: “Infortuni ed eventuali malattie incidono di meno in un contesto come l’ospedale, e di più sulle famiglie e le imprese che hanno subito quei danni. Investire in prevenzione non porta un risultato immediato, ma nel medio lungo termine. Nessuno mai si domanda <strong>quanto costa un grave infortunio</strong>, la sospensione dell&#8217;attività lavorativa per l&#8217;impresa oppure una morte sul lavoro per le famiglie e il sistema economico. <strong>Assumere un tecnico della prevenzione costa molto meno</strong> rispetto a un premio assicurativo INAIL per infortunio”.</p>



<p>“Casi come quello di <strong>Luana D&#8217;Orazio</strong>, che suscitano clamore, hanno portato una forte e pesante mobilità dei media con l’emanazione di un disegno di legge ora in Senato per l’approvazione, ma nonostante si ripetano le stesse morti il Governo sbandiera questo disegno di legge come risposta, ma <strong>le altre morti hanno un clamore mediatico molto più basso</strong>, c&#8217;è la volontà politica di far emergere solo le notizie che contano. I morti come Luana ci sono sempre. Il diritto al lavoro garantito in tutte le sue forme dalla Costituzione è un impegno che non si traduce in investimenti, che tutta la cultura professionale e sociale che permea il sistema dovrebbe chiedere siano attivati.”</p>



<p>“La formazione avviene tramite enti che vanno presso l&#8217;azienda e rilasciano attestati, ma è una chiave strategica importante per far crescere la cultura del lavoratore verso la sicurezza. Per farla servono competenze ed empatia verso i lavoratori con il coinvolgimento attivo sui problemi che hanno ogni giorno, il pacchetto formativo va calato sulla singola realtà. Il docente medio svolge formazione con le slide, finisce le ore che deve fare e, svolto il compitino, se ne va. <strong>L&#8217;azienda è contenta, il lavoratore annoiato, e la formazione di fatto non ha efficacia</strong>.”</p>



<p></p>



<p>In copertina foto by Pixabay</p>



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Un tecnico della prevenzione costa meno di un infortunio

<p>Quando si parla di <strong>sicurezza nei luoghi di lavoro</strong> si pensa perlopiù alla prevenzione da infortuni e incidenti, dimenticando spesso un altro ambito che può subire altrettante conseguenze negative, non meno invalidanti o persino letali: parliamo della salute. I <strong>danni da esposizione a sostanze nocive </strong>costituiscono una problematica tangibile e un costo a livello umano, lavorativo e sanitario tutt’altro che trascurabile.</p>
<p>Per affrontare il tema ci confrontiamo con una realtà che a livello nazionale si batte da tempo per la tutela dei diritti delle persone con patologie che trovano faticosamente riconoscimento: l’<strong>associazione onlus MARA</strong>. Composta da più di 1.500 soci, persegue diversi obiettivi, in particolare quello di fornire informazione e supporto ai e alle pazienti affetti da <strong>sensibilità chimica multipla</strong>, fibromialgia, encefalomielite mialgica, e con diagnosi differenziale di sindrome da stanchezza cronica e patologie correlate. Allo stesso tempo sostiene la ricerca scientifica e organizza eventi di sensibilizzazione, oltre a progetti sociosanitari per le persone svantaggiate, contrastando dinamiche di emarginazione sociale e mobbing. L’associazione ha inoltre stipulato convenzioni per aiutare i pazienti ad accedere ad analisi e approcci terapeutici con costi ridotti.</p>
<p>A fondarla è <strong>Tiziana Scotti</strong>, attuale presidente, che pone subito in evidenza il problema cardine: “Nel caso della sensibilità chimica multipla parliamo di una patologia di cui non solo si fa fatica a dimostrare l’eventuale correlazione con esposizioni pericolose avvenute nelle zone di abitazione o in luoghi di lavoro, ma per la quale è una <strong>lotta vederne riconosciuta</strong> e<strong> ammessa l’esistenza</strong>”. E puntualizza: “Ci sono casi di persone che presentano sensibilità chimica multipla sorta in seguito ad esposizione prolungata a toner di stampanti, a vernici e in generale ad ambienti di lavoro con emissioni pericolose, tra cui <strong>metalli pesanti</strong>. La cosa più dura è che lo Stato non riconosce determinate patologie, e questo significa essere privi di un codice di esenzione e soprattutto di un centro di riferimento per la diagnosi, in particolar modo precoce, oltre che per la cura”.</p>
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<h2 id="h-costretta-a-vendere-casa-e-auto-e-a-curarmi-all-estero-le-malattie-lavorative-non-riconosciute-dall-italia">“Costretta a vendere casa e auto e a curarmi all’estero”: le malattie lavorative non riconosciute dall’Italia</h2>
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<p>Contesti di lavoro che fanno ammalare e che fanno perdere la possibilità stessa di lavorare, patologie invalidanti con effetti tangibili ma considerate fantasmi: un crogiuolo di contraddizioni incandescenti in un Paese che si vanta di avere un sistema di sanità pubblica efficiente.</p>
<p>“La maggior parte di noi sono malati gravi”, racconta Tiziana Scotti, che conosce sulla propria pelle gli effetti devastanti di questo tipo di patologie. “<strong>A trent’anni ho dovuto interrompere la mia attività lavorativa</strong>”.</p>
<p>Per Tiziana, così come per molte altre persone che condividono la sua situazione, inizia un percorso complesso: “Ci si rivolge al <strong>medico legale</strong> per vedere riconosciuta la propria patologia, che comporta conseguenze neurologiche, endocrine, allergiche e non da ultime esistenziali, oltre che economiche. Per curarci dobbiamo infatti <strong>andare all’estero e sostenere spese onerose</strong>: io ad esempio ho dovuto vendere auto e casa per sostenere tutte le spese, incluse quelle di viaggio. Per la salute si cerca di fare tutto”.</p>
<p>In merito a questa grave lacuna l’associazione MARA si sta attivando in maniera forte: “Stiamo cercando di mettere in piedi un <strong>progetto per curare i pazienti qui in Italia</strong>: chi fosse interessato a sostenere l’iniziativa può contattarci”.</p>
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<h2 id="h-sensibilita-chimica-multipla-alcune-regioni-ne-negano-l-esistenza">Sensibilità chimica multipla, alcune Regioni ne negano l’esistenza</h2>
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<p>Lo scenario riguardante il riconoscimento di alcune patologie gravi come la <strong>sensibilità chimica multipla </strong>è in Italia a dir poco assurdo, e ci srotola davanti agli occhi un film già visto e basato sulla totale frammentarietà e ambiguità. In pratica questa patologia viene <strong>riconosciuta in alcune Regioni mentre in altre no</strong>, come se la malattia fosse un marchio DOP slegato dalla scienza.</p>
<p>“Non hanno rinnovato la tabellazione del medico legale”, specifica Tiziana Scotti. “Anche il riconoscimento resta comunque solo una formalità, perché qui in Italia manca un centro che fornisca un percorso diagnostico-terapeutico. Nel Lazio c’era un centro regionale per la diagnosi e cura ma è stato chiuso, una situazione vergognosa: <strong>ci sono grossi conflitti di interesse con lo Stato </strong>perché quando ti trovi di fronte persone malate a causa dell’ambiente e da esposizioni tossiche è come ammettere una responsabilità”.</p>
<p>La presidente sottolinea anche la situazione d’abbandono da parte di un altro ambito importante del macrocosmo sanitario: le farmacie. “<strong>Per le case farmaceutiche le patologie di origine ambientale sono prive di interesse </strong>e di introito economico, quando invece dal nostro osservatorio possiamo dare un campanello d’allarme dicendo che queste patologie sono in aumento e sono sempre più correlate tra loro. Servirebbero approcci di diagnosi e di cura multidisciplinari che qui invece mancano”.</p>
<p>La situazione è peggiorata con la pandemia? “Per noi malati gravi l’avvento del COVID non ha cambiato nulla, <strong>siamo in lockdown perenne da anni</strong>”, chiosa Tiziana. “Da anni viviamo chiusi, in case protette e bonificate, in ogni caso isolati”. Lacune che innescano odissee dove a finire a tappeto sono la salute, il lavoro, la vita.</p>
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<h2 id="h-malattia-da-sostanze-nocive-sul-posto-di-lavoro-come-agire">Malattia da sostanze nocive sul posto di lavoro: come agire</h2>
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<p><strong>Salute compromessa e responsabilità da dimostrare</strong>. La presidente dell’associazione MARA definisce una lotta continuail percorso intrapreso a livello legale dalle persone che si ammalano: “Bisogna essere affiancati da medici e avvocati etici e preparati”.</p>
<p>Nel nostro servizio non possiamo non interfacciarci con <strong>Roberto Cao</strong>, consulente legale dell’associazione MARA, con cui collabora da una decina d’anni. Nella vita di tutti i giorni è un avvocato che conosce bene il tema del<strong> diritto alla salute </strong>e dei danni da esposizione a sostanze nocive. A proposito della questione sicurezza nei contesti lavorativi afferma: “Da quello che ho potuto constatare c’è un problema di mancata di consapevolezza sulle possibili conseguenze derivate dall’esposizione a sostanze chimiche. Inoltre <strong>manca una norma a livello nazionale </strong>che riconosca la sensibilità chimica multipla: questo è un ostacolo gigantesco. All’interno della comunità medica ci sono divisioni rispetto all’esistenza della patologia. <strong>In Italia il diritto sanitario è a macchia di leopardo</strong> e attualmente a riconoscere questa patologia ci sono solo alcune Regioni”. Il resto è cronistoria già raccontata.</p>
<p>Addentrandoci in ambito legale, un lavoratore o una lavoratrice che si ammalano in seguito all’esposizione a sostanze nocive nel contesto in cui svolgono la loro attività che cosa possono fare?</p>
<p>“Innanzitutto è necessaria la dimostrazione di un <strong>nesso causale </strong>tra esposizione nociva e patologia e per farlo è necessaria una <strong>relazione tecnica</strong> preparata da un <strong>medico legale</strong>. L’INAIL dovrebbe riconoscere il nesso di causalità e la malattia professionale oltre a una<strong> rendita</strong> nei casi più gravi. Il risarcimento è da parte del datore di lavoro confermata la sua responsabilità, civile o penale. Diverso è il caso in cui la sede di lavoro sia soggetta ad esposizioni nocive, ma non per responsabilità del contesto lavorativo stesso, bensì perché la zona in cui è ubicata riceve queste emissioni”.</p>
<p>Riguardo all’<strong>indennizzo</strong>, Cao sottolinea: “È un’alternativa allo stipendio, ma purtroppo <strong>non riesce quasi mai a sostenere</strong> le spese necessarie: ad esempio i malati di sensibilità chimica multipla necessitano di integratori, cure all’estero e isolamento da sostanze chimiche; inoltre le loro condizioni non consentono quasi mai a queste persone di lavorare. Molte di queste persone hanno bisogno di accompagnatori che li sostengano nelle trasferte. Ci sono situazioni che vanno al di là dell’immaginazione e che possono portare a gesti estremi”.</p>
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<h2 id="h-la-prevenzione-secondaria-salvavita-poco-frequentato-sul-posto-di-lavoro">La prevenzione secondaria, salvavita poco frequentato sul posto di lavoro</h2>
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<p>Ci confrontiamo con un altro consulente dell’associazione MARA, <strong>Giacomo Rao</strong>, medico legale con esperienza di dirigente medico alla sovrintendenza sanitaria centrale, settore prevenzione ricerca direzione generale&nbsp;INAIL.</p>
<p>“Il tema della prevenzione da esposizione a sostanze tossiche nei luoghi di lavoro è affrontato spesso in maniera farraginosa”, commenta. “Diversi enti spendono molti soldi per fare prevenzione primaria per ridurre giustamente gli inquinanti più pericolosi, ma di fatto risulta impossibile togliere del tutto le esposizioni. Per un’efficace&nbsp;sorveglianza sanitaria personalizzata&nbsp;occorrerebbe approfondire la ricerca sulla<strong>&nbsp;prevenzione secondaria</strong>, che mira a intercettare dei <strong>biomarcatori precoci</strong> di esposizione e di effetto prima che la malattia si manifesti. Individuando queste alterazioni biochimiche <strong>potremmo salvare la vita a molti lavoratori e lavoratrici</strong>. Recenti ricerche individuano ncRNAs, tra&nbsp;cui microRNA, profili di metilazione come potenziali&nbsp;biomarcatori molecolari precoci di diverse tecnopatie”.</p>
<p>Sanità, scienza, tutela dei diritti, ricerca: in un’Italia sempre più frammentata tutti questi ingredienti, di base preziosi, perdono pezzi per strada e si sfaldano a discapito delle vite in carne e ossa, tra responsabilità che si continuano a non voler trattare e nemmeno nominare. Guarda caso, come le stesse malattie tuttora non riconosciute.</p>
</p>
<p>Foto di&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/@kindelmedia?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Kindel Media</a></strong>&nbsp;da&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/foto/laboratorio-medicina-ricerca-scienza-8325758/?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Pexels</a></strong></p>
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Bellingeri

Sara Bellingeri

Scrive fin da quando ha acchiappato in mano la sua prima matita e da allora la passione di raccontare e incontrare le storie non è mai sbiadita. Dal 2005 lavora come giornalista e responsabile ufficio stampa occupandosi soprattutto di diritti, ambiente, inclusione lavorativa, sanità e disabilità. Nel curriculum una laurea in Antropologia Filosofica, un master in comunicazione di eventi e tre libri. In testa la costante voglia di partire anche se il viaggio più emozionante glielo fanno fare ogni giorno i suoi bambini. “Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato”. La frase di Tennyson rappresenta al meglio il suo modo di vivere la vita, il lavoro e le esperienze.

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La patologie ambientali possono privare del lavoro e compromettere la vita personale, e talvolta non vengono riconosciute, come nel caso della sensibilità chimica multipla. Ne abbiamo parlato con i membri della onlus MARA.

Malattie da lavoro non riconosciute in Italia: &#8220;Costretta a vendere casa e auto per curarmi all&#8217;estero&#8221; - Informazione senza filtro

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<p>Com’è noto alle cronache, a inizio anni Duemila le <strong>indagini ambientali a Brescia</strong> sull’area dello <strong>stabilimento Caffaro</strong> e sulle immediate vicinanze hanno rivelato la presenza di pericolosi inquinanti con valori superiori fino a migliaia di volte rispetto ai limiti di legge. Tra questi i <strong>policlorobifenili</strong> (PCB), <strong>policlorobenzodiossine</strong> e <strong>dibenzofurani</strong> (PCDD/F), <strong>mercurio</strong> e <strong>arsenico</strong>.</p>



<p>L’inquinamento dell’attività produttiva della Caffaro ha contaminato non solo i terreni sottostanti lo stabilimento, ma si è diffuso attraverso lo <strong>scarico delle acque industriali nelle rogge</strong>, arrivando a colpire le aree limitrofe e compromettendo la salubrità della catena alimentare della zona. A questi fattori si è sommata una movimentazione inadeguata e non sicura dei <strong>rifiuti</strong> e dei <strong>suoli contaminati</strong>, che ha esteso l’inquinamento anche ad altre aree, come la discarica Vallosa di Passirano.</p>



<p>Una situazione gravissima, che ha portato a febbraio 2003 il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio a definire tramite decreto il perimetro dell’area Caffaro come Sito di Interesse Nazionale (SIN).<strong> Vent’anni dopo la situazione non è ancora stata risolta</strong>, ed è notizia di pochi giorni fa la scoperta di <strong>ottanta nuove sostanze inquinanti</strong> presenti nell’area.</p>



<p><strong>Come è stato possibile arrivare a tanto?</strong> Perché ancora una volta, in nome della difesa del posto di lavoro, è stata messa in secondo piano la tutela della salute dei dipendenti di un’azienda, dell’ambiente e della popolazione?</p>



<p>Ne abbiamo parlato con <strong>Marino Ruzzenenti</strong>, storico ed esperto dell’ambiente, che per primo denunciò il disastro chimico bresciano.</p>



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<h2 id="h-la-caffaro-e-lo-sporco-sotto-il-tappeto-un-disastro-negato-dalle-istituzioni">La Caffaro e lo sporco sotto il tappeto: un disastro negato dalle istituzioni</h2>



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<p>La Caffaro è stata l’unica azienda chimica italiana a produrre, su licenza Monsanto, i <strong>PCB</strong> per oltre quarant’anni, sino al 1984, quando ne venne riconosciuta la pericolosità per l’uomo e l’ambiente (il Giappone li aveva vietati già dal 1972).</p>



<p>“Per lungo tempo si è andati avanti <strong>cercando di negare o sottovalutare il caso</strong>”, spiega Ruzzenenti. “Riconoscerlo da parte delle istituzioni significava prendere coscienza delle proprie responsabilità. In nome del progresso e degli interessi nazionali è stata fatta una vera e propria <strong>guerra chimica contro lavoratori e cittadini</strong>. La colpa è delle aziende private, che tuttavia sono state coperte dagli organi di controllo e dallo Stato, che aveva necessità e interessi rispetto a questa produzione”.</p>



<p>Il riconoscimento della <strong>pericolosità del sito</strong> è arrivato dopo che nel 2001 <em>La Repubblica</em> ha lanciato l’allarme in prima pagina sulla contaminazione da PCB dell’area. Le istituzioni a quel punto sono state costrette a indagare, anche se l’intento iniziale era smentire l’allarme più che confermarlo.</p>



<p>“Anche dopo il riconoscimento del SIN da parte dello Stato, <strong>la stessa ASL di Brescia ha negato per anni</strong> che a causa dell’inquinamento Caffaro ci fossero conseguenze sulla salute, arrivando a dire che non sono riscontrabili correlazioni tra la presenza dei PCB nel sangue e l’insorgenza di specifiche malattie. Diversamente, come testimoniato anche dal rapporto Sentieri, c’è un legame provato tra PCB e malattie cardiocircolatorie, demenza senile, tumori interferenti endocrini. Brescia in Italia è il SIN con la più alta incidenza di questi tumori, in particolare alla prostata, alla tiroide e alla mammella. Va detto inoltre che gli studi, sia sui lavoratori che sulla popolazione dell’area contaminata, sono stati fatti in ritardo; sarebbe stato più utile farli prima per avere maggiori dati.”</p>



<p>Nonostante la mancata puntualità, le analisi dell’Azienda Sanitaria Locale hanno comunque confermato nel tempo gli effetti negativi della presenza dei PCB e delle altre sostanze sui soggetti colpiti; i caduti di questa guerra chimica. Tra questi il triste primato, per gli <strong>ex lavoratori della Caffaro</strong>, dei più elevati livelli ematici di PCB, oltre all’eccesso di morti per tutti i tumori.</p>



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<h2 id="h-o-lavoro-o-morte-l-aristocrazia-operaia-della-caffaro-ha-taciuto-per-anni">O lavoro o morte. L’aristocrazia operaia della Caffaro ha taciuto per anni</h2>



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<p>Nonostante si sapesse della pericolosità dell’inquinamento derivante dalle attività della Caffaro, per Ruzzenenti <strong>gli stessi lavoratori e il sindacato per anni hanno taciuto</strong> rispetto a questi temi, preferendo tutelare <strong>il lavoro prima della salute</strong>.</p>



<p>Un’esperienza e una tendenza diversa rispetto ad altre aziende della zona: “In passato (fine anni Settanta, primi Ottanta) si era sviluppato a Brescia, come poi in tutta la realtà nazionale, un impegno importante del sindacato sui temi della sicurezza sul lavoro e dell’inquinamento all’esterno delle aziende.” Secondo lo storico bresciano, il “<strong>modello operaio</strong>” <strong>di intervento sull’ambiente</strong> <strong>di lavoro</strong> aveva avuto dei risultati positivi: “Ad esempio ricordo vertenze importanti nel territorio rispetto alla riduzione delle emissioni fumi dell’industria metallurgica di seconda fusione. In queste imprese (la cui dimensione complessiva è paragonabile a quella dell’ILVA) ottennero dei risultati positivi. <strong>Gli operai mappavano i rischi in azienda</strong> e chiedevano interventi di <strong>prevenzione</strong>: non agire a danno subìto, ma fare di tutto perché il danno non si verifichi. Questo era il loro principio”.</p>



<p>Questo però non è successo all’interno della Caffaro: “<strong>I lavoratori di questa azienda si sentivano privilegiati nel panorama bresciano</strong>. Era l’unica azienda chimica della zona, in un contesto di aziende metallurgiche, di tessile per l’abbigliamento, o metalmeccaniche. La chimica era un settore d’avanguardia, e i suoi lavoratori erano considerati <strong>aristocrazia operaia</strong>, che percepiva uno stipendio più elevato rispetto agli altri settori”.</p>



<p>Per tutelare questa condizione di privilegio, quindi, sia da parte dei lavoratori che dei sindacati si sarebbero chiusi molti occhi, senza affrontare alla radice il problema della pericolosità di questa fabbrica.</p>



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<h2 id="h-in-attesa-di-una-svolta-ecologica-bonifiche-ferme-e-ancora-veleni">In attesa di una svolta ecologica, bonifiche ferme e ancora veleni</h2>



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<p>Sino ad oggi nella pratica si sono raggiunti <strong>pochissimi risultati per il SIN Caffaro</strong>, che si riducono ulteriormente se si considera che il progetto di bonifica e di messa in sicurezza fa riferimento solo al sito industriale, e <strong>non comprende i terreni esterni</strong> (giardini, parchi pubblici, orti privati, cortili delle scuole). Tenendo conto del complesso delle aree che per l’ARPA risultano gravemente inquinate (700 ettari), la bonifica fatta sino ad oggi arriva all’1%.</p>



<p>“Dopo vent’anni non solo il SIN Caffaro, ma anche gli altri 41 definiti dalla normativa sono piuttosto malmessi”, continua Ruzzenenti. “Quello che servirebbe è una vera svolta ecologica, che parta dalla presa di coscienza dei danni e degli impatti prodotti dall’industrializzazione del secolo scorso L’impressione è che invece in Italia questa volontà politica non ci sia ancora, nemmeno nel PNRR”.</p>



<p>Più passa il tempo più la situazione del SIN Caffaro sembra aggravarsi, come dimostra il ritrovamento degli <strong>ottanta nuovi inquinanti</strong> nei terreni contaminati. Sostanze la cui esistenza è dovuta presumibilmente a <strong>trasformazioni dei PCB</strong>, e che sono state identificate da una ricerca realizzata in collaborazione tra l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste di Regione Lombardia e i dipartimenti dell’Università degli Studi dell’Insubria e di Milano.</p>



<p>“Il ritrovamento di queste molecole”, precisa Ruzzenenti, “testimonia che le <strong>sostanze</strong> presenti in questo SIN non solo non sono biodegradabili, ma <strong>subiscono trasformazioni senza scomparire</strong>, e come già dimostrato si accumulano facilmente negli esseri viventi, con conseguenze sulla loro salute”. Una situazione di incertezza che richiederà necessariamente ulteriori approfondimenti per capire la gravità di queste trasformazioni.</p>



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<h2 id="h-nuova-condanna-per-la-caffaro-e-i-territori-sono-compromessi-per-sempre">Nuova condanna per la Caffaro. E i territori sono compromessi per sempre</h2>



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<p>Come se l’eredità della vecchia Caffaro Chimica non fosse sufficiente, nei mesi scorsi la magistratura ha contestato anche alla <strong>Caffaro Brescia</strong>, subentrata nel 2011, di <strong>aver aggravato l’inquinamento storico</strong> versando <strong>cromo esavalente </strong>nei terreni e nella falda, oltre a non aver garantito l’efficacia del filtraggio dell’acqua che viene scaricata nell’ambiente. La Caffaro Brescia era succeduta alla SNIA, nata nel 2004 insieme alla Sorin biomedicale, dopo lo smembramento della vecchia azienda. Una pluralità di soggetti nel tempo che crea complessità nella gestione di costi e responsabilità, che la magistratura sta quantificando e attribuendo in questi mesi, conquistando nonostante tutto dei piccoli passi avanti nella gestione della vicenda.</p>



<p>È divenuto chiaro tuttavia che non è più possibile continuare ad arrivare sempre e solo dopo a individuare i colpevoli e mettere delle pezze, ben sapendo che in questo SIN, così come negli altri, <strong>non sarà mai possibile tornare allo stato di salute originale dei territori inquinati</strong>.</p>



<p>Effetti duraturi e non reversibili: dovrebbero lasciare come monito ad aziende, istituzioni e cittadini che non si può più pensare di risolvere i problemi in un secondo momento, ma che l’unica via per la tutela della salute e della sicurezza è la <strong>prevenzione primaria nei processi produttivi</strong>.</p>



<p></p>



<p><em>In copertina: lo stabilimento Cafarro, foto by Bresciaoggi</em></p>



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Caffaro, Brescia: inquinamento, nuove condanne, lavoratori complici

<p>Incidenti sul lavoro: dovrebbero esserci <strong>1.400 tecnici della prevenzione in più</strong> nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, in Italia. A denunciarlo <strong>Maurizio Di Giusto</strong>, ex presidente dell&#8217;associazione UNPISI tecnici della prevenzione, docente universitario, presidente della commissione dell&#8217;albo nazionale dei tecnici per la prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro (TPALL).</p>
<p>Sono loro gli esperti che intervengono a rimuovere le cause di pericolo, prima che qualsiasi incidente possa accadere. La loro presenza in aziende pubbliche e private è fondamentale per <strong>prevenire gli incidenti sul lavoro</strong>, spiega Di Giusto: “È un tema molto caldo quello della prevenzione, alla luce del disegno di legge in corso di approvazione in Senato, il quale non tiene conto della prevenzione primaria, l’unico fattore per prevenire i morti e gli incidenti sul lavoro. Normativamente si torna indietro, mettendo in atto essenzialmente <strong>un approccio di tipo repressivo</strong>, che in tutti questi anni ha contribuito a ridurre i numeri alti delle morti sul lavoro degli anni Sessanta, mentre negli ultimi tempi il dato si è stabilizzato”.</p>
<p>In Italia secondo dati INAIL il <strong>costo degli infortuni sul lavoro </strong>per la società è di<strong> 104 miliardi di euro</strong>, pari al 6% del PIL nazionale. Parla di strategia Maurizio Di Giusto: “Per aggredire lo zoccolo duro dei morti sul lavoro vanno cercate nuove strategie della vigilanza e soprattutto l&#8217;attivazione di strumenti di prevenzione primaria, favorendo una cultura della prevenzione nelle scuole, finanziando le imprese che attuano investimenti in prevenzione, l&#8217;assunzione di tecnici, e favorendo soprattutto con incentivi di chi assume professionisti di questo tipo. La mia non è un’idea corporativista legata all’interesse di questa professione: noi siamo professionisti sanitari a 360°. La nostra mission è ridurre infortuni e morti tramite strategie e competenze, perché conosciamo il settore in modo approfondito”.</p>
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<h2 id="h-maurizio-di-giusto-unpisi-dal-governo-una-politica-repressiva-sulla-sicurezza-ma-serve-investire-sulla-prevenzione">Maurizio Di Giusto, UNPISI: “Dal Governo una politica repressiva sulla sicurezza. Ma serve investire sulla prevenzione”</h2>
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<p>Il contesto è funzionale ad attuare una strategia primaria di prevenzione, spiega Di Giusto: “<strong>Investire nei contesti sociali</strong> è la vera strategia che mostra evidenze scientifiche di efficacia, mentre il ministero del Lavoro ed enti afferenti hanno una visione diversa: quella di inasprire le <strong>attività di sanzione</strong> senza pensare che questo causerà maggior sommerso, mancata comunicazione, con un numero più alto di imprese che cercheranno di lavorare all&#8217;ombra, invece di comunicare e chiedere supporto, perché l&#8217;obiettivo è quello di <strong>eludere i controlli</strong>. È una dicotomia sbagliata ridurre infortuni e morti attraverso le sanzioni, così come per gli incidenti stradali non serve inasprire le pene, che sono solo deterrenti. Il vero cambiamento è sviluppare nei ragazzi una nuova cultura del lavoro e permeare la società civile con stimoli ai corretti comportamenti”.</p>
<p>“La prevenzione ha successo quando non accade nulla”, sottolinea Di Giusto. “Nel momento in cui una persona infortunata sul lavoro o che ha una malattia professionale si rivolge a un ospedale o al medico di famiglia, è la dimostrazione che la prevenzione non ha funzionato. <strong>Occorre agire prima che si manifestino eventi avversi</strong>. Si sta tracciando un solco sempre più ampio tra controllori e controllati, queste nuove misure credo che non avranno l&#8217;efficacia che il Governo si aspetta. Ci vuole coraggio per operare le scelte che il Governo le istituzioni compiono, perché i frutti saranno raccolti probabilmente tra cinque o dieci anni. Oggi è stata fatta la scelta politica, riguardo i morti sul lavoro, di inasprire le pene per dimostrare che il Governo ha fatto qualcosa. Sono palliativi che servono solo a dare una risposta mediatica, di presenza del Governo e delle istituzioni”.</p>
<p>La ricetta che propone Di Giusto è quella di “<strong>investire in prevenzione tramite attività di vigilanza</strong>, con aziende e cantieri che si attivano e chiedono di essere supportati dal dipartimento della prevenzione, consulenti che le affiancano per permettere di lavorare in sicurezza; invece è un investimento che non si segue. Se si incrementano le risorse finanziarie, gran parte di esse è speso per i <strong>posti letto delle strutture ospedaliere</strong> perché <strong>sono visibili e portano voti</strong>. Non si sostiene invece un incremento di fondi per assumere e rendere i professionisti competenti per la prevenzione, perché non danno visibilità e ritorno politico sul territorio”.</p>
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<h2 id="h-i-vantaggi-dell-assunzione-di-un-tecnico-della-prevenzione">I vantaggi dell&#8217;assunzione di un tecnico della prevenzione</h2>
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<p>Nelle <strong>Marche</strong>, dove si dovrebbero attivare migliaia di cantieri per la <strong>ricostruzione post terremoto</strong>, la CGIL ha denunciato che sono <strong>solo 56 i tecnici della prevenzione</strong>.</p>
<p>Così commenta la situazione Di Giusto: “Infortuni ed eventuali malattie incidono di meno in un contesto come l’ospedale, e di più sulle famiglie e le imprese che hanno subito quei danni. Investire in prevenzione non porta un risultato immediato, ma nel medio lungo termine. Nessuno mai si domanda <strong>quanto costa un grave infortunio</strong>, la sospensione dell&#8217;attività lavorativa per l&#8217;impresa oppure una morte sul lavoro per le famiglie e il sistema economico. <strong>Assumere un tecnico della prevenzione costa molto meno</strong> rispetto a un premio assicurativo INAIL per infortunio”.</p>
<p>“Casi come quello di <strong>Luana D&#8217;Orazio</strong>, che suscitano clamore, hanno portato una forte e pesante mobilità dei media con l’emanazione di un disegno di legge ora in Senato per l’approvazione, ma nonostante si ripetano le stesse morti il Governo sbandiera questo disegno di legge come risposta, ma <strong>le altre morti hanno un clamore mediatico molto più basso</strong>, c&#8217;è la volontà politica di far emergere solo le notizie che contano. I morti come Luana ci sono sempre. Il diritto al lavoro garantito in tutte le sue forme dalla Costituzione è un impegno che non si traduce in investimenti, che tutta la cultura professionale e sociale che permea il sistema dovrebbe chiedere siano attivati.”</p>
<p>“La formazione avviene tramite enti che vanno presso l&#8217;azienda e rilasciano attestati, ma è una chiave strategica importante per far crescere la cultura del lavoratore verso la sicurezza. Per farla servono competenze ed empatia verso i lavoratori con il coinvolgimento attivo sui problemi che hanno ogni giorno, il pacchetto formativo va calato sulla singola realtà. Il docente medio svolge formazione con le slide, finisce le ore che deve fare e, svolto il compitino, se ne va. <strong>L&#8217;azienda è contenta, il lavoratore annoiato, e la formazione di fatto non ha efficacia</strong>.”</p>
</p>
<p>In copertina foto by Pixabay</p>
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Orazi

Monia Orazi

Classe 1976, è una giornalista freelance che vive e lavora nelle Marche dove approfondisce temi di attualità imprenditoriale legati alle dinamiche economiche e ambientali del territorio di riferimento. Collabora con Corriere Adriatico e Cronache Maceratesi. Il suo motto è &#8220;memento audere semper&#8221;.

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Maurizio Di Giusto, presidente UNPISI tecnici della prevenzione: &#8220;Sbagliata la scelta repressiva del Governo in materia di sicurezza lavorativa, andava bene per gli anni Sessanta&#8221;.

Un tecnico della prevenzione costa meno di un infortunio - Informazione senza filtro

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<p>La pandemia ha complicato la vita ai <strong>ristoratori</strong> e ai <strong>pubblici esercizi</strong> e non solo a causa delle chiusure e delle limitazioni. Un dato su tutti: nel 2020 il settore ha <strong>perso 243.000 posti di lavoro</strong>, di cui 116.000 a tempo indeterminato. Il lockdown e le restrizioni hanno indotto molto personale (anche a tempo indeterminato) a rivolgersi verso altri settori “più sicuri”, come la grande distribuzione e la logistica. Questa migrazione ha comportato una dispersione di competenze difficile da recuperare, un problema con cui le imprese della ristorazione si confrontano quotidianamente.</p>



<p>Però c’è anche l’altro lato della medaglia, forse ancora più inquietante. Infatti c’è anche chi, pur di non perdere il contratto a chiamata o il compenso per una giornata in nero, è <strong>andato a lavorare pur sapendo di essere positivo al COVID-19</strong>. È una questione di responsabilità personale, certo – anzi, di mancata responsabilità personale. Ma oggi quali sono gli <strong>strumenti</strong> per lavoratori e imprese <strong>per garantire la sicurezza sul lavoro</strong> sia nei confronti dei dipendenti che dei clienti? Che cosa è cambiato con la pandemia?</p>



<p>Il <strong>contratto nazionale dei pubblici esercizi </strong>scade proprio a fine mese, e abbiamo chiamato in causa diverse voci per capire che cosa gli manca e come dovrebbe essere rinnovato.</p>



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<h2 id="h-alfredo-zini-confcommercio-il-problema-piu-grave-e-la-mancanza-di-formazione-semplice-e-continua">Alfredo Zini, Confcommercio: “Il problema più grave è la mancanza di formazione semplice e continua”</h2>



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<p>“La preoccupazione è risalita e <strong>si lavora male</strong>, non si riesce a programmare nulla”. Sono le prime parole che <strong>Alfredo Zini</strong> si sente di dirmi. L’incertezza pesa sul settore da troppo tempo e negli imprenditori c’è tanta volontà di proseguire, ma anche la rabbia di chi non trova gli strumenti per poter andare avanti. In primis per questione di <strong>protocolli</strong>.</p>



<p>“Nella ristorazione applicare le normative per la <strong>sicurezza sul lavoro</strong> e la sicurezza alimentare crea spesso grandi difficoltà ai piccoli imprenditori, perché <strong>i protocolli sono di difficile applicazione</strong>. Per gli imprenditori-lavoratori non è semplice andare incontro a procedure standardizzate e garantire la sicurezza sul lavoro e la sicurezza alimentare nei confronti del cliente. In pratica le sanzioni per punirlo se non rispetta le regole ci sono tutte, ma spesso non gli vengono dati gli strumenti per mettersi in regola. Il problema è che i protocolli vengono pensati in maniera allargata e standardizzata e <strong>la grande industria del food non ha problemi a rispettarli</strong>, ma per il <strong>piccolo imprenditore</strong> in difficoltà non c’è <strong>nessun margine di flessibilità</strong>”.</p>



<p>E questo è un primo punto, ma non l’unico. Secondo Zini la questione della <strong>formazione</strong> è ancora più dolente, soprattutto se collegata alla ricerca del personale.</p>



<p>“Per garantire la sicurezza di tutti, la formazione dovrebbe essere immediata e semplice. Da parte del piccolo imprenditore c’è poca preparazione da questo punto di vista, perché spesso non ha tempo, soprattutto se gli viene dato un carico di controllo che spesso non coincide con i tempi di una piccola impresa famigliare. In pratica dovrebbe esserci una formazione semplice e continua, e collegata a una <strong>banca dati</strong> che dovrebbe permettere all’imprenditore di <strong>assumere in tempo reale</strong>, <strong>anche la mattina per la sera</strong>, potendo però verificare le competenze del collaboratore. Invece questo oggi non è possibile e il rischio è di essere costretti a prendere <strong>personale in nero</strong>, perché ne hai bisogno la sera stessa, senza la possibilità di controllare se il lavoratore è formato e in grado di gestire i processi di sicurezza. E questo ti può mettere in difficoltà sia nei confronti del lavoratore, perché se non sa usare il coltello è un problema e rischia di farsi male, sia nei confronti del cliente, perché se la persona non sa che non si può usare lo stesso tagliere per la carne e per il pesce, il cliente va incontro a intossicazioni, infezioni e problemi.”</p>



<p>“Al tempo stesso ci sono <strong>persone che sono andate a lavorare malate</strong>, anche in pandemia pur di non perdere il lavoro, e questo perché non sempre ci sono stati i giusti <strong>controlli</strong>. Questo oggi è un tema molto forte, ma il problema c’era anche prima, quando un collaboratore poteva avere un’infezione in corso, un’intossicazione alimentare o un virus intestinale. Tutte situazioni in cui non puoi pensare di toccare degli alimenti, però <strong>l’imprenditore non ha nessuno strumento per controllare questa situazione</strong>.”</p>



<p>“L’imprevedibilità è all’ordine del giorno, e se si ammala un dipendente all’imprenditore serve uno strumento che fa una radiografia immediata del lavoratore, <strong>una lista dove ci può essere uno scambio bilaterale</strong>. Magari non troverò sempre il cameriere alto, bello e biondo, ma saprò che lì dentro ci sono persone formate che sanno fare il mestiere. Le agenzie interinali fanno già questa operazione, ma non nei tempi che servono alla ristorazione. Il mondo è cambiato, e le nuove esigenze a livello contrattuale vanno valutate e inserite nel momento di rinnovo, perché così penalizziamo qualsiasi azienda e qualsiasi lavoratore. <strong>Così non c’è ripartenza</strong>”.</p>



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<h2 id="h-paolo-miranda-ex-fisascat-milano-nella-ristorazione-retribuzioni-basse-e-scarsa-cultura-della-sicurezza">Paolo Miranda, ex FISASCAT Milano: “Nella ristorazione retribuzioni basse e scarsa cultura della sicurezza”</h2>



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<p>“Purtroppo <strong>il tasso di infortuni nella ristorazione è altissimo</strong>, anzi è il più elevato in assoluto, <strong>superiore a quello dell’edilizia</strong>”.</p>



<p><strong>Paolo Miranda</strong> ha lavorato all’ente bilaterale dei pubblici esercizi di Milano e tra i compiti aveva anche la gestione della salute e della sicurezza, e quando hanno fatto una ricerca sul settore ha mostrato dati allarmanti.</p>



<p>“<strong>Sono infortuni lievi, quasi mai gravi, ma sono tantissimi</strong> e sono solo quelli denunciati. <strong>Poi c’è tutto il sommerso</strong>. E anche chi lavora in regola non sempre denuncia l’infortunio. Il tasso è altissimo nella ristorazione collettiva, nelle mense e nelle grosse catene, più basso nei piccoli ristoranti. La ragione è che nella grande impresa tutto viene denunciato e registrato, mentre se lavoro in un piccolo ristorante di solito se mi taglio un dito mi aggiusto in qualche modo e l’infortunio non viene registrato.”</p>



<p>“Gli infortuni poi sono molto <strong>simili</strong> a quelli che capitano in <strong>ambiente domestico</strong>, ci si taglia, ci si scotta, si scivola. Manca la cultura della sicurezza in questi ambienti, e questo non è imputabile al lavoro discontinuo dovuto al COVID-19 o al lavoro nero. In generale <strong>non c’è attenzione rilevante verso il lavoratore infortunato o malato</strong>. E uno dei problemi che attanaglia questo settore sono le <strong>retribuzioni basse</strong>; per questo è anche difficile reperire personale. Gli adeguamenti delle retribuzioni non sono corrispondenti all’aumento del costo della vita e i rinnovi contrattuali arrivano sempre tardi. Se questa situazione cambiasse, forse si risolverebbero anche altri problemi.”</p>



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<h2 id="h-silvio-moretti-fipe-gli-strumenti-contrattuali-per-le-imprese-sono-duttili-ma-mancano-i-voucher">Silvio Moretti, FIPE: “Gli strumenti contrattuali per le imprese sono duttili. Ma mancano i voucher”</h2>



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<p>Sento <strong>Silvio Moretti </strong>per ultimo, solo dopo aver ascoltato le parole e le proposte di Alfredo Zini e Paolo Miranda.</p>



<p>Silvio conferma che nel contratto nazionale esistono degli strumenti che possono agevolare i ristoratori in difficoltà, come la possibilità di assumere <strong>lavoratori in apprendistato</strong> nelle fasi stagionali, senza impegnarsi con una persona per tutto l’anno.</p>



<p>“Questa è una novità che ha solo il contratto dei pubblici esercizi e l’apprendistato può articolarsi in più stagioni. Certo questo non risolve l’imprevedibilità del lavoro nel nostro settore, ma aiuta durante i picchi di stagionalità. Un’altra strada per affrontare l’imprevedibilità che oggi è all’ordine del giorno è la formula di contratto ‘<strong>part time week end</strong>’, studiato già prima della pandemia per le esigenze del settore. Sono contratti anche da otto ore settimanali che possono essere concentrate nel fine settimana; possono essere stipulati con giovani studenti o con lavoratori che hanno delle forme di sostegno al reddito.”</p>



<p>“Poi c’è il <strong>lavoro extra</strong>, ovvero la possibilità di assumere lavoratori per un tempo non superiore a tre giorni. Questa soluzione è molto utile per chi fa convegnistica o fiere ed è uno strumento importante che ha una retribuzione con una paga base onnicomprensiva di 15 euro l’ora. Poi c’è il <strong>lavoro a chiamata</strong>, che non è disciplinato nel contratto ma che è diffusissimo nel nostro settore perché la legge lo consente.”</p>



<p>Visti così gli strumenti sembrano tanti e anche piuttosto flessibili: pare non manchi nulla. Ma in realtà non è così.</p>



<p>“Quello che manca – prosegue Moretti – sono i <strong>voucher</strong>, che rappresentavano uno strumento importante per la regolarizzazione di tanti lavoratori. In pratica consentivano all’imprenditore di avere il collaboratore immediatamente disponibile, e al lavoratore di accettare un compenso pagato con la contribuzione. I voucher sono stati eliminati dal nostro ordinamento, ma con essi si sono perse diverse opportunità. Di sicuro potevano essere un trampolino di ingresso per un lavoro più strutturato e rappresentavano una soluzione corretta per le aziende in difficoltà che non potevano permettersi di assumere. In sostanza <strong>consentivano l’emersione di lavoro irregolare</strong>. Certo, dovevano essere più tracciabili e bisognava dare dei limiti al loro utilizzo, ma erano uno strumento che, messo insieme a tutti gli altri nella cassetta degli attrezzi, era necessario.”</p>



<p>“Il problema è che la nostra attività è legata alla presenza del consumatore e <strong>servono più che altrove strumenti agili</strong>. La ristorazione è un settore che vive di momenti di punta, che non si possono programmare in partenza, e spesso bisogna organizzarsi la mattina per la sera.”</p>



<p>Purtroppo, anche la FIPE ha avuto segnalazioni di casi in cui datori di lavoro hanno dovuto <strong>rimandare a casa dipendenti che avevano contratto il COVID-19</strong>, e per le piccole imprese questa situazione non è affatto semplice da gestire. Molti ristoratori hanno dovuto assumere anche il ruolo di controllori, cosa che non gli competeva, ma lo hanno fatto lo stesso perché volevano evitare altre chiusure. E oggi devono fare i conti anche con il fatto che la pandemia ha portato a un ripensamento del tempo e dei ritmi vita-lavoro. In molti ora si domandano <strong>se valga la pena lavorare a ritmi così stressanti come quelli della ristorazione</strong>.</p>



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Ristorazione, se la sicurezza va fuori menu

<p>Com’è noto alle cronache, a inizio anni Duemila le <strong>indagini ambientali a Brescia</strong> sull’area dello <strong>stabilimento Caffaro</strong> e sulle immediate vicinanze hanno rivelato la presenza di pericolosi inquinanti con valori superiori fino a migliaia di volte rispetto ai limiti di legge. Tra questi i <strong>policlorobifenili</strong> (PCB), <strong>policlorobenzodiossine</strong> e <strong>dibenzofurani</strong> (PCDD/F), <strong>mercurio</strong> e <strong>arsenico</strong>.</p>
<p>L’inquinamento dell’attività produttiva della Caffaro ha contaminato non solo i terreni sottostanti lo stabilimento, ma si è diffuso attraverso lo <strong>scarico delle acque industriali nelle rogge</strong>, arrivando a colpire le aree limitrofe e compromettendo la salubrità della catena alimentare della zona. A questi fattori si è sommata una movimentazione inadeguata e non sicura dei <strong>rifiuti</strong> e dei <strong>suoli contaminati</strong>, che ha esteso l’inquinamento anche ad altre aree, come la discarica Vallosa di Passirano.</p>
<p>Una situazione gravissima, che ha portato a febbraio 2003 il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio a definire tramite decreto il perimetro dell’area Caffaro come Sito di Interesse Nazionale (SIN).<strong> Vent’anni dopo la situazione non è ancora stata risolta</strong>, ed è notizia di pochi giorni fa la scoperta di <strong>ottanta nuove sostanze inquinanti</strong> presenti nell’area.</p>
<p><strong>Come è stato possibile arrivare a tanto?</strong> Perché ancora una volta, in nome della difesa del posto di lavoro, è stata messa in secondo piano la tutela della salute dei dipendenti di un’azienda, dell’ambiente e della popolazione?</p>
<p>Ne abbiamo parlato con <strong>Marino Ruzzenenti</strong>, storico ed esperto dell’ambiente, che per primo denunciò il disastro chimico bresciano.</p>
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<h2 id="h-la-caffaro-e-lo-sporco-sotto-il-tappeto-un-disastro-negato-dalle-istituzioni">La Caffaro e lo sporco sotto il tappeto: un disastro negato dalle istituzioni</h2>
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<p>La Caffaro è stata l’unica azienda chimica italiana a produrre, su licenza Monsanto, i <strong>PCB</strong> per oltre quarant’anni, sino al 1984, quando ne venne riconosciuta la pericolosità per l’uomo e l’ambiente (il Giappone li aveva vietati già dal 1972).</p>
<p>“Per lungo tempo si è andati avanti <strong>cercando di negare o sottovalutare il caso</strong>”, spiega Ruzzenenti. “Riconoscerlo da parte delle istituzioni significava prendere coscienza delle proprie responsabilità. In nome del progresso e degli interessi nazionali è stata fatta una vera e propria <strong>guerra chimica contro lavoratori e cittadini</strong>. La colpa è delle aziende private, che tuttavia sono state coperte dagli organi di controllo e dallo Stato, che aveva necessità e interessi rispetto a questa produzione”.</p>
<p>Il riconoscimento della <strong>pericolosità del sito</strong> è arrivato dopo che nel 2001 <em>La Repubblica</em> ha lanciato l’allarme in prima pagina sulla contaminazione da PCB dell’area. Le istituzioni a quel punto sono state costrette a indagare, anche se l’intento iniziale era smentire l’allarme più che confermarlo.</p>
<p>“Anche dopo il riconoscimento del SIN da parte dello Stato, <strong>la stessa ASL di Brescia ha negato per anni</strong> che a causa dell’inquinamento Caffaro ci fossero conseguenze sulla salute, arrivando a dire che non sono riscontrabili correlazioni tra la presenza dei PCB nel sangue e l’insorgenza di specifiche malattie. Diversamente, come testimoniato anche dal rapporto Sentieri, c’è un legame provato tra PCB e malattie cardiocircolatorie, demenza senile, tumori interferenti endocrini. Brescia in Italia è il SIN con la più alta incidenza di questi tumori, in particolare alla prostata, alla tiroide e alla mammella. Va detto inoltre che gli studi, sia sui lavoratori che sulla popolazione dell’area contaminata, sono stati fatti in ritardo; sarebbe stato più utile farli prima per avere maggiori dati.”</p>
<p>Nonostante la mancata puntualità, le analisi dell’Azienda Sanitaria Locale hanno comunque confermato nel tempo gli effetti negativi della presenza dei PCB e delle altre sostanze sui soggetti colpiti; i caduti di questa guerra chimica. Tra questi il triste primato, per gli <strong>ex lavoratori della Caffaro</strong>, dei più elevati livelli ematici di PCB, oltre all’eccesso di morti per tutti i tumori.</p>
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<h2 id="h-o-lavoro-o-morte-l-aristocrazia-operaia-della-caffaro-ha-taciuto-per-anni">O lavoro o morte. L’aristocrazia operaia della Caffaro ha taciuto per anni</h2>
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<p>Nonostante si sapesse della pericolosità dell’inquinamento derivante dalle attività della Caffaro, per Ruzzenenti <strong>gli stessi lavoratori e il sindacato per anni hanno taciuto</strong> rispetto a questi temi, preferendo tutelare <strong>il lavoro prima della salute</strong>.</p>
<p>Un’esperienza e una tendenza diversa rispetto ad altre aziende della zona: “In passato (fine anni Settanta, primi Ottanta) si era sviluppato a Brescia, come poi in tutta la realtà nazionale, un impegno importante del sindacato sui temi della sicurezza sul lavoro e dell’inquinamento all’esterno delle aziende.” Secondo lo storico bresciano, il “<strong>modello operaio</strong>” <strong>di intervento sull’ambiente</strong> <strong>di lavoro</strong> aveva avuto dei risultati positivi: “Ad esempio ricordo vertenze importanti nel territorio rispetto alla riduzione delle emissioni fumi dell’industria metallurgica di seconda fusione. In queste imprese (la cui dimensione complessiva è paragonabile a quella dell’ILVA) ottennero dei risultati positivi. <strong>Gli operai mappavano i rischi in azienda</strong> e chiedevano interventi di <strong>prevenzione</strong>: non agire a danno subìto, ma fare di tutto perché il danno non si verifichi. Questo era il loro principio”.</p>
<p>Questo però non è successo all’interno della Caffaro: “<strong>I lavoratori di questa azienda si sentivano privilegiati nel panorama bresciano</strong>. Era l’unica azienda chimica della zona, in un contesto di aziende metallurgiche, di tessile per l’abbigliamento, o metalmeccaniche. La chimica era un settore d’avanguardia, e i suoi lavoratori erano considerati <strong>aristocrazia operaia</strong>, che percepiva uno stipendio più elevato rispetto agli altri settori”.</p>
<p>Per tutelare questa condizione di privilegio, quindi, sia da parte dei lavoratori che dei sindacati si sarebbero chiusi molti occhi, senza affrontare alla radice il problema della pericolosità di questa fabbrica.</p>
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<h2 id="h-in-attesa-di-una-svolta-ecologica-bonifiche-ferme-e-ancora-veleni">In attesa di una svolta ecologica, bonifiche ferme e ancora veleni</h2>
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<p>Sino ad oggi nella pratica si sono raggiunti <strong>pochissimi risultati per il SIN Caffaro</strong>, che si riducono ulteriormente se si considera che il progetto di bonifica e di messa in sicurezza fa riferimento solo al sito industriale, e <strong>non comprende i terreni esterni</strong> (giardini, parchi pubblici, orti privati, cortili delle scuole). Tenendo conto del complesso delle aree che per l’ARPA risultano gravemente inquinate (700 ettari), la bonifica fatta sino ad oggi arriva all’1%.</p>
<p>“Dopo vent’anni non solo il SIN Caffaro, ma anche gli altri 41 definiti dalla normativa sono piuttosto malmessi”, continua Ruzzenenti. “Quello che servirebbe è una vera svolta ecologica, che parta dalla presa di coscienza dei danni e degli impatti prodotti dall’industrializzazione del secolo scorso L’impressione è che invece in Italia questa volontà politica non ci sia ancora, nemmeno nel PNRR”.</p>
<p>Più passa il tempo più la situazione del SIN Caffaro sembra aggravarsi, come dimostra il ritrovamento degli <strong>ottanta nuovi inquinanti</strong> nei terreni contaminati. Sostanze la cui esistenza è dovuta presumibilmente a <strong>trasformazioni dei PCB</strong>, e che sono state identificate da una ricerca realizzata in collaborazione tra l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste di Regione Lombardia e i dipartimenti dell’Università degli Studi dell’Insubria e di Milano.</p>
<p>“Il ritrovamento di queste molecole”, precisa Ruzzenenti, “testimonia che le <strong>sostanze</strong> presenti in questo SIN non solo non sono biodegradabili, ma <strong>subiscono trasformazioni senza scomparire</strong>, e come già dimostrato si accumulano facilmente negli esseri viventi, con conseguenze sulla loro salute”. Una situazione di incertezza che richiederà necessariamente ulteriori approfondimenti per capire la gravità di queste trasformazioni.</p>
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<h2 id="h-nuova-condanna-per-la-caffaro-e-i-territori-sono-compromessi-per-sempre">Nuova condanna per la Caffaro. E i territori sono compromessi per sempre</h2>
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<p>Come se l’eredità della vecchia Caffaro Chimica non fosse sufficiente, nei mesi scorsi la magistratura ha contestato anche alla <strong>Caffaro Brescia</strong>, subentrata nel 2011, di <strong>aver aggravato l’inquinamento storico</strong> versando <strong>cromo esavalente </strong>nei terreni e nella falda, oltre a non aver garantito l’efficacia del filtraggio dell’acqua che viene scaricata nell’ambiente. La Caffaro Brescia era succeduta alla SNIA, nata nel 2004 insieme alla Sorin biomedicale, dopo lo smembramento della vecchia azienda. Una pluralità di soggetti nel tempo che crea complessità nella gestione di costi e responsabilità, che la magistratura sta quantificando e attribuendo in questi mesi, conquistando nonostante tutto dei piccoli passi avanti nella gestione della vicenda.</p>
<p>È divenuto chiaro tuttavia che non è più possibile continuare ad arrivare sempre e solo dopo a individuare i colpevoli e mettere delle pezze, ben sapendo che in questo SIN, così come negli altri, <strong>non sarà mai possibile tornare allo stato di salute originale dei territori inquinati</strong>.</p>
<p>Effetti duraturi e non reversibili: dovrebbero lasciare come monito ad aziende, istituzioni e cittadini che non si può più pensare di risolvere i problemi in un secondo momento, ma che l’unica via per la tutela della salute e della sicurezza è la <strong>prevenzione primaria nei processi produttivi</strong>.</p>
</p>
<p><em>In copertina: lo stabilimento Cafarro, foto by Bresciaoggi</em></p>
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Michela De Biasio

Nata a Pordenone, classe 1988, si è laureata con lode in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Padova e ha conseguito un Dottorato in Pianificazione territoriale e Politiche Pubbliche presso l’Università IUAV di Venezia. Durante gli studi e il lavoro di ricerca si è appassionata ai temi legati all’innovazione sociale, urbana e tecnologica, che ha sposato con l’amore per la scrittura che coltiva da sempre. Da questa unione è nata una professione ibrida e in continua evoluzione, che la porta a lavorare sia come scrittrice freelance che come Communication Manager e Contents Creator per diverse realtà, fisiche e digitali. È inoltre autrice di racconti di narrativa pubblicati in alcune raccolte.

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Brescia, vent&#8217;anni dopo il caso della Caffaro scoperte altre ottanta sostanze inquinanti: il territorio non guarirà mai. L&#8217;esperto Marino Ruzzenenti: &#8220;L&#8217;aristocrazia operaia dell&#8217;azienda fu connivente&#8221;.

Caffaro, Brescia: inquinamento, nuove condanne, lavoratori complici - Informazione senza filtro

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<p><strong>Ciao Lazio, abbiamo i tuoi dati</strong>. Il messaggio arrivato a diversi computer della Regione la mattina del 1° agosto 2021 suona spiccio, quasi amichevole.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/hello-lazio.jpg"><img width="579" height="211" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/hello-lazio.jpg" alt="" class="wp-image-47769" /></a></figure></div>



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<p>Il malware RansomEXX dà del tu a un ente regionale, come se si rivolgesse a un utente privato. Per la confidenza posticcia del codice binario non c’è differenza; chiunque sia la vittima, i suoi dati vengono criptati e resi inaccessibili. Il patto è semplice come un’estorsione fisica: pagateci e ve li decriptiamo. Infatti all’interno del link sono contenute la richiesta di <strong>riscatto</strong> e le modalità di pagamento, come da prassi dei <strong>ransomware</strong>. Suona grottesca anche la raccomandazione a <em>mantenere l’incidente riservato</em>, alla luce di quanto è successo subito dopo, con la notizia alla ribalta nazionale fra mezze spiegazioni, dichiarazioni contrastanti, omissioni. L’apocalisse della comunicazione di crisi.</p>



<p>Nel frattempo diversi servizi online del <strong>costosissimo sistema informatico regionale</strong> finivano gambe all’aria. Fra tutti, le prenotazioni vaccinali in un periodo cruciale per le seconde dosi, l’accesso al Centro Elaborazione Dati (CED) e i servizi CUP e ReCUP, con il <strong>blocco</strong> o il <strong>rallentamento</strong> di un numero imprecisato di visite e somministrazioni anche urgenti.</p>



<p>Così l’hacking della Regione Lazio è diventato l’esempio dei <strong>danni derivati da una falla nella cyber sicurezza</strong>. E, per molti versi, anche la dimostrazione plastica di ciò che non andrebbe fatto nella prevenzione e nella gestione di un cyber attacco, con l’aggravante della perdita di un’ingente quantità di<strong> fondi pubblici</strong>.</p>



<p>Andiamo con ordine e capiamo che cosa è successo prima, durante e dopo l’attacco.</p>



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<h2 id="h-attacco-hacker-della-regione-lazio-anatomia-di-un-incidente">Attacco hacker della Regione Lazio, anatomia di un incidente</h2>



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<p>Nella notte tra <strong>il 31 luglio</strong> e il <strong>1° agosto</strong>, l’utenza privata di un dipendente in smart working di <strong>LAZIOCrea</strong> (la partecipata che gestisce i sistemi informatici della Regione) viene <strong>contagiata da un ransomware</strong>. Da lì, gli autori dell’attacco scalano le utenze fino al grado di amministratore. Una volta all’interno copiano, e poi cancellano o criptano, i dati e i loro backup.</p>



<p>Il <strong>2 agosto</strong> il governatore della Regione Lazio <strong>Nicola Zingaretti</strong>, con lo sguardo contrito di chi ha appena ricevuto la notizia peggiore dell’anno, <strong>annuncia</strong> <strong>l’attacco</strong> subìto. Nega tuttavia di aver ricevuto una richiesta di riscatto (che però c’era eccome). Ha inizio un carosello di dichiarazioni di tenore e attendibilità simili, e viene postulata la matrice terroristica dell’attacco. Che in realtà ha un movente banale come la sua applicazione: estorcere soldi a chi si espone, punto. LAZIOCrea, che non ha una vera e propria unità dedicata alla cyber sicurezza, chiama la società Leonardo a gestire la crisi e il recupero dei dati; l’assessore alla sanità laziale Alessio D’Amato si azzarda a dire che la sicurezza informatica era in mano a Leonardo da due anni; Leonardo, subodorando uno scaricabarile, precisa e smentisce.</p>



<p>Seguono diversi giorni di down dei servizi online regionali, fino a che l’<strong>11 agosto </strong>– dieci giorni dopo l’attacco – viene annunciata la ripartenza del servizio CUP e ReCUP per la maggior parte delle ASL e aziende ospedaliere coinvolte. Tutto risolto, quindi? Certo che no: al <strong>3 settembre </strong>13 servizi su 36 della Regione Lazio sono ancora fermi. Tuttora, a più di quattro mesi di distanza, sul sito della Regione non è difficile imbattersi in messaggi che annunciano disservizi e rallentamenti correlati al cyber attacco.</p>



<p>Fin qui, un disastro. <strong>Ma c’è di peggio</strong>.</p>



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<h2 id="h-cyber-sicurezza-quanto-mi-costi-e-con-quali-risultati">Cyber sicurezza, quanto mi costi (e con quali risultati)</h2>



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<p>Le aziende che investono nella cyber sicurezza sono provviste di un <strong><em>disaster recovery plan</em></strong>, ovvero un ramo del piano di continuità operativa finalizzato a rimettere in funzione siti, piattaforme e database dopo un eventuale attacco hacker. Il disaster recovery plan si incardina su due parametri fondamentali: il <em>recovery time objective </em>(RTO), che misura il tempo massimo di downtime previsto dopo un attacco, e il <em>recovery point objective</em> (RPO), che indica l’intervallo di tempo che intercorre tra un backup e l’altro (e quindi quanti dati si è disposti a perdere).</p>



<p>Nel rapporto <em>La spesa ICT nella PA italiana 2020 </em>dell’AgID (la governativa Agenzia per l’Italia Digitale), <strong>la Regione Lazio</strong> <strong>dichiara</strong> un <strong>RTO inferiore alle 24 ore</strong> e un <strong>RPO inferiore alle 4 ore</strong>. I servizi online invece sono tornati attivi dopo <strong>dieci giorni</strong>, e l’ultimo backup recuperabile risaliva al 30 luglio: <strong>più di un giorno</strong> prima dell’attacco. La Regione ha messo a verbale tempi di ripresa che suonano grotteschi se confrontati con ciò che è avvenuto. La domanda che viene da porsi è: ma quanto ha speso la Regione per un disaster recovery plan così fallato, e più in generale per la cyber sicurezza?</p>



<p>Nello stesso rapporto, il Lazio è indicato tra i <em>big spender</em> in diversi ambiti della gestione informatica nel triennio 2018-2020, dalla gestione delle <strong>piattaforme</strong> (<strong>49 milioni</strong>) ai <strong>dati</strong> (<strong>5 milioni</strong>) alla <strong>sicurezza</strong> (<strong>6,8 milioni</strong>). Soldi in buona parte sprecati, verrebbe da dire; soldi pubblici. Un sospetto corroborato da un tweet di poco successivo all’attacco, che mostra questa cattura:</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine_2021-12-17_133635.png"><img width="1024" height="462" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine_2021-12-17_133635-1024x462.png" alt="" class="wp-image-47770" /></a></figure></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p><strong>LA.it S.p.A.</strong>, la società committente, nel 2015 si sarebbe poi fusa con Lazio Service S.p.A., diventando l’attuale LAZIOCrea. Cambia il nome, ma non le abitudini di spesa: altri <strong>3,7 milioni di euro </strong>dal 2008 al 2011 per uno “studio di fattibilità” e la sua successiva integrazione. Altro denaro pubblico ben investito.</p>



<p>Per verificare se ci fosse altro, <em>SenzaFiltro </em>ha messo a disamina i <strong>piani operativi di LAZIOCrea</strong> relativi all’ultimo triennio. Ecco gli investimenti in sicurezza informatica del 2019:</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Laziocrea-disaster-recovery-fondi-regionali2019.png"><img width="1024" height="725" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Laziocrea-disaster-recovery-fondi-regionali2019-1024x725.png" alt="" class="wp-image-47771" /></a></figure></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/laziocrea-disaster-recovery-costi.png"><img width="1024" height="589" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/laziocrea-disaster-recovery-costi-1024x589.png" alt="" class="wp-image-47772" /></a></figure></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p><strong>895.992,67 euro</strong> di fondi regionali investiti in un disaster recovery plan nel 2019. Nel piano operativo del 2020 la voce di bilancio scompare del tutto, per poi tornare nel 2021:</p>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery_2021-11-30_201601_www.laziocrea.it_.png"><img width="1024" height="733" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery_2021-11-30_201601_www.laziocrea.it_-1024x733.png" alt="" class="wp-image-47773" /></a></figure></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery-costi_2021-11-30_201733_www.laziocrea.it_.png"><img width="1024" height="709" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery-costi_2021-11-30_201733_www.laziocrea.it_-1024x709.png" alt="" class="wp-image-47774" /></a></figure></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Ancora <strong>1.220.000 euro</strong>. Fondi pubblici, <em>ça va sans dire</em>.</p>



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<h2 id="h-lazio-quanto-pesano-i-cocci-del-cyber-attacco">Lazio, quanto pesano i cocci del cyber attacco?</h2>



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<p>Dopo aver ricostruito quanto è costato il sistema di cyber sicurezza che ha permesso uno sfacelo simile, resta da determinare <strong>a quanto ammontano i danni </strong>provocati dal blocco operativo del sistema informatico regionale.</p>



<p>Un conteggio esatto è impossibile per molteplici ragioni, prima fra tutte <strong>l’assenza di dati ufficiali</strong>, che la Regione non ha ancora diffuso. Inoltre, è difficile quantificare l’impatto economico del blocco delle prenotazioni vaccinali, delle visite specialistiche e dell’accesso al CED; a livello umano e sociale è stato un colpo ferale, che ha rischiato di compromettere una parte della campagna vaccinale e che ha impedito a un gran numero di cittadini di accedere a servizi e prestazioni di cui avevano bisogno, pagati con le loro tasse.</p>



<p>È possibile però farsi un’idea esaustiva dell’<strong>entità del sistema compromesso</strong> e del suo valore in termini assoluti. Molto interessante, a questo proposito, è la deliberazione n. 70/2021/GEST della sezione laziale della <strong>Corte dei conti</strong>, intitolata <em>La gestione dei servizi informatici nel sistema sanitario della Regione Lazio negli anni 2018 – 2019</em>. Ironia della sorte, il documento è stato pubblicato il 27 luglio 2021, quattro giorni prima dell’attacco, e si conclude con una bocciatura della gestione informatica regionale.</p>



<p>I magistrati contabili valutano i costi del sistema sanitario informatico laziale nel 2019 in <strong>più di 100 milioni di euro</strong>, con dei costi di gestione superiori ai <strong>33 milioni</strong> (e un contratto di servizio di 14.400.000 euro a LAZIOCrea, si noti bene). Ecco l’ammontare potenzialmente compromesso. In quanta parte, non è ancora chiaro.</p>



<p>Inoltre, gli ultimi rilevamenti del CLUSIT paragonano i costi dei cyber attacchi al 6% del PIL mondiale. Come se non bastasse, i diversi rapporti internazionali che ne quantificano i danni sono unanimi nell’indicare il <strong>settore della salute</strong> come quello dove ci sono conseguenze più gravi: nel dettaglio, la ricerca più recente di IBM Security (<em>Cost of a data breach report 2021</em>) quantifica le perdite del settore salute in <strong>9,23 dollari per dato</strong>. E nel caso del Lazio è stato compromesso l’intero database regionale.</p>



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<h2 id="h-il-disastro-gestionale-e-comunicativo-della-regione-ma-i-giornali-pensano-alle-sagre">Il disastro gestionale e comunicativo della Regione. Ma i giornali pensano alle sagre</h2>



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<p>A questo punto <strong>che la Regione Lazio non fosse protetta come avrebbe dovuto</strong>, nonostante le spese ingenti in cyber sicurezza, è più che un’ipotesi. Ad aggravare la situazione c’è la scarsa trasparenza con cui l’incidente è stato gestito, così come scarsa è stata la qualità della <strong>comunicazione</strong>, là dove i cittadini avrebbero avuto il diritto di rendersi conto di quanto stava avvenendo, e come. Queste opacità hanno avuto un prezzo: non è un caso se nei mesi successivi si sono moltiplicati i sospetti che il Lazio abbia pagato il riscatto per recuperare i dati perduti (il che significherebbe altri soldi pubblici buttati).</p>



<p>E <strong>l’informazione</strong>? Diverse testate, nazionali e locali, hanno fatto le pulci a LAZIOCrea sui <strong>3,5 milioni stanziati per le sagre</strong> e le feste di paese. Il sottotesto è che la società avrebbe dovuto investirli nella sicurezza informatica. Eppure bastava verificare sui documenti ufficiali per rendersi conto che la questione è ben altra: LAZIOCrea e la Regione Lazio hanno speso fin troppi denari su una sicurezza che non ha dato risultati, e si trattava di fondi regionali, fino all’ultimo centesimo. È su quello che andrebbero poste le domande, su investimenti a sette zeri fatti con soldi pubblici che non hanno dato frutto.</p>



<p>Qualcuno potrebbe dire che il problema è proprio l’opposto: forse quei soldi era meglio spenderli in sagre. Almeno quelle non possono hackerarle.</p>



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<p><em>Photo credits: lagone.it</em></p>


2021 d.C.: il sacco di Roma lo fanno gli hacker

<p>La pandemia ha complicato la vita ai <strong>ristoratori</strong> e ai <strong>pubblici esercizi</strong> e non solo a causa delle chiusure e delle limitazioni. Un dato su tutti: nel 2020 il settore ha <strong>perso 243.000 posti di lavoro</strong>, di cui 116.000 a tempo indeterminato. Il lockdown e le restrizioni hanno indotto molto personale (anche a tempo indeterminato) a rivolgersi verso altri settori “più sicuri”, come la grande distribuzione e la logistica. Questa migrazione ha comportato una dispersione di competenze difficile da recuperare, un problema con cui le imprese della ristorazione si confrontano quotidianamente.</p>
<p>Però c’è anche l’altro lato della medaglia, forse ancora più inquietante. Infatti c’è anche chi, pur di non perdere il contratto a chiamata o il compenso per una giornata in nero, è <strong>andato a lavorare pur sapendo di essere positivo al COVID-19</strong>. È una questione di responsabilità personale, certo – anzi, di mancata responsabilità personale. Ma oggi quali sono gli <strong>strumenti</strong> per lavoratori e imprese <strong>per garantire la sicurezza sul lavoro</strong> sia nei confronti dei dipendenti che dei clienti? Che cosa è cambiato con la pandemia?</p>
<p>Il <strong>contratto nazionale dei pubblici esercizi </strong>scade proprio a fine mese, e abbiamo chiamato in causa diverse voci per capire che cosa gli manca e come dovrebbe essere rinnovato.</p>
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<h2 id="h-alfredo-zini-confcommercio-il-problema-piu-grave-e-la-mancanza-di-formazione-semplice-e-continua">Alfredo Zini, Confcommercio: “Il problema più grave è la mancanza di formazione semplice e continua”</h2>
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<p>“La preoccupazione è risalita e <strong>si lavora male</strong>, non si riesce a programmare nulla”. Sono le prime parole che <strong>Alfredo Zini</strong> si sente di dirmi. L’incertezza pesa sul settore da troppo tempo e negli imprenditori c’è tanta volontà di proseguire, ma anche la rabbia di chi non trova gli strumenti per poter andare avanti. In primis per questione di <strong>protocolli</strong>.</p>
<p>“Nella ristorazione applicare le normative per la <strong>sicurezza sul lavoro</strong> e la sicurezza alimentare crea spesso grandi difficoltà ai piccoli imprenditori, perché <strong>i protocolli sono di difficile applicazione</strong>. Per gli imprenditori-lavoratori non è semplice andare incontro a procedure standardizzate e garantire la sicurezza sul lavoro e la sicurezza alimentare nei confronti del cliente. In pratica le sanzioni per punirlo se non rispetta le regole ci sono tutte, ma spesso non gli vengono dati gli strumenti per mettersi in regola. Il problema è che i protocolli vengono pensati in maniera allargata e standardizzata e <strong>la grande industria del food non ha problemi a rispettarli</strong>, ma per il <strong>piccolo imprenditore</strong> in difficoltà non c’è <strong>nessun margine di flessibilità</strong>”.</p>
<p>E questo è un primo punto, ma non l’unico. Secondo Zini la questione della <strong>formazione</strong> è ancora più dolente, soprattutto se collegata alla ricerca del personale.</p>
<p>“Per garantire la sicurezza di tutti, la formazione dovrebbe essere immediata e semplice. Da parte del piccolo imprenditore c’è poca preparazione da questo punto di vista, perché spesso non ha tempo, soprattutto se gli viene dato un carico di controllo che spesso non coincide con i tempi di una piccola impresa famigliare. In pratica dovrebbe esserci una formazione semplice e continua, e collegata a una <strong>banca dati</strong> che dovrebbe permettere all’imprenditore di <strong>assumere in tempo reale</strong>, <strong>anche la mattina per la sera</strong>, potendo però verificare le competenze del collaboratore. Invece questo oggi non è possibile e il rischio è di essere costretti a prendere <strong>personale in nero</strong>, perché ne hai bisogno la sera stessa, senza la possibilità di controllare se il lavoratore è formato e in grado di gestire i processi di sicurezza. E questo ti può mettere in difficoltà sia nei confronti del lavoratore, perché se non sa usare il coltello è un problema e rischia di farsi male, sia nei confronti del cliente, perché se la persona non sa che non si può usare lo stesso tagliere per la carne e per il pesce, il cliente va incontro a intossicazioni, infezioni e problemi.”</p>
<p>“Al tempo stesso ci sono <strong>persone che sono andate a lavorare malate</strong>, anche in pandemia pur di non perdere il lavoro, e questo perché non sempre ci sono stati i giusti <strong>controlli</strong>. Questo oggi è un tema molto forte, ma il problema c’era anche prima, quando un collaboratore poteva avere un’infezione in corso, un’intossicazione alimentare o un virus intestinale. Tutte situazioni in cui non puoi pensare di toccare degli alimenti, però <strong>l’imprenditore non ha nessuno strumento per controllare questa situazione</strong>.”</p>
<p>“L’imprevedibilità è all’ordine del giorno, e se si ammala un dipendente all’imprenditore serve uno strumento che fa una radiografia immediata del lavoratore, <strong>una lista dove ci può essere uno scambio bilaterale</strong>. Magari non troverò sempre il cameriere alto, bello e biondo, ma saprò che lì dentro ci sono persone formate che sanno fare il mestiere. Le agenzie interinali fanno già questa operazione, ma non nei tempi che servono alla ristorazione. Il mondo è cambiato, e le nuove esigenze a livello contrattuale vanno valutate e inserite nel momento di rinnovo, perché così penalizziamo qualsiasi azienda e qualsiasi lavoratore. <strong>Così non c’è ripartenza</strong>”.</p>
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<h2 id="h-paolo-miranda-ex-fisascat-milano-nella-ristorazione-retribuzioni-basse-e-scarsa-cultura-della-sicurezza">Paolo Miranda, ex FISASCAT Milano: “Nella ristorazione retribuzioni basse e scarsa cultura della sicurezza”</h2>
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<p>“Purtroppo <strong>il tasso di infortuni nella ristorazione è altissimo</strong>, anzi è il più elevato in assoluto, <strong>superiore a quello dell’edilizia</strong>”.</p>
<p><strong>Paolo Miranda</strong> ha lavorato all’ente bilaterale dei pubblici esercizi di Milano e tra i compiti aveva anche la gestione della salute e della sicurezza, e quando hanno fatto una ricerca sul settore ha mostrato dati allarmanti.</p>
<p>“<strong>Sono infortuni lievi, quasi mai gravi, ma sono tantissimi</strong> e sono solo quelli denunciati. <strong>Poi c’è tutto il sommerso</strong>. E anche chi lavora in regola non sempre denuncia l’infortunio. Il tasso è altissimo nella ristorazione collettiva, nelle mense e nelle grosse catene, più basso nei piccoli ristoranti. La ragione è che nella grande impresa tutto viene denunciato e registrato, mentre se lavoro in un piccolo ristorante di solito se mi taglio un dito mi aggiusto in qualche modo e l’infortunio non viene registrato.”</p>
<p>“Gli infortuni poi sono molto <strong>simili</strong> a quelli che capitano in <strong>ambiente domestico</strong>, ci si taglia, ci si scotta, si scivola. Manca la cultura della sicurezza in questi ambienti, e questo non è imputabile al lavoro discontinuo dovuto al COVID-19 o al lavoro nero. In generale <strong>non c’è attenzione rilevante verso il lavoratore infortunato o malato</strong>. E uno dei problemi che attanaglia questo settore sono le <strong>retribuzioni basse</strong>; per questo è anche difficile reperire personale. Gli adeguamenti delle retribuzioni non sono corrispondenti all’aumento del costo della vita e i rinnovi contrattuali arrivano sempre tardi. Se questa situazione cambiasse, forse si risolverebbero anche altri problemi.”</p>
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<h2 id="h-silvio-moretti-fipe-gli-strumenti-contrattuali-per-le-imprese-sono-duttili-ma-mancano-i-voucher">Silvio Moretti, FIPE: “Gli strumenti contrattuali per le imprese sono duttili. Ma mancano i voucher”</h2>
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<p>Sento <strong>Silvio Moretti </strong>per ultimo, solo dopo aver ascoltato le parole e le proposte di Alfredo Zini e Paolo Miranda.</p>
<p>Silvio conferma che nel contratto nazionale esistono degli strumenti che possono agevolare i ristoratori in difficoltà, come la possibilità di assumere <strong>lavoratori in apprendistato</strong> nelle fasi stagionali, senza impegnarsi con una persona per tutto l’anno.</p>
<p>“Questa è una novità che ha solo il contratto dei pubblici esercizi e l’apprendistato può articolarsi in più stagioni. Certo questo non risolve l’imprevedibilità del lavoro nel nostro settore, ma aiuta durante i picchi di stagionalità. Un’altra strada per affrontare l’imprevedibilità che oggi è all’ordine del giorno è la formula di contratto ‘<strong>part time week end</strong>’, studiato già prima della pandemia per le esigenze del settore. Sono contratti anche da otto ore settimanali che possono essere concentrate nel fine settimana; possono essere stipulati con giovani studenti o con lavoratori che hanno delle forme di sostegno al reddito.”</p>
<p>“Poi c’è il <strong>lavoro extra</strong>, ovvero la possibilità di assumere lavoratori per un tempo non superiore a tre giorni. Questa soluzione è molto utile per chi fa convegnistica o fiere ed è uno strumento importante che ha una retribuzione con una paga base onnicomprensiva di 15 euro l’ora. Poi c’è il <strong>lavoro a chiamata</strong>, che non è disciplinato nel contratto ma che è diffusissimo nel nostro settore perché la legge lo consente.”</p>
<p>Visti così gli strumenti sembrano tanti e anche piuttosto flessibili: pare non manchi nulla. Ma in realtà non è così.</p>
<p>“Quello che manca – prosegue Moretti – sono i <strong>voucher</strong>, che rappresentavano uno strumento importante per la regolarizzazione di tanti lavoratori. In pratica consentivano all’imprenditore di avere il collaboratore immediatamente disponibile, e al lavoratore di accettare un compenso pagato con la contribuzione. I voucher sono stati eliminati dal nostro ordinamento, ma con essi si sono perse diverse opportunità. Di sicuro potevano essere un trampolino di ingresso per un lavoro più strutturato e rappresentavano una soluzione corretta per le aziende in difficoltà che non potevano permettersi di assumere. In sostanza <strong>consentivano l’emersione di lavoro irregolare</strong>. Certo, dovevano essere più tracciabili e bisognava dare dei limiti al loro utilizzo, ma erano uno strumento che, messo insieme a tutti gli altri nella cassetta degli attrezzi, era necessario.”</p>
<p>“Il problema è che la nostra attività è legata alla presenza del consumatore e <strong>servono più che altrove strumenti agili</strong>. La ristorazione è un settore che vive di momenti di punta, che non si possono programmare in partenza, e spesso bisogna organizzarsi la mattina per la sera.”</p>
<p>Purtroppo, anche la FIPE ha avuto segnalazioni di casi in cui datori di lavoro hanno dovuto <strong>rimandare a casa dipendenti che avevano contratto il COVID-19</strong>, e per le piccole imprese questa situazione non è affatto semplice da gestire. Molti ristoratori hanno dovuto assumere anche il ruolo di controllori, cosa che non gli competeva, ma lo hanno fatto lo stesso perché volevano evitare altre chiusure. E oggi devono fare i conti anche con il fatto che la pandemia ha portato a un ripensamento del tempo e dei ritmi vita-lavoro. In molti ora si domandano <strong>se valga la pena lavorare a ritmi così stressanti come quelli della ristorazione</strong>.</p>
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Mariani

Lara Mariani

Giornalista per indole, fotografa per passione, ama vedere la realtà da alternativi punti di vista e non crede nei confini netti, né geografici né sociali. Dopo la laurea in Scienze Politiche e un master in comunicazione ha lavorato 10 anni per una casa editrice bolognese. Oggi, oltre a essere responsabile di redazione di SenzaFiltro collabora con l’ufficio comunicazione del Cefa, una ong che aiuta le comunità più povere del mondo a raggiungere l’autosufficienza alimentare. Inoltre, collabora con TerzoTropico e Tempo e Diaframma, associazioni culturali che realizzano reportage, mostre e volumi fotografici. È autrice del volume “I portici di Bologna, patrimonio di cultura e identità”, Minerva edizioni. &nbsp; E-mail: lara.m@fiordirisorse.eu

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I ristoratori devono far fronte all&#8217;isteria di una ripresa in cui i protocolli cambiano di continuo. Come garantire la sicurezza di dipendenti e clienti? L&#8217;abbiamo chiesto agli esperti del settore Alfredo Zini (Confcommercio), Paolo Miranda (ex FISASCAT) e Silvio Moretti (FIPE).

Ristorazione, se la sicurezza va fuori menu - Informazione senza filtro

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<p>I colori del mondo per <strong>Mirco Loretoni</strong> si sono spenti il 26 aprile 2012. Aveva solo 26 anni ed era operaio del piccolo Comune di Castelsantangelo sul Nera (Macerata) quando è stato vittima di <strong>un incidente sul lavoro che gli ha fatto perdere la vista</strong>. Licenziato dal Comune in cui lavorava, oggi è uno dei primi “<strong>testimonial formatori della sicurezza</strong>” riconosciuto dalla Regione Marche tra i quindici che hanno concluso il percorso di formazione di <strong>ANMIL</strong>. Ora Mirco sta ultimando un altro corso e potrà diventare anche RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione), lavorando come consulente e facendo formazione per enti, aziende, scuole.</p>



<p>Presto queste figure saranno <strong>duecento a livello nazionale</strong>. Per l’Italia sono una <strong>novità assoluta</strong>. Il testimonial formatore per la sicurezza-RSPP rimette al centro della prevenzione contro le morti e le malattie professionali sul lavoro coloro che in passato hanno subito incidenti e sono stati formati appositamente con corsi tenuti dall’ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro) tramite l&#8217;ente di formazione IRFA, finanziati dallo Stato sia per cambiare la cultura della prevenzione in aziende private ed enti pubblici, sia per dare una nuova opportunità di lavoro a chi l’ha persa a causa di gravi infortuni o malattie professionali invalidanti.</p>



<p>Spiega Mirco Loretoni: “La nostra figura non è il classico formatore della sicurezza, noi siamo testimonial-formatori. Ad oggi questo ruolo è <strong>riconosciuto solo nella Regione Marche</strong>, ma si spera di svilupparlo anche in Italia e nel resto d’Europa. È la prima volta che si fa, in Italia: si tratta di un <strong>corso di 108 ore</strong> e tratta diverse materie; non solo la materia della sicurezza sul lavoro, ma anche la psicologia, perché si deve raccontare e rievocare l’incidente, mettersi a nudo di fronte ad altre persone e tirare fuori ciò che da anni si è messo da parte. Si deve dunque fare un lavoro psicologico per migliorare e tirare fuori la propria testimonianza”.</p>



<p>“All’inizio per qualcuno – è successo anche a me – parlare dell’incidente è davvero difficile, quindi dalla psicologia viene un aiuto per riuscirci. Noi vorremmo andare nelle <strong>scuole</strong> per fare in modo che un alunno esca dal quinto superiore con la formazione base per andare a lavorare il giorno dopo, trovando la formula con gli istituti e gli enti preposti a <strong>inserire la materia della sicurezza</strong>.”</p>



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<h2 id="h-gli-invalidi-sul-lavoro-diventano-testimonial-formatori">Gli invalidi sul lavoro diventano testimonial formatori</h2>



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<p>Il valore aggiunto di questo approccio è il fatto che il testimonial racconta la sua esperienza personale, spiega il giovane formatore: “Questo corso è nato con l’intenzione di <strong>portare la testimonianza della persona invalida sul lavoro</strong>, come nel mio caso, a tante altre persone: chi sta in azienda, nelle scuole, negli enti pubblici, in modo da capire proprio che rispettare le normative, usare i presidi di protezione individuale, avere attenzione per un macchinario e per un tipo di lavorazione, magari può aiutare a evitare un infortunio sul lavoro”.</p>



<p>“La Regione Marche insieme all’ANMIL ha sposato questa iniziativa formando quindici persone, inserendo la parte formativa della sicurezza relativa al <strong>decreto 81 del 2008</strong>, aggiungendo la <strong>testimonianza vera e propria dell’incidente subito</strong>. Oltre ai soliti corsi dove si parla di normativa e basta, in cui la gente perde attenzione, qui ascoltano una testimonianza vera. Io ho perso la vista, altri colleghi hanno riportato danni in altre parti del corpo, quindi fa la differenza. È difficile che le persone non siano prese dal racconto di come è accaduto l’incidente: una volta che usciranno da quella stanza, una volta terminata la lezione, il giorno dopo, quando andranno a fare qualsiasi lavoro, un minimo di attenzione in più ce la metteranno. Non devono aver paura; se c’è un macchinario o una situazione di lavoro dove c’è il rischio che qualcuno si possa far male, <strong>devono segnalarlo</strong>”.</p>



<p><strong>L’attuale formazione sulla sicurezza</strong> praticata nelle aziende <strong>va rivista</strong>, secondo Mirco Loretoni: “Si pensa a lavorare, a svolgere le ore di formazione obbligatorie, è una linea generica. Poi ogni lavorazione presenta un rischio che va da basso a medio alto; lì andranno applicate altre ore specifiche in base al rischio dell’azienda, ente pubblico, industria, o ufficio. Anche in un semplice ufficio c’è il rischio di malattie professionali, come per la postura. Sono tante le cose di cui tenere in conto”.</p>



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<h2 id="h-sergio-mustica-irfa-la-formazione-sulla-sicurezza-non-funziona-ecco-come-l-abbiamo-ripensata">Sergio Mustica, IRFA: “La formazione sulla sicurezza non funziona. Ecco come l’abbiamo ripensata”</h2>



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<p>A tracciare un bilancio di come sta andando è <strong>Sergio Mustica</strong>, presidente dell’IRFA: “È un progetto che sta andando molto bene, abbiamo in formazione altri settanta testimonial. Abbiamo iniziato nelle Marche con quindici persone, l’anno prossimo arriveremo a duecento a livello nazionale. Sul tema della sicurezza collaboreremo molto con le scuole, perché la sicurezza è vista come un tema burocratico non reale; gli istituti professionali fanno corsi di otto e dodici ore di slide e <strong>gli alunni non sviluppano nessun sapere</strong>, se non il formalismo di aver passato otto ore inutili”.</p>



<p>“Abbiamo introdotto un&#8217;azione differente per sviluppare una prospettiva: il saper essere della sicurezza non solo informativa, e su ciò abbiamo costruito <strong>percorsi didattici per le scuole</strong>, per materie curricolari, al fine di trovare connessioni dell&#8217;idea stessa di prevenzione nelle singole materie. Fattore chiave di questo progetto è la <strong>testimonianza</strong> di chi si è trovato vittima di un incidente oppure di una malattia professionale sul lavoro. La testimonianza specifica attua un aspetto di <strong>coinvolgimento emotivo del discente</strong>, attiva un interesse che i ragazzi inizialmente non hanno, e si riesce a farli riflettere e a entrare in una logica di approfondimento del tema”.</p>



<p>Il problema di fondo, secondo Mustica è che il tema della sicurezza è centrale nella vita degli esseri umani e che spesso non c’è una <strong>corretta percezione dei fenomeni</strong>: “È nella natura dell&#8217;essere umano compiere analisi del pericolo e dei rischi, è una cosa molto naturale che la burocrazia reso indigeribile. Al corso di testimonial formatori della sicurezza, si è aggiunto quello ulteriore che <strong>rende gli infortunati sul lavoro consulenti operativi</strong> che hanno una nuova opportunità professionale per portare la cultura della sicurezza ad attività pubbliche e privati. Si aggiunge la <strong>qualificazione del testimone</strong>, per docenti di formazione sulla sicurezza con la caratteristica di avere alle spalle un incidente sul lavoro o una malattia professionale, per utilizzare la loro esperienza di vita come rafforzamento della formazione obbligatoria sulla sicurezza”.</p>



<p>“Non serve svolgere formazione in cui non si apprende nulla e firmare un foglio, ma si devono <strong>connettere formazione e apprendimento</strong>. Un dato completamente sottovalutato – rileva Mustica – sono gli <strong>incidenti domestici</strong>. Ci sono in Italia <strong>22 morti al giorno</strong>, con 12.000 infortuni ogni anno dentro casa. Non c&#8217;è una percezione dei rischi. La casa, ritenuta il luogo più sicuro, è invece pericolosissima. Quando facciamo formazione si compie un’azione verso la <strong>cultura delle sicurezze</strong> intese al plurale; i comportamenti messi in atto sono gli stessi, è il luogo che cambia.”</p>



<p>“Dobbiamo cercare di <strong>far uscire dal politicamente corretto il tema della sicurezza sul lavoro</strong>. C’è una cecità della società dei media, che cercano solo certe condizioni per parlare e creare interesse. Quello che stiamo facendo è creare posti di lavoro trovando<strong> utilità nella disabilità</strong>. Per i formatori siamo gli unici a cercare di fare una cosa diversa uscendo dal politicamente corretto. Si fa formazione con slide di 12 ore, con persone che non sanno nulla di didattica. La sicurezza non è una materia, ma è trasversale. La nostra società è nata sulla sicurezza, la gente crede che per togliersi dalle responsabilità basta delegare il problema. La sicurezza è <strong>un valore sociale collettivo connesso all&#8217; educazione civica</strong>”.</p>



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<h2 id="h-il-progetto-di-anmil-e-marche-formatori-sulla-sicurezza-disabili-finanziati-dallo-stato"><strong>Il progetto di ANMIL e Marche: formatori sulla sicurezza disabili finanziati dallo Stato</strong></h2>



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<p><strong>Regione Marche</strong> e <strong>ANMIL</strong> per attuare il percorso formativo dei testimonial per la sicurezza hanno firmato un <strong>protocollo d’intesa</strong> nel 2019, finanziato dall’ente regionale con 50.000 euro. A seguire per l’ANMIL il progetto è il consigliere nazionale <strong>Giuseppe Diamanti</strong>: “La scuola della testimonianza sta dando ottimi risultati. Abbiamo iniziato ad andare nelle scuole con tre ore di formazione per le classi quarte e quinte degli istituti superiori con un risultato eccezionale: i ragazzi spengono il cellulare per ascoltare, questo è il feedback più bello che i giovani ci possono dare. Anche una multinazionale in Toscana ha chiesto il nostro intervento per svolgere formazione”.</p>



<p>“Non vogliamo spaventare, ma solo sensibilizzare i lavoratori. Il nostro obiettivo è far capire che <strong>quando ci si fa male cambia la vita</strong>, e la testimonianza della parte tecnica di un infortunio include il racconto di come è cambiata la vita dopo l&#8217;incidente. Chi viene dopo è solo l’ANMIL, tanti si dimenticano gli orfani e le famiglie. La formazione viene pagata dallo Stato, programmata all&#8217;inizio dell’anno, e siamo rimborsati per quanto abbiamo lavorato.”</p>



<p>“<strong>Stiamo cercando di far cambiare idea ai politici sulla prevenzione</strong>, che significa essenzialmente avvertire prima chi fa qualcosa riguardo i rischi a cui va incontro. Questo è il passaggio in cui crediamo. È ora di finirla: la formazione deve essere una cosa concreta, per aprire quella parte di cervello offuscata dall’esperienza. Infatti la maggior parte degli infortuni avviene tra i giovani o chi ha già tantissima esperienza, è difficile cambiare le abitudini che derivano dalla mancanza di formazione iniziale”.</p>



<p></p>



<p></p>



<p>In copertina: conferenza stampa in Regione Marche per la consegna di 15 attestati di “Testimonial Formatore della Sicurezza”. </p>



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Non tutti i mali vengono per nuocere: ANMIL e Regione Marche ripensano la sicurezza sul lavoro

<p><strong>Ciao Lazio, abbiamo i tuoi dati</strong>. Il messaggio arrivato a diversi computer della Regione la mattina del 1° agosto 2021 suona spiccio, quasi amichevole.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/hello-lazio.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="579" height="211" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/hello-lazio.jpg" alt="" class="wp-image-47769" /></a></figure>
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<p>Il malware RansomEXX dà del tu a un ente regionale, come se si rivolgesse a un utente privato. Per la confidenza posticcia del codice binario non c’è differenza; chiunque sia la vittima, i suoi dati vengono criptati e resi inaccessibili. Il patto è semplice come un’estorsione fisica: pagateci e ve li decriptiamo. Infatti all’interno del link sono contenute la richiesta di <strong>riscatto</strong> e le modalità di pagamento, come da prassi dei <strong>ransomware</strong>. Suona grottesca anche la raccomandazione a <em>mantenere l’incidente riservato</em>, alla luce di quanto è successo subito dopo, con la notizia alla ribalta nazionale fra mezze spiegazioni, dichiarazioni contrastanti, omissioni. L’apocalisse della comunicazione di crisi.</p>
<p>Nel frattempo diversi servizi online del <strong>costosissimo sistema informatico regionale</strong> finivano gambe all’aria. Fra tutti, le prenotazioni vaccinali in un periodo cruciale per le seconde dosi, l’accesso al Centro Elaborazione Dati (CED) e i servizi CUP e ReCUP, con il <strong>blocco</strong> o il <strong>rallentamento</strong> di un numero imprecisato di visite e somministrazioni anche urgenti.</p>
<p>Così l’hacking della Regione Lazio è diventato l’esempio dei <strong>danni derivati da una falla nella cyber sicurezza</strong>. E, per molti versi, anche la dimostrazione plastica di ciò che non andrebbe fatto nella prevenzione e nella gestione di un cyber attacco, con l’aggravante della perdita di un’ingente quantità di<strong> fondi pubblici</strong>.</p>
<p>Andiamo con ordine e capiamo che cosa è successo prima, durante e dopo l’attacco.</p>
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<h2 id="h-attacco-hacker-della-regione-lazio-anatomia-di-un-incidente">Attacco hacker della Regione Lazio, anatomia di un incidente</h2>
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<p>Nella notte tra <strong>il 31 luglio</strong> e il <strong>1° agosto</strong>, l’utenza privata di un dipendente in smart working di <strong>LAZIOCrea</strong> (la partecipata che gestisce i sistemi informatici della Regione) viene <strong>contagiata da un ransomware</strong>. Da lì, gli autori dell’attacco scalano le utenze fino al grado di amministratore. Una volta all’interno copiano, e poi cancellano o criptano, i dati e i loro backup.</p>
<p>Il <strong>2 agosto</strong> il governatore della Regione Lazio <strong>Nicola Zingaretti</strong>, con lo sguardo contrito di chi ha appena ricevuto la notizia peggiore dell’anno, <strong>annuncia</strong> <strong>l’attacco</strong> subìto. Nega tuttavia di aver ricevuto una richiesta di riscatto (che però c’era eccome). Ha inizio un carosello di dichiarazioni di tenore e attendibilità simili, e viene postulata la matrice terroristica dell’attacco. Che in realtà ha un movente banale come la sua applicazione: estorcere soldi a chi si espone, punto. LAZIOCrea, che non ha una vera e propria unità dedicata alla cyber sicurezza, chiama la società Leonardo a gestire la crisi e il recupero dei dati; l’assessore alla sanità laziale Alessio D’Amato si azzarda a dire che la sicurezza informatica era in mano a Leonardo da due anni; Leonardo, subodorando uno scaricabarile, precisa e smentisce.</p>
<p>Seguono diversi giorni di down dei servizi online regionali, fino a che l’<strong>11 agosto </strong>– dieci giorni dopo l’attacco – viene annunciata la ripartenza del servizio CUP e ReCUP per la maggior parte delle ASL e aziende ospedaliere coinvolte. Tutto risolto, quindi? Certo che no: al <strong>3 settembre </strong>13 servizi su 36 della Regione Lazio sono ancora fermi. Tuttora, a più di quattro mesi di distanza, sul sito della Regione non è difficile imbattersi in messaggi che annunciano disservizi e rallentamenti correlati al cyber attacco.</p>
<p>Fin qui, un disastro. <strong>Ma c’è di peggio</strong>.</p>
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<h2 id="h-cyber-sicurezza-quanto-mi-costi-e-con-quali-risultati">Cyber sicurezza, quanto mi costi (e con quali risultati)</h2>
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<p>Le aziende che investono nella cyber sicurezza sono provviste di un <strong><em>disaster recovery plan</em></strong>, ovvero un ramo del piano di continuità operativa finalizzato a rimettere in funzione siti, piattaforme e database dopo un eventuale attacco hacker. Il disaster recovery plan si incardina su due parametri fondamentali: il <em>recovery time objective </em>(RTO), che misura il tempo massimo di downtime previsto dopo un attacco, e il <em>recovery point objective</em> (RPO), che indica l’intervallo di tempo che intercorre tra un backup e l’altro (e quindi quanti dati si è disposti a perdere).</p>
<p>Nel rapporto <em>La spesa ICT nella PA italiana 2020 </em>dell’AgID (la governativa Agenzia per l’Italia Digitale), <strong>la Regione Lazio</strong> <strong>dichiara</strong> un <strong>RTO inferiore alle 24 ore</strong> e un <strong>RPO inferiore alle 4 ore</strong>. I servizi online invece sono tornati attivi dopo <strong>dieci giorni</strong>, e l’ultimo backup recuperabile risaliva al 30 luglio: <strong>più di un giorno</strong> prima dell’attacco. La Regione ha messo a verbale tempi di ripresa che suonano grotteschi se confrontati con ciò che è avvenuto. La domanda che viene da porsi è: ma quanto ha speso la Regione per un disaster recovery plan così fallato, e più in generale per la cyber sicurezza?</p>
<p>Nello stesso rapporto, il Lazio è indicato tra i <em>big spender</em> in diversi ambiti della gestione informatica nel triennio 2018-2020, dalla gestione delle <strong>piattaforme</strong> (<strong>49 milioni</strong>) ai <strong>dati</strong> (<strong>5 milioni</strong>) alla <strong>sicurezza</strong> (<strong>6,8 milioni</strong>). Soldi in buona parte sprecati, verrebbe da dire; soldi pubblici. Un sospetto corroborato da un tweet di poco successivo all’attacco, che mostra questa cattura:</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine_2021-12-17_133635.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="462" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine_2021-12-17_133635-1024x462.png" alt="" class="wp-image-47770" /></a></figure>
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<p><strong>LA.it S.p.A.</strong>, la società committente, nel 2015 si sarebbe poi fusa con Lazio Service S.p.A., diventando l’attuale LAZIOCrea. Cambia il nome, ma non le abitudini di spesa: altri <strong>3,7 milioni di euro </strong>dal 2008 al 2011 per uno “studio di fattibilità” e la sua successiva integrazione. Altro denaro pubblico ben investito.</p>
<p>Per verificare se ci fosse altro, <em>SenzaFiltro </em>ha messo a disamina i <strong>piani operativi di LAZIOCrea</strong> relativi all’ultimo triennio. Ecco gli investimenti in sicurezza informatica del 2019:</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Laziocrea-disaster-recovery-fondi-regionali2019.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="725" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Laziocrea-disaster-recovery-fondi-regionali2019-1024x725.png" alt="" class="wp-image-47771" /></a></figure>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/laziocrea-disaster-recovery-costi.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="589" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/laziocrea-disaster-recovery-costi-1024x589.png" alt="" class="wp-image-47772" /></a></figure>
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<p><strong>895.992,67 euro</strong> di fondi regionali investiti in un disaster recovery plan nel 2019. Nel piano operativo del 2020 la voce di bilancio scompare del tutto, per poi tornare nel 2021:</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery_2021-11-30_201601_www.laziocrea.it_.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="733" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery_2021-11-30_201601_www.laziocrea.it_-1024x733.png" alt="" class="wp-image-47773" /></a></figure>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery-costi_2021-11-30_201733_www.laziocrea.it_.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="709" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/disaster-recovery-costi_2021-11-30_201733_www.laziocrea.it_-1024x709.png" alt="" class="wp-image-47774" /></a></figure>
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<p>Ancora <strong>1.220.000 euro</strong>. Fondi pubblici, <em>ça va sans dire</em>.</p>
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<h2 id="h-lazio-quanto-pesano-i-cocci-del-cyber-attacco">Lazio, quanto pesano i cocci del cyber attacco?</h2>
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<p>Dopo aver ricostruito quanto è costato il sistema di cyber sicurezza che ha permesso uno sfacelo simile, resta da determinare <strong>a quanto ammontano i danni </strong>provocati dal blocco operativo del sistema informatico regionale.</p>
<p>Un conteggio esatto è impossibile per molteplici ragioni, prima fra tutte <strong>l’assenza di dati ufficiali</strong>, che la Regione non ha ancora diffuso. Inoltre, è difficile quantificare l’impatto economico del blocco delle prenotazioni vaccinali, delle visite specialistiche e dell’accesso al CED; a livello umano e sociale è stato un colpo ferale, che ha rischiato di compromettere una parte della campagna vaccinale e che ha impedito a un gran numero di cittadini di accedere a servizi e prestazioni di cui avevano bisogno, pagati con le loro tasse.</p>
<p>È possibile però farsi un’idea esaustiva dell’<strong>entità del sistema compromesso</strong> e del suo valore in termini assoluti. Molto interessante, a questo proposito, è la deliberazione n. 70/2021/GEST della sezione laziale della <strong>Corte dei conti</strong>, intitolata <em>La gestione dei servizi informatici nel sistema sanitario della Regione Lazio negli anni 2018 – 2019</em>. Ironia della sorte, il documento è stato pubblicato il 27 luglio 2021, quattro giorni prima dell’attacco, e si conclude con una bocciatura della gestione informatica regionale.</p>
<p>I magistrati contabili valutano i costi del sistema sanitario informatico laziale nel 2019 in <strong>più di 100 milioni di euro</strong>, con dei costi di gestione superiori ai <strong>33 milioni</strong> (e un contratto di servizio di 14.400.000 euro a LAZIOCrea, si noti bene). Ecco l’ammontare potenzialmente compromesso. In quanta parte, non è ancora chiaro.</p>
<p>Inoltre, gli ultimi rilevamenti del CLUSIT paragonano i costi dei cyber attacchi al 6% del PIL mondiale. Come se non bastasse, i diversi rapporti internazionali che ne quantificano i danni sono unanimi nell’indicare il <strong>settore della salute</strong> come quello dove ci sono conseguenze più gravi: nel dettaglio, la ricerca più recente di IBM Security (<em>Cost of a data breach report 2021</em>) quantifica le perdite del settore salute in <strong>9,23 dollari per dato</strong>. E nel caso del Lazio è stato compromesso l’intero database regionale.</p>
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<h2 id="h-il-disastro-gestionale-e-comunicativo-della-regione-ma-i-giornali-pensano-alle-sagre">Il disastro gestionale e comunicativo della Regione. Ma i giornali pensano alle sagre</h2>
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<p>A questo punto <strong>che la Regione Lazio non fosse protetta come avrebbe dovuto</strong>, nonostante le spese ingenti in cyber sicurezza, è più che un’ipotesi. Ad aggravare la situazione c’è la scarsa trasparenza con cui l’incidente è stato gestito, così come scarsa è stata la qualità della <strong>comunicazione</strong>, là dove i cittadini avrebbero avuto il diritto di rendersi conto di quanto stava avvenendo, e come. Queste opacità hanno avuto un prezzo: non è un caso se nei mesi successivi si sono moltiplicati i sospetti che il Lazio abbia pagato il riscatto per recuperare i dati perduti (il che significherebbe altri soldi pubblici buttati).</p>
<p>E <strong>l’informazione</strong>? Diverse testate, nazionali e locali, hanno fatto le pulci a LAZIOCrea sui <strong>3,5 milioni stanziati per le sagre</strong> e le feste di paese. Il sottotesto è che la società avrebbe dovuto investirli nella sicurezza informatica. Eppure bastava verificare sui documenti ufficiali per rendersi conto che la questione è ben altra: LAZIOCrea e la Regione Lazio hanno speso fin troppi denari su una sicurezza che non ha dato risultati, e si trattava di fondi regionali, fino all’ultimo centesimo. È su quello che andrebbero poste le domande, su investimenti a sette zeri fatti con soldi pubblici che non hanno dato frutto.</p>
<p>Qualcuno potrebbe dire che il problema è proprio l’opposto: forse quei soldi era meglio spenderli in sagre. Almeno quelle non possono hackerarle.</p>
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<p><em>Photo credits: lagone.it</em></p>


valente

Valente

Andrea Valente

Nasce in un secolo breve, cresce in quello corrente, ma appartiene a un altro secolo ancora. Pugliese, anche se avrebbe potuto rivendersi con origini più intricate. Studia lettere, parla tre lingue e ne capisce cinque, eventi da CV che punteggiano una vita dedicata alla lettura e alla scrittura – in quest’ordine. Le prime commissioni editoriali le svolge per i compagni di banco; riprende anni dopo occupandosi di correzione di manoscritti, valutazione di testi e scrittura digitale. A nove anni si appassiona alla poesia, a diciannove alla linguistica, a ventinove al vino. Diventa sommelier; su poeta e linguista sta ancora lavorando, e continuerà per molto tempo. Prevede che a trentanove anni si entusiasmerà per il giornalismo, per cui ha scelto di partire con qualche anno di anticipo. &nbsp; E-mail: andrea.v@fiordirisorse.eu

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La vicenda dell&#8217;attacco hacker alla Regione Lazio non è ancora finita. Analizziamo l&#8217;incidente e la situazione attuale, facendo i conti con le spese regionali in cyber sicurezza, i loro scarsissimi effetti, e il danno provocato ai fondi pubblici.

2021 d.C.: il sacco di Roma lo fanno gli hacker - Informazione senza filtro

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<p>Per concretizzare un’autentica <strong>sicurezza sul luogo di lavoro</strong> sono necessari diversi ingredienti, non da ultimo quello dell’<strong>inclusione</strong>, perché gli aggettivi “sicuro” e “parziale” non possono fare coppia.</p>



<p>Partiamo da questa premessa importante per parlare di <strong>lavoratori e lavoratrici con disabilità e formazione alla sicurezza</strong>. Un tema spesso snobbato, quando in realtà non mancano casi di un’assente o parziale inclusione sul fronte sicurezza. Il risultato? Una discriminazione che porta con sé rischi tangibili, e non da ultimi danni veri e propri: episodi di esclusione di lavoratori con disabilità dalle prove antiincendio, mancanza di una loro responsabilizzazione, inaccessibilità delle informazioni basilari, e molto altro.</p>



<p>Per tastare il polso della situazione a livello nazionale abbiamo interpellato due figure cardine che si confrontano da tempo con queste problematiche, mettendo al bando le edulcorazioni e guardando in faccia ciò che va migliorato.</p>



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<h2 id="h-anna-contardi-aipd-per-le-persone-con-disabilita-non-c-e-autonomia-senza-sicurezza">Anna Contardi, AIPD: “Per le persone con disabilità non c’è autonomia senza sicurezza”</h2>



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<p>Nel 2018 l’Associazione Italiana Persone Down (<strong>AIPD</strong>) ha denunciato il fatto che a livello europeo mancavano delle linee guida condivise relative al tema urgente della <strong>sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici con</strong> <strong>disabilità intellettiva</strong>, che rispetto a quella fisica deve scontrarsi con stereotipi ancora più ardui da contrastare. Abbiamo raggiunto telefonicamente la coordinatrice nazionale di AIPD <strong>Anna Contardi</strong> per confrontarci sulla questione.</p>



<p>“Proprio nel periodo in cui abbiamo fatto presente il problema un nostro gruppo di operatori ha fatto un viaggio in Inghilterra finalizzato a confrontarsi sulle metodologie e le strategie relative al tema sicurezza”, sottolinea. “Abbiamo inoltre appena avuto l’approvazione di un progetto europeo, di nome VALUES, che riguarda la realizzazione di un <strong>corso di formazione alla sicurezza sul lavoro</strong> con <strong>modalità di alta comprensibilità</strong> per persone con disabilità intellettiva”.</p>



<p>L’iniziativa partirà a febbraio 2022 e mira a tutelare il principio di eguaglianza, oltre che il diritto di <strong>inclusione alla formazione</strong>, come spiega Anna Contardi: “I contenuti sono gli stessi degli altri lavoratori, cambiano solo le modalità di veicolazione per consentirne l’apprendimento. Sarà inoltre realizzato online utilizzando più lingue”.</p>



<p>Sfatiamo così subito un pregiudizio ancora oggi diffuso, ossia che la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità intellettiva vada delegata ad altre persone, sfociando così nell’assistenzialismo. “Purtroppo si dimentica spesso che un bambino con disabilità diventerà un adulto non da custodire e proteggere, bensì più consapevole dei rischi. <strong>Ogni vero percorso di autonomia deve sempre includere il tema della sicurezza</strong>”.</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/stage-cucine-Quirinale-scaled.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/stage-cucine-Quirinale-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-47642" /></a><figcaption>Un ragazzo in stage nelle cucine del Quirinale. Photo@ArchivioAIDP</figcaption></figure>



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<h2 id="h-value-able-la-rete-che-colloca-i-lavoratori-con-disabilita">Value-able, la rete che colloca i lavoratori con disabilità</h2>



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<p>Da tempo AIPD è inoltre titolare del <strong>marchio europeo</strong> <strong>“Value-able”</strong>, sempre facente parte di un progetto che premia le aziende che concretizzano l’inserimento lavorativo di persone con disabilità intellettive. “Diamo alle strutture che fanno questi inserimenti un marchio d’oro o d’argento o di bronzo a seconda che attivino tirocini oppure assumano”, spiega Anna Contardi.</p>



<p>AIPD Italia rappresenta l’ente capofila di questo progetto, che supera i confini nazionali coinvolgendo altri paesi come Turchia, Ungheria, Portogallo, Spagna, Croazia e Germania. E anche in questo caso l’inclusione è legata a filo doppio alla sicurezza: “Abbiamo portato avanti un lavoro per promuovere l’inserimento lavorativo di ragazzi e adulti con sindrome di Down nell’ambito della ristorazione e dell’accoglienza, coinvolgendo la <strong>formazione HACCP</strong> sempre in linguaggio ad alta comprensibilità”.</p>



<p>Secondo i dati aggiornati a settembre 2019, la rete “Value-able” ha incluso lavorativamente circa quattrocento persone con disabilità intellettiva in alberghi, ristoranti, B&amp;B, bar e fast food, come tirocinanti o come lavoratori. Contardi evidenzia: “La formazione portata avanti da AIPD coinvolge anche i <strong>colleghi che non presentano disabilità e</strong> <strong>i/le manager</strong>”.</p>



<p>Ma qual è la situazione dell’Italia rispetto al resto dell’Europa dal punto di vista della <strong>formazione inclusiva sulla sicurezza</strong>? “Non ho dati certi sulla formazione, quanto piuttosto sull’inclusione lavorativa da cui deriva il resto”, specifica la coordinatrice di AIPD. “Focalizzandomi sul segmento che seguo, posso dire che <strong>in Italia circa il 13,5% di adulti con sindrome Down lavora</strong>. Questi dati negli altri Paesi sono più bassi: in Spagna, tra i Paesi più virtuosi, si arriva al 7%, in Germania all’8% ma c’è una prevalenza di lavoro protetto”.</p>



<p>“L’<strong>inclusione scolastica </strong>porta con sé un processo di inclusione lavorativa, parte tutto da qui. Negli ultimi due mesi stanno aumentando le aziende che cercano noi di AIPD per fare inserimenti lavorativi, invertendo la tendenza: prima eravamo noi a contattare loro, adesso è il contrario. Stiamo siglando numerosi accordi”.</p>



<p>Da che cosa dipende questo cambiamento? “L’immaginario relativo alla persona con sindrome di Down al lavoro si sta modificando. In particolare dal 2014 abbiamo fatto un lavoro intenso sulla qualità degli inserimenti che ha incluso anche la <strong>sicurezza</strong>, e gli effetti si vedono”.</p>



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<h2 id="h-rodolfo-dalla-mora-s-i-di-ma-nelle-aziende-manca-cultura-della-disabilita-specie-di-tipo-cognitivo">Rodolfo Dalla Mora, S.I.Di.Ma.: “Nelle aziende manca cultura della disabilità, specie di tipo cognitivo”</h2>



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<p>“<strong>Fare sicurezza significa fare inclusione</strong>”.</p>



<p>Esordisce così rispetto al nostro tema <strong>Rodolfo Dalla Mora</strong>, presidente oltre che fondatore della Società Italiana Disability Manager (S.I.Di.Ma.). Costituita nel 2011, l’associazione si pone l’obiettivo di creare un confronto costante e allargato tra le figure dei e delle <strong>disability manager</strong> del territorio italiano, così da tutelare e promuovere i diritti delle persone con disabilità, incluso l’ambito lavorativo e la problematica dell’<strong>esclusione dalla sicurezza</strong>.</p>



<p>Rodolfo Dalla Mora è lui stesso un disability manager oltre che architetto, e da anni tiene le redini di un osservatorio dedicato a vari livelli del mondo aziendale. S.I.Di.Ma. da anni organizza incontri divulgativi e formativi su diverse tematiche relative l’inclusione: “Stiamo proprio preparando dei corsi monotematici e il tema della sicurezza è compreso in essi perché implica la <strong>prevenzione</strong>”, spiega Dalla Mora.</p>



<p>Anche in questo caso chiediamo quale sia la situazione sul fronte inclusione-sicurezza. “Siamo molto indietro innanzitutto perché <strong>la persona con disabilità </strong>che lavora in un’azienda o in un ente viene spesso vista come un <strong>problema che va risolto da altri</strong>”, chiosa. “Ad esempio le persone con disabilità non vengono praticamente mai coinvolte nei cosiddetti tavoli di incontro con i coordinatori delle singole aree preposte per risolvere le criticità e aggiornare i criteri relativi alla sicurezza. Questa è una forte lacuna”.</p>



<p>Mancanze che richiedono soluzioni concrete di recupero: “In quest’ottica la figura del <strong>disability manager </strong>può fungere da <strong>facilitatore</strong>”, spiega Dalla Mora. “Tra i punti strategici penso alla presenza di un disability manager nominato all’interno del <strong>CUG</strong> (Comitato Unico di Garanzia) previsto dalla normativa per dare indicazioni in merito alle modalità di sensibilizzazione dell’azienda e al coinvolgimento delle persone con disabilità relativamente all’<strong>organizzazione della sicurezza</strong>”.</p>



<p>Alla base permane un nemico insidioso: “Mancano una<strong> cultura </strong>e una conoscenza delle <strong>disabilità </strong>soprattutto<strong> di carattere cognitivo </strong>o relative all’autismo da parte dei responsabili della sicurezza. A ciò si aggiunge la pericolosa concezione secondo la quale la persona con disabilità intellettiva non possa essere un soggetto attivo all’interno dell’azienda anche dal punto di vista della sicurezza”.</p>



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<h2 id="h-gli-accomodamenti-ragionevoli-che-combattono-l-esclusione">Gli accomodamenti ragionevoli che combattono l’esclusione</h2>



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<p>Rodolfo Dalla Mora solleva lo spinoso caso dei <strong>contesti fisici di imprese</strong> che operano a suon di <strong>esclusione</strong>: “La normativa antiincendio va rispettata sempre al massimo, includendo tutti coloro che lavorano nel contesto. Per le persone con disabilità sia di tipo fisico che intellettivo occorre individuare collocazioni e modalità organizzative che consentano loro una facilitazione in caso di esodo”.</p>



<p>La chiave di volta per la prevenzione è rappresentata dai cosiddetti <strong>accomodamenti ragionevoli</strong>, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite, ossia quella serie di modifiche e adattamenti che consentono, attraverso l’eliminazione di barriere di diversa natura, la piena partecipazione delle persone con disabilità alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori/lavoratrici. Gli stessi accomodamenti ragionevoli permetterebbero a chi ha una disabilità di tipo fisico di lavorare in contesti anche più complessi dal punto di vista del rischio.</p>



<p>“Se la persona ha una difficoltà a deambulare ma può gestire compiti di controllo e gestione attraverso strumenti appositi, non ci sono preclusioni”, afferma Dalla Mora. “Non dobbiamo mai dimenticare che <strong>la valutazione del rischio </strong>va fatta non solo sull’<strong>ambiente </strong>ma anche<strong> sulla persona</strong>. Questo consente inclusione e prevenzione”.</p>



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<h2 id="h-alcuni-esempi-positivi-di-accessibilita-alla-sicurezza">Alcuni esempi positivi di accessibilità alla sicurezza</h2>



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<p>Ma ci sono <strong>settori del mercato del lavoro che si distinguono in maniera virtuosa</strong> per l’accessibilità alla sicurezza e la responsabilizzazione dei lavoratori con disabilità?</p>



<p>“Le <strong>cooperative sociali</strong> hanno una marcia in più da questo punto di vista”, commenta Dalla Mora. “Di recente ho notato che la filiera dei servizi legati all’alimentazione, come ad esempio i supermercati, si distingue in positivo”.</p>



<p>Chiediamo infine al presidente di S.I.Di.Ma. se ha mai conosciuto una <strong>persona con disabilità che coordinasse attività di sicurezza</strong>: “Per ora siamo ancora lontani da questo traguardo, purtroppo”. Ma chissà che il traguardo non si stacchi dall’orizzonte per diventare sempre più vicino.</p>



<p></p>



<p> In copertina un lavoratore con disabilità al lavoro in cucina. Photo@ArchivioAIDP </p>



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Accessibilità e sicurezza: disabili inclusi nel lavoro ma esclusi dalla formazione

<p>I colori del mondo per <strong>Mirco Loretoni</strong> si sono spenti il 26 aprile 2012. Aveva solo 26 anni ed era operaio del piccolo Comune di Castelsantangelo sul Nera (Macerata) quando è stato vittima di <strong>un incidente sul lavoro che gli ha fatto perdere la vista</strong>. Licenziato dal Comune in cui lavorava, oggi è uno dei primi “<strong>testimonial formatori della sicurezza</strong>” riconosciuto dalla Regione Marche tra i quindici che hanno concluso il percorso di formazione di <strong>ANMIL</strong>. Ora Mirco sta ultimando un altro corso e potrà diventare anche RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione), lavorando come consulente e facendo formazione per enti, aziende, scuole.</p>
<p>Presto queste figure saranno <strong>duecento a livello nazionale</strong>. Per l’Italia sono una <strong>novità assoluta</strong>. Il testimonial formatore per la sicurezza-RSPP rimette al centro della prevenzione contro le morti e le malattie professionali sul lavoro coloro che in passato hanno subito incidenti e sono stati formati appositamente con corsi tenuti dall’ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro) tramite l&#8217;ente di formazione IRFA, finanziati dallo Stato sia per cambiare la cultura della prevenzione in aziende private ed enti pubblici, sia per dare una nuova opportunità di lavoro a chi l’ha persa a causa di gravi infortuni o malattie professionali invalidanti.</p>
<p>Spiega Mirco Loretoni: “La nostra figura non è il classico formatore della sicurezza, noi siamo testimonial-formatori. Ad oggi questo ruolo è <strong>riconosciuto solo nella Regione Marche</strong>, ma si spera di svilupparlo anche in Italia e nel resto d’Europa. È la prima volta che si fa, in Italia: si tratta di un <strong>corso di 108 ore</strong> e tratta diverse materie; non solo la materia della sicurezza sul lavoro, ma anche la psicologia, perché si deve raccontare e rievocare l’incidente, mettersi a nudo di fronte ad altre persone e tirare fuori ciò che da anni si è messo da parte. Si deve dunque fare un lavoro psicologico per migliorare e tirare fuori la propria testimonianza”.</p>
<p>“All’inizio per qualcuno – è successo anche a me – parlare dell’incidente è davvero difficile, quindi dalla psicologia viene un aiuto per riuscirci. Noi vorremmo andare nelle <strong>scuole</strong> per fare in modo che un alunno esca dal quinto superiore con la formazione base per andare a lavorare il giorno dopo, trovando la formula con gli istituti e gli enti preposti a <strong>inserire la materia della sicurezza</strong>.”</p>
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<h2 id="h-gli-invalidi-sul-lavoro-diventano-testimonial-formatori">Gli invalidi sul lavoro diventano testimonial formatori</h2>
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<p>Il valore aggiunto di questo approccio è il fatto che il testimonial racconta la sua esperienza personale, spiega il giovane formatore: “Questo corso è nato con l’intenzione di <strong>portare la testimonianza della persona invalida sul lavoro</strong>, come nel mio caso, a tante altre persone: chi sta in azienda, nelle scuole, negli enti pubblici, in modo da capire proprio che rispettare le normative, usare i presidi di protezione individuale, avere attenzione per un macchinario e per un tipo di lavorazione, magari può aiutare a evitare un infortunio sul lavoro”.</p>
<p>“La Regione Marche insieme all’ANMIL ha sposato questa iniziativa formando quindici persone, inserendo la parte formativa della sicurezza relativa al <strong>decreto 81 del 2008</strong>, aggiungendo la <strong>testimonianza vera e propria dell’incidente subito</strong>. Oltre ai soliti corsi dove si parla di normativa e basta, in cui la gente perde attenzione, qui ascoltano una testimonianza vera. Io ho perso la vista, altri colleghi hanno riportato danni in altre parti del corpo, quindi fa la differenza. È difficile che le persone non siano prese dal racconto di come è accaduto l’incidente: una volta che usciranno da quella stanza, una volta terminata la lezione, il giorno dopo, quando andranno a fare qualsiasi lavoro, un minimo di attenzione in più ce la metteranno. Non devono aver paura; se c’è un macchinario o una situazione di lavoro dove c’è il rischio che qualcuno si possa far male, <strong>devono segnalarlo</strong>”.</p>
<p><strong>L’attuale formazione sulla sicurezza</strong> praticata nelle aziende <strong>va rivista</strong>, secondo Mirco Loretoni: “Si pensa a lavorare, a svolgere le ore di formazione obbligatorie, è una linea generica. Poi ogni lavorazione presenta un rischio che va da basso a medio alto; lì andranno applicate altre ore specifiche in base al rischio dell’azienda, ente pubblico, industria, o ufficio. Anche in un semplice ufficio c’è il rischio di malattie professionali, come per la postura. Sono tante le cose di cui tenere in conto”.</p>
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<h2 id="h-sergio-mustica-irfa-la-formazione-sulla-sicurezza-non-funziona-ecco-come-l-abbiamo-ripensata">Sergio Mustica, IRFA: “La formazione sulla sicurezza non funziona. Ecco come l’abbiamo ripensata”</h2>
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<p>A tracciare un bilancio di come sta andando è <strong>Sergio Mustica</strong>, presidente dell’IRFA: “È un progetto che sta andando molto bene, abbiamo in formazione altri settanta testimonial. Abbiamo iniziato nelle Marche con quindici persone, l’anno prossimo arriveremo a duecento a livello nazionale. Sul tema della sicurezza collaboreremo molto con le scuole, perché la sicurezza è vista come un tema burocratico non reale; gli istituti professionali fanno corsi di otto e dodici ore di slide e <strong>gli alunni non sviluppano nessun sapere</strong>, se non il formalismo di aver passato otto ore inutili”.</p>
<p>“Abbiamo introdotto un&#8217;azione differente per sviluppare una prospettiva: il saper essere della sicurezza non solo informativa, e su ciò abbiamo costruito <strong>percorsi didattici per le scuole</strong>, per materie curricolari, al fine di trovare connessioni dell&#8217;idea stessa di prevenzione nelle singole materie. Fattore chiave di questo progetto è la <strong>testimonianza</strong> di chi si è trovato vittima di un incidente oppure di una malattia professionale sul lavoro. La testimonianza specifica attua un aspetto di <strong>coinvolgimento emotivo del discente</strong>, attiva un interesse che i ragazzi inizialmente non hanno, e si riesce a farli riflettere e a entrare in una logica di approfondimento del tema”.</p>
<p>Il problema di fondo, secondo Mustica è che il tema della sicurezza è centrale nella vita degli esseri umani e che spesso non c’è una <strong>corretta percezione dei fenomeni</strong>: “È nella natura dell&#8217;essere umano compiere analisi del pericolo e dei rischi, è una cosa molto naturale che la burocrazia reso indigeribile. Al corso di testimonial formatori della sicurezza, si è aggiunto quello ulteriore che <strong>rende gli infortunati sul lavoro consulenti operativi</strong> che hanno una nuova opportunità professionale per portare la cultura della sicurezza ad attività pubbliche e privati. Si aggiunge la <strong>qualificazione del testimone</strong>, per docenti di formazione sulla sicurezza con la caratteristica di avere alle spalle un incidente sul lavoro o una malattia professionale, per utilizzare la loro esperienza di vita come rafforzamento della formazione obbligatoria sulla sicurezza”.</p>
<p>“Non serve svolgere formazione in cui non si apprende nulla e firmare un foglio, ma si devono <strong>connettere formazione e apprendimento</strong>. Un dato completamente sottovalutato – rileva Mustica – sono gli <strong>incidenti domestici</strong>. Ci sono in Italia <strong>22 morti al giorno</strong>, con 12.000 infortuni ogni anno dentro casa. Non c&#8217;è una percezione dei rischi. La casa, ritenuta il luogo più sicuro, è invece pericolosissima. Quando facciamo formazione si compie un’azione verso la <strong>cultura delle sicurezze</strong> intese al plurale; i comportamenti messi in atto sono gli stessi, è il luogo che cambia.”</p>
<p>“Dobbiamo cercare di <strong>far uscire dal politicamente corretto il tema della sicurezza sul lavoro</strong>. C’è una cecità della società dei media, che cercano solo certe condizioni per parlare e creare interesse. Quello che stiamo facendo è creare posti di lavoro trovando<strong> utilità nella disabilità</strong>. Per i formatori siamo gli unici a cercare di fare una cosa diversa uscendo dal politicamente corretto. Si fa formazione con slide di 12 ore, con persone che non sanno nulla di didattica. La sicurezza non è una materia, ma è trasversale. La nostra società è nata sulla sicurezza, la gente crede che per togliersi dalle responsabilità basta delegare il problema. La sicurezza è <strong>un valore sociale collettivo connesso all&#8217; educazione civica</strong>”.</p>
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<h2 id="h-il-progetto-di-anmil-e-marche-formatori-sulla-sicurezza-disabili-finanziati-dallo-stato"><strong>Il progetto di ANMIL e Marche: formatori sulla sicurezza disabili finanziati dallo Stato</strong></h2>
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<p><strong>Regione Marche</strong> e <strong>ANMIL</strong> per attuare il percorso formativo dei testimonial per la sicurezza hanno firmato un <strong>protocollo d’intesa</strong> nel 2019, finanziato dall’ente regionale con 50.000 euro. A seguire per l’ANMIL il progetto è il consigliere nazionale <strong>Giuseppe Diamanti</strong>: “La scuola della testimonianza sta dando ottimi risultati. Abbiamo iniziato ad andare nelle scuole con tre ore di formazione per le classi quarte e quinte degli istituti superiori con un risultato eccezionale: i ragazzi spengono il cellulare per ascoltare, questo è il feedback più bello che i giovani ci possono dare. Anche una multinazionale in Toscana ha chiesto il nostro intervento per svolgere formazione”.</p>
<p>“Non vogliamo spaventare, ma solo sensibilizzare i lavoratori. Il nostro obiettivo è far capire che <strong>quando ci si fa male cambia la vita</strong>, e la testimonianza della parte tecnica di un infortunio include il racconto di come è cambiata la vita dopo l&#8217;incidente. Chi viene dopo è solo l’ANMIL, tanti si dimenticano gli orfani e le famiglie. La formazione viene pagata dallo Stato, programmata all&#8217;inizio dell’anno, e siamo rimborsati per quanto abbiamo lavorato.”</p>
<p>“<strong>Stiamo cercando di far cambiare idea ai politici sulla prevenzione</strong>, che significa essenzialmente avvertire prima chi fa qualcosa riguardo i rischi a cui va incontro. Questo è il passaggio in cui crediamo. È ora di finirla: la formazione deve essere una cosa concreta, per aprire quella parte di cervello offuscata dall’esperienza. Infatti la maggior parte degli infortuni avviene tra i giovani o chi ha già tantissima esperienza, è difficile cambiare le abitudini che derivano dalla mancanza di formazione iniziale”.</p>
</p>
<p>In copertina: conferenza stampa in Regione Marche per la consegna di 15 attestati di “Testimonial Formatore della Sicurezza”. </p>
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Nasce la figura del testimonial formatore: si tratta di infortunati sul lavoro che formano altri professionisti sulla sicurezza grazie a un progetto di ANMIL, per ora riconosciuto solo nelle Marche. Ne parlano Sergio Mustica di IRFA e Giuseppe Diamanti di ANMIL.

Non tutti i mali vengono per nuocere: ANMIL e Regione Marche ripensano la sicurezza sul lavoro - Informazione senza filtro

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<p>Mesi, a volte anni. Questo è quello che ci vuole prima che un <strong>processo civile per un infortunio sul lavoro</strong>, o anche una malattia professionale, arrivi fino alla sentenza di Cassazione.</p>



<p>La guerra dei ricorsi e le lungaggini colpiscono spesso anche i lavoratori che già una volta non sono stati tutelati, mentre stavano svolgendo il proprio lavoro. Anche per questo spesso e volentieri le parti decidono di <strong>accordarsi tra loro senza avere bisogno di un giudice</strong>, per non perdere troppo tempo.</p>



<p>Secondo il giurista <strong>Mirco Minardi</strong>, che assiste da anni la CGIL nelle cause di lavoro, in media i tempi per avere un giudizio alla sezione lavoro della Cassazione oscillano <strong>tra i tre e i quattro anni</strong>, ma alcune sentenze sono arrivate anche dopo <strong>quindici anni</strong> nel caso di cause che toccavano sia il lavoratore che il datore di lavoro che l&#8217;INAIL e l&#8217;assicurazione.</p>



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<h2 id="h-cause-contro-inail-quando-il-pagamento-va-restituito">Cause contro INAIL, quando il pagamento va restituito</h2>



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<p>La <strong>sezione lavoro</strong>, assieme a quella tributaria, è una delle più lente, anche perché è tra quelle con il <strong>maggior numero di processi in corso</strong>.</p>



<p>Nei <strong>ricorsi contro l&#8217;INAIL</strong>, che coprono la maggioranza dei casi, se al lavoratore viene riconosciuto il diritto a percepire un rimborso, l&#8217;ente liquida dopo la sentenza di primo grado. Il rischio è che, se c&#8217;è un ricorso e il lavoratore perde in appello o in cassazione, debba <strong>restituire quanto percepito</strong>.</p>



<p>«Sono casi rarissimi – dice l&#8217;avvocato della CGIL <strong>Marco Dagradi</strong> – ma si possono verificare. Le cause per infortuni o malattie sul lavoro nella maggior parte dei casi non arrivano in Cassazione, ma il numero è comunque in aumento». Nel 2020, stando ai report del ministero della Giustizia: «Sono cresciute in modo non marginale le pendenze davanti alla Corte di cassazione (+ 5,6%)». Nel 2017/18 i procedimenti pendenti erano 109.019, l&#8217;anno successivo 113.862 e nel 2019/20 120.186. Di questi fanno parte anche i processi che riguardano <strong>infortuni o malattie professionali</strong>, che nella maggior parte dei casi vedono il lavoratore ricorrere contro l&#8217;INAIL.</p>



<p>«Nel caso in cui si tratti dell&#8217;INAIL – spiega Dagradi – <strong>la sentenza di primo grado è esecutiva</strong> e il lavoratore può chiedere da subito la messa in pagamento. Il problema vero è che se ci sono ricorsi fino alla Cassazione non si ha la matematica certezza di non dover ridare quei soldi». Il ricorso, infatti, non blocca il pagamento in automatico, ma ci deve essere esplicita richiesta, che solitamente l&#8217;INAIL non effettua.</p>



<p>I dibattimenti che arrivano in Cassazione riguardano nella maggior parte dei casi l&#8217;entità del danno che viene causato da un incidente sul lavoro, oppure se l&#8217;origine di una malattia sia di tipo professionale oppure debba essere attribuita ad altri fattori. I lavoratori si trovano così in un <strong>limbo di indeterminatezza</strong> che popola la letteratura giurisprudenziale, ma che soprattutto intasa la sezione lavoro della Cassazione, che ogni anno tratta migliaia di cause.</p>



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<h2 id="h-dai-vigili-ai-macellai-fino-ai-portieri-d-albergo-le-cause-di-lavoro-pendenti-da-anni">Dai vigili ai macellai, fino ai portieri d&#8217;albergo: le cause di lavoro pendenti da anni</h2>



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<p>I <strong>vigili di Pomigliano d&#8217;Arco</strong> ci hanno messo cinque anni (dal 2012 al 2017) per sapere se avessero diritto al risarcimento del danno biologico, che la Corte d&#8217;Appello aveva accordato, per aver lavorato sette giorni alla settimana. Altri quattro (2017-2021) per sapere che non ne avrebbero avuto diritto, stando alla Cassazione.</p>



<p>Un <strong>banconista di Roma</strong> invece ha atteso undici anni per scoprire che l&#8217;artrite e le varici di cui soffriva non erano dovute alla professione che ha svolto per tanti anni stando in piedi dietro un bancone, per servire i clienti con la sua carne. La causa di un <strong>portiere d&#8217;albergo</strong> che era svenuto durante il lavoro invece è durata dal 2006 al 2021.</p>



<p>Ma le cause per infortuni o malattie non riguardano soltanto l&#8217;INAIL. Spesso e volentieri, i giudici si devono confrontare con <strong>contenziosi tra lavoratori e aziende</strong>. Un manutentore delle ferrovie ha atteso quattordici anni la sentenza di una causa sul risarcimento per l&#8217;amputazione di un dito. Nel caso di conteziosi tra lavoratori e aziende, il problema è stabilire se ci sia o meno responsabilità da parte del datore di lavoro nel danno arrecato al dipendente.</p>



<p>«Se viene riconosciuta una responsabilità effettiva», dice Dagradi, «oltre all’indennizzo da parte dell’INAIL, il lavoratore danneggiato ha diritto a un <strong>risarcimento del danno da parte del datore di lavoro</strong>. La si può ottenere in due modi: o costituendosi parte civile nel processo penale oppure facendo causa. Le cause con l’INAIL in generale durano molto meno; in un anno si arriva alla sentenza di primo grado e in due a quella di appello. <strong>La Cassazione è quella che allunga i tempi</strong>, ma sono poche le cause che vi arrivano. In generale si fermano prima. Nel caso delle cause con le aziende la questione è più complessa, perché l&#8217;INAIL comunque corrisponde un rimborso, mentre nel caso di privati la società paga solo se si dimostra che ha una <strong>responsabilità</strong> nell&#8217;infortunio occorso al lavoratore. Se questi è caduto da una scala, per fare un caso ricorrente, affinché ci sia un pagamento da parte del datore di lavoro, questa deve essere stata danneggiata. E per dimostrarlo ci vuole più tempo».</p>



<p>Spesso vengono infatti coinvolti dei <strong>testimoni</strong> e vengono effettuate anche delle <strong>perizie</strong>. In questo caso prima di arrivare alla sentenza può passare anche un anno e mezzo, nel quale può darsi che le parti decidano di <strong>accordarsi</strong>. Infatti questo tipo di causa raramente arriva in Cassazione: nel 50% dei casi si trova una soluzione prima dei primi dodici mesi. Stiamo sempre parlando di infortuni non gravi con danni che provocano un’inabilità del 10 o del 15%, che però rappresentano la maggioranza degli infortuni sul lavoro.</p>



<p>«Spesso, infatti», continua Dagradi, «si concludono con una <strong>transazione</strong>. Capita non di rado che si arrivi a una transazione anche quando si è ancora al processo di appello, perché quando il dibattimento verte sull&#8217;inabilità i giudici tendono a passare la parola ai periti, cioè ai medici. Si va così a discutere delle percentuali di inabilità e dei conseguenti rimborsi dovuti. Spesso le differenze tra le risultanze dei periti delle parti sono minime. La decisione del giudice così è imprevedibile, e <strong>nel dubbio ci si accorda</strong>».</p>



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<h2 id="h-in-tribunale-il-tempo-e-nemico-dei-lavoratori-le-statistiche">In tribunale il tempo è nemico dei lavoratori: le statistiche</h2>



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<p><strong>Dati statistici</strong> esaustivi sul <strong>risultato delle sentenze della Cassazione</strong> al momento non esistono. Eppure alcuni giuristi hanno provato a sviluppare un&#8217;analisi.</p>



<p>È il caso di <strong>Biagio Cartillone</strong>, giurista milanese, che nel 2019 ha preso in esame 276 sentenze della sezione lavoro della Cassazione e le analizzate. Ne è emerso che: «A proporre il ricorso principale in Cassazione in maggioranza sono i lavoratori, con il 59,05%, contro il 40,95%, dei datori di lavoro. Il ricorso incidentale è proposto nella percentuale del 5,79%. I lavoratori sono coloro che lamentano in maggioranza la erroneità delle sentenze delle Corti di Appello e confidano nella loro riforma rivolgendosi alla Corte di Cassazione, ultima istanza delle loro aspettative. <strong>I lavoratori</strong>, pur essendo coloro i quali promuovono il maggior numero di ricorsi, <strong>vincono solo nella misura del 22,69%</strong>. Meno di un quarto dei loro ricorsi. I <strong>datori di lavoro</strong>, quando agiscono in via principale, <strong>vincono invece nella misura del 31,85%</strong>.»</p>



<p>Insomma, <strong>più dura il processo e meno conviene al lavoratore</strong>, che risulta spesso meno tutelato e si trova anche a dover attendere tempi lunghi, che nel periodo del COVID-19 si sono ulteriormente dilatati. Per questo la maggior parte dei contenziosi si risolve con l&#8217;accettazione di un&#8217;offerta da parte del datore di lavoro, senza doversi trascinare in un lungo percorso giudiziario dall&#8217;esito incerto, ma dai costi comunque alti.</p>



<p></p>



<p>In copertina foto by Pixabay</p>



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Cause di lavoro: tutto quello che non avete mai osato chiedere

<p>Per concretizzare un’autentica <strong>sicurezza sul luogo di lavoro</strong> sono necessari diversi ingredienti, non da ultimo quello dell’<strong>inclusione</strong>, perché gli aggettivi “sicuro” e “parziale” non possono fare coppia.</p>
<p>Partiamo da questa premessa importante per parlare di <strong>lavoratori e lavoratrici con disabilità e formazione alla sicurezza</strong>. Un tema spesso snobbato, quando in realtà non mancano casi di un’assente o parziale inclusione sul fronte sicurezza. Il risultato? Una discriminazione che porta con sé rischi tangibili, e non da ultimi danni veri e propri: episodi di esclusione di lavoratori con disabilità dalle prove antiincendio, mancanza di una loro responsabilizzazione, inaccessibilità delle informazioni basilari, e molto altro.</p>
<p>Per tastare il polso della situazione a livello nazionale abbiamo interpellato due figure cardine che si confrontano da tempo con queste problematiche, mettendo al bando le edulcorazioni e guardando in faccia ciò che va migliorato.</p>
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<h2 id="h-anna-contardi-aipd-per-le-persone-con-disabilita-non-c-e-autonomia-senza-sicurezza">Anna Contardi, AIPD: “Per le persone con disabilità non c’è autonomia senza sicurezza”</h2>
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<p>Nel 2018 l’Associazione Italiana Persone Down (<strong>AIPD</strong>) ha denunciato il fatto che a livello europeo mancavano delle linee guida condivise relative al tema urgente della <strong>sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici con</strong> <strong>disabilità intellettiva</strong>, che rispetto a quella fisica deve scontrarsi con stereotipi ancora più ardui da contrastare. Abbiamo raggiunto telefonicamente la coordinatrice nazionale di AIPD <strong>Anna Contardi</strong> per confrontarci sulla questione.</p>
<p>“Proprio nel periodo in cui abbiamo fatto presente il problema un nostro gruppo di operatori ha fatto un viaggio in Inghilterra finalizzato a confrontarsi sulle metodologie e le strategie relative al tema sicurezza”, sottolinea. “Abbiamo inoltre appena avuto l’approvazione di un progetto europeo, di nome VALUES, che riguarda la realizzazione di un <strong>corso di formazione alla sicurezza sul lavoro</strong> con <strong>modalità di alta comprensibilità</strong> per persone con disabilità intellettiva”.</p>
<p>L’iniziativa partirà a febbraio 2022 e mira a tutelare il principio di eguaglianza, oltre che il diritto di <strong>inclusione alla formazione</strong>, come spiega Anna Contardi: “I contenuti sono gli stessi degli altri lavoratori, cambiano solo le modalità di veicolazione per consentirne l’apprendimento. Sarà inoltre realizzato online utilizzando più lingue”.</p>
<p>Sfatiamo così subito un pregiudizio ancora oggi diffuso, ossia che la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità intellettiva vada delegata ad altre persone, sfociando così nell’assistenzialismo. “Purtroppo si dimentica spesso che un bambino con disabilità diventerà un adulto non da custodire e proteggere, bensì più consapevole dei rischi. <strong>Ogni vero percorso di autonomia deve sempre includere il tema della sicurezza</strong>”.</p>
<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/stage-cucine-Quirinale-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/stage-cucine-Quirinale-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-47642" /></a><figcaption>Un ragazzo in stage nelle cucine del Quirinale. Photo@ArchivioAIDP</figcaption></figure>
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<h2 id="h-value-able-la-rete-che-colloca-i-lavoratori-con-disabilita">Value-able, la rete che colloca i lavoratori con disabilità</h2>
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<p>Da tempo AIPD è inoltre titolare del <strong>marchio europeo</strong> <strong>“Value-able”</strong>, sempre facente parte di un progetto che premia le aziende che concretizzano l’inserimento lavorativo di persone con disabilità intellettive. “Diamo alle strutture che fanno questi inserimenti un marchio d’oro o d’argento o di bronzo a seconda che attivino tirocini oppure assumano”, spiega Anna Contardi.</p>
<p>AIPD Italia rappresenta l’ente capofila di questo progetto, che supera i confini nazionali coinvolgendo altri paesi come Turchia, Ungheria, Portogallo, Spagna, Croazia e Germania. E anche in questo caso l’inclusione è legata a filo doppio alla sicurezza: “Abbiamo portato avanti un lavoro per promuovere l’inserimento lavorativo di ragazzi e adulti con sindrome di Down nell’ambito della ristorazione e dell’accoglienza, coinvolgendo la <strong>formazione HACCP</strong> sempre in linguaggio ad alta comprensibilità”.</p>
<p>Secondo i dati aggiornati a settembre 2019, la rete “Value-able” ha incluso lavorativamente circa quattrocento persone con disabilità intellettiva in alberghi, ristoranti, B&amp;B, bar e fast food, come tirocinanti o come lavoratori. Contardi evidenzia: “La formazione portata avanti da AIPD coinvolge anche i <strong>colleghi che non presentano disabilità e</strong> <strong>i/le manager</strong>”.</p>
<p>Ma qual è la situazione dell’Italia rispetto al resto dell’Europa dal punto di vista della <strong>formazione inclusiva sulla sicurezza</strong>? “Non ho dati certi sulla formazione, quanto piuttosto sull’inclusione lavorativa da cui deriva il resto”, specifica la coordinatrice di AIPD. “Focalizzandomi sul segmento che seguo, posso dire che <strong>in Italia circa il 13,5% di adulti con sindrome Down lavora</strong>. Questi dati negli altri Paesi sono più bassi: in Spagna, tra i Paesi più virtuosi, si arriva al 7%, in Germania all’8% ma c’è una prevalenza di lavoro protetto”.</p>
<p>“L’<strong>inclusione scolastica </strong>porta con sé un processo di inclusione lavorativa, parte tutto da qui. Negli ultimi due mesi stanno aumentando le aziende che cercano noi di AIPD per fare inserimenti lavorativi, invertendo la tendenza: prima eravamo noi a contattare loro, adesso è il contrario. Stiamo siglando numerosi accordi”.</p>
<p>Da che cosa dipende questo cambiamento? “L’immaginario relativo alla persona con sindrome di Down al lavoro si sta modificando. In particolare dal 2014 abbiamo fatto un lavoro intenso sulla qualità degli inserimenti che ha incluso anche la <strong>sicurezza</strong>, e gli effetti si vedono”.</p>
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<h2 id="h-rodolfo-dalla-mora-s-i-di-ma-nelle-aziende-manca-cultura-della-disabilita-specie-di-tipo-cognitivo">Rodolfo Dalla Mora, S.I.Di.Ma.: “Nelle aziende manca cultura della disabilità, specie di tipo cognitivo”</h2>
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<p>“<strong>Fare sicurezza significa fare inclusione</strong>”.</p>
<p>Esordisce così rispetto al nostro tema <strong>Rodolfo Dalla Mora</strong>, presidente oltre che fondatore della Società Italiana Disability Manager (S.I.Di.Ma.). Costituita nel 2011, l’associazione si pone l’obiettivo di creare un confronto costante e allargato tra le figure dei e delle <strong>disability manager</strong> del territorio italiano, così da tutelare e promuovere i diritti delle persone con disabilità, incluso l’ambito lavorativo e la problematica dell’<strong>esclusione dalla sicurezza</strong>.</p>
<p>Rodolfo Dalla Mora è lui stesso un disability manager oltre che architetto, e da anni tiene le redini di un osservatorio dedicato a vari livelli del mondo aziendale. S.I.Di.Ma. da anni organizza incontri divulgativi e formativi su diverse tematiche relative l’inclusione: “Stiamo proprio preparando dei corsi monotematici e il tema della sicurezza è compreso in essi perché implica la <strong>prevenzione</strong>”, spiega Dalla Mora.</p>
<p>Anche in questo caso chiediamo quale sia la situazione sul fronte inclusione-sicurezza. “Siamo molto indietro innanzitutto perché <strong>la persona con disabilità </strong>che lavora in un’azienda o in un ente viene spesso vista come un <strong>problema che va risolto da altri</strong>”, chiosa. “Ad esempio le persone con disabilità non vengono praticamente mai coinvolte nei cosiddetti tavoli di incontro con i coordinatori delle singole aree preposte per risolvere le criticità e aggiornare i criteri relativi alla sicurezza. Questa è una forte lacuna”.</p>
<p>Mancanze che richiedono soluzioni concrete di recupero: “In quest’ottica la figura del <strong>disability manager </strong>può fungere da <strong>facilitatore</strong>”, spiega Dalla Mora. “Tra i punti strategici penso alla presenza di un disability manager nominato all’interno del <strong>CUG</strong> (Comitato Unico di Garanzia) previsto dalla normativa per dare indicazioni in merito alle modalità di sensibilizzazione dell’azienda e al coinvolgimento delle persone con disabilità relativamente all’<strong>organizzazione della sicurezza</strong>”.</p>
<p>Alla base permane un nemico insidioso: “Mancano una<strong> cultura </strong>e una conoscenza delle <strong>disabilità </strong>soprattutto<strong> di carattere cognitivo </strong>o relative all’autismo da parte dei responsabili della sicurezza. A ciò si aggiunge la pericolosa concezione secondo la quale la persona con disabilità intellettiva non possa essere un soggetto attivo all’interno dell’azienda anche dal punto di vista della sicurezza”.</p>
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<h2 id="h-gli-accomodamenti-ragionevoli-che-combattono-l-esclusione">Gli accomodamenti ragionevoli che combattono l’esclusione</h2>
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<p>Rodolfo Dalla Mora solleva lo spinoso caso dei <strong>contesti fisici di imprese</strong> che operano a suon di <strong>esclusione</strong>: “La normativa antiincendio va rispettata sempre al massimo, includendo tutti coloro che lavorano nel contesto. Per le persone con disabilità sia di tipo fisico che intellettivo occorre individuare collocazioni e modalità organizzative che consentano loro una facilitazione in caso di esodo”.</p>
<p>La chiave di volta per la prevenzione è rappresentata dai cosiddetti <strong>accomodamenti ragionevoli</strong>, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite, ossia quella serie di modifiche e adattamenti che consentono, attraverso l’eliminazione di barriere di diversa natura, la piena partecipazione delle persone con disabilità alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori/lavoratrici. Gli stessi accomodamenti ragionevoli permetterebbero a chi ha una disabilità di tipo fisico di lavorare in contesti anche più complessi dal punto di vista del rischio.</p>
<p>“Se la persona ha una difficoltà a deambulare ma può gestire compiti di controllo e gestione attraverso strumenti appositi, non ci sono preclusioni”, afferma Dalla Mora. “Non dobbiamo mai dimenticare che <strong>la valutazione del rischio </strong>va fatta non solo sull’<strong>ambiente </strong>ma anche<strong> sulla persona</strong>. Questo consente inclusione e prevenzione”.</p>
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<h2 id="h-alcuni-esempi-positivi-di-accessibilita-alla-sicurezza">Alcuni esempi positivi di accessibilità alla sicurezza</h2>
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<p>Ma ci sono <strong>settori del mercato del lavoro che si distinguono in maniera virtuosa</strong> per l’accessibilità alla sicurezza e la responsabilizzazione dei lavoratori con disabilità?</p>
<p>“Le <strong>cooperative sociali</strong> hanno una marcia in più da questo punto di vista”, commenta Dalla Mora. “Di recente ho notato che la filiera dei servizi legati all’alimentazione, come ad esempio i supermercati, si distingue in positivo”.</p>
<p>Chiediamo infine al presidente di S.I.Di.Ma. se ha mai conosciuto una <strong>persona con disabilità che coordinasse attività di sicurezza</strong>: “Per ora siamo ancora lontani da questo traguardo, purtroppo”. Ma chissà che il traguardo non si stacchi dall’orizzonte per diventare sempre più vicino.</p>
</p>
<p> In copertina un lavoratore con disabilità al lavoro in cucina. Photo@ArchivioAIDP </p>
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Non di rado le disabilità, specie quelle cognitive, vengono escluse dai protocolli di sicurezza aziendale: una lesione dell&#8217;autonomia della persona disabile. Ecco alcune soluzioni al problema, proposte da Anna Contardi di AIPD e Rodolfo Dalla Mora di S.I.Di.Ma.

Accessibilità e sicurezza: disabili inclusi nel lavoro ma esclusi dalla formazione - Informazione senza filtro

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<p>Questi anni di lockdown, nonostante i periodi di inattività, non hanno risparmiato i lavoratori e le <strong>morti sul lavoro</strong> sono state numerose. Il 2020 si era chiuso con 1.230 vittime, mentre secondo l’INAIL i primi dieci mesi del 2021 hanno visto <a href="https://www.ripartelitalia.it/wp-content/uploads/2021/11/Tabelle_nazionali_cadenza_mensile_Ott_2021.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">1.017 decessi</a>.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine1mortilavoro.png"><img width="891" height="561" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine1mortilavoro.png" alt="" class="wp-image-47592" /></a></figure></div>



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<p>Un dato importante, che racchiude non solo storie di famiglie distrutte, ma anche dinamiche che devono essere interpretate per comprendere meglio il fenomeno delle morti sul lavoro e come prevenirle.</p>



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<h2 id="h-dove-e-come-muoiono-i-lavoratori-in-italia">Dove e come muoiono i lavoratori in Italia</h2>



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<p>La Regione col <strong>maggior numero di vittime</strong> è la <strong>Lombardia</strong>, dove sono in 140 ad aver perso la vita per lavoro. Su questo triste podio ci sono poi la <strong>Campania</strong> e il <strong>Lazio</strong>, con rispettivamente 107 e 96 decessi. La Regione che ne ha invece subiti di meno è stata la Val d’Aosta, dove ne sono avvenuti tre, uno in più dell’anno scorso.</p>



<p>I termini assoluti, però, non sono molto d’aiuto, perché sono influenzati dalla dimensione geografica. Calcolando l’incidenza di questi valori ogni 100.000 lavoratori si può avere un quadro diverso, in grado di restituire un’immagine più fedele alla realtà: così la Lombardia non appare così critica, mentre <strong>Emilia-Romagna</strong>, <strong>Piemonte</strong> e <strong>Lazio</strong> sono chiaramente più colpite dal fenomeno. Secondo questo tipo di visualizzazione, come si può vedere nell’infografica, il <strong><a href="https://datawrapper.dwcdn.net/2IuWw/1/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Molise</a></strong> detiene il primato per quanto riguarda gli incidenti mortali sul lavoro.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine2mortilavoro.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine2mortilavoro.png" alt="" class="wp-image-47593" width="840" height="555" /></a></figure></div>



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<p>Come mostra il grafico, ci sono state significative diminuzioni in Lombardia, in Liguria, in Piemonte e in Emilia-Romagna nell’ultimo anno, ma il numero delle morti è salito nel Lazio e soprattutto in Campania e Puglia. Il fenomeno è trasversale e colpisce tutte le fasce d’età, ma sono i <strong>lavoratori sessantenni</strong> i più frequenti nelle pagine di cronaca, sia quest’anno che lo scorso, mentre c’è stata una diminuzione nella fascia che va dai 40 ai 50 anni. Tristemente ci sono vittime anche fra gli over 70, sintomo del continuo allontanarsi dell’età pensionabile.</p>



<p>Tuttavia non bisogna credere che quei 1.017 fossero tutti lavoratori dediti a mansioni pericolose. La maggioranza di loro, 859, sono catalogati dall’INAIL nell’<strong>industria</strong> e nei <strong>servizi</strong>, 112 nell’<strong>agricoltura</strong> e 46 alla voce “<strong>per conto dello Stato</strong>”, dove figurano i dipendenti delle amministrazioni statali e i medici esposti a elementi radioattivi. Di tutti questi, 202 sono <strong>morti in itinere</strong>, ossia nel tragitto verso o dal posto di lavoro. I restanti 815 sono deceduti durante lo svolgersi delle loro mansioni.</p>



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<h2 id="h-tutti-i-settori-delle-morti-sul-lavoro">Tutti i settori delle morti sul lavoro</h2>



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<p><strong>Industrie e servizi</strong> racchiudono diverse categorie: l’industria, l’artigianato, il terziario e altre attività. Togliendo la parte di decessi in itinere, le morti sul lavoro sono in tutto 678 e sono così ripartite: 241 nell’industria, 137 nell’artigianato, 145 nel terziario, 52 in altre attività e 103 non determinate. Molte di queste, però, sono avvenute sì nello svolgimento della mansione, ma <strong>su un mezzo di trasporto</strong>: 52 nell’industria, 28 nell’artigianato, 22 nel terziario, 6 in altre attività e 2 non determinate, per un totale di 110. Rispetto quindi al dato iniziale, sono 189 e 109 le morti avvenute in prossimità di macchinari pericolosi. Si tratta comunque di un numero non irrilevante, ma che ridimensiona la percezione del fenomeno come una semplice fatalità dovuta all’intrinseca pericolosità di certi mestieri.</p>



<p>Anche nell’<strong>agricoltura</strong> la maggior parte delle morti è avvenuta senza l’utilizzo di un mezzo di trasporto; il fatto può stupire perché le macchine agricole potrebbero sembrare il pericolo più grande. Invece, su 98 decessi sul luogo di lavoro, solo 15 sono avvenuti sui mezzi, mentre i restanti 83 sono stati causati dalle altre condizioni di lavoro.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine3mortilavoro.png"><img width="756" height="425" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine3mortilavoro.png" alt="" class="wp-image-47594" /></a></figure></div>



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<p>Come si può leggere anche dalla cronaca, però, il numero maggiore di incidenti mortali avviene nel settore delle <strong>costruzioni</strong>. Da inizio gennaio a fine ottobre sono stati 98 gli operai morti nei cantieri, anche più di tutti quelli delle attività manifatturiere messe insieme, fra i quali pesano le industrie alimentari (15), la fabbricazione di prodotti in metallo (17) e quella di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (12). Nella metallurgia sono stati solo 3 i decessi, mentre nella produzione di <em>coke</em> e altri derivati della raffinazione del petrolio non c’è stata nessuna vittima.</p>



<p>Un’altra voce rilevante è quella del <strong>trasporto</strong> e <strong>magazzinaggio</strong>, che conta 81 decessi, così come nella riparazione e commercio all&#8217;ingrosso e al dettaglio di autoveicoli e motocicli, dove sono stati 62. Anche nel settore del noleggio, delle agenzie di viaggio e di servizi di supporto alle imprese sono morti diversi lavoratori, per l’esattezza 26, più dell’Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale obbligatoria, categoria che comprende le attività di amministrazione, supervisione e gestione della difesa militare delle forze armate, attività sanitarie destinate</p>



<p>alle truppe sul campo, attività amministrative, di gestione e di supporto delle forze civili di difesa, dove sono state 21. Persino nell’istruzione sono ci sono state 5 morti.</p>



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<h2 id="h-se-anche-la-morte-sul-lavoro-e-una-questione-di-genere">Se anche la morte sul lavoro è una questione di genere</h2>



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<p>La varietà della categoria industria e il diverso peso che hanno i settori che possono apparire più o meno pericolosi ci permette quindi di sfatare una semplificazione che vorrebbe le morti sul lavoro relegate solo a certi tipi di mestieri, e ci permette di capire che <strong>le situazioni pericolose possono crearsi ovunque</strong>, come per la scuola. Anche nelle attività finanziarie e assicurative ci sono state 5 vittime. Basta un filo scoperto e una mancata attenzione alla cultura della sicurezza.</p>



<p>A farne le spese non sono stati solo i lavoratori italiani. Nei dieci mesi in osservazione, nel nostro territorio, sono stati 861 le vittime nostre connazionali, mentre <strong>38 venivano da altri Paesi dell’Unione europe</strong>a. Un numero più alto è quello dei soggetti <strong>extracomunitari</strong>, pari a 118. La sua incidenza è molto rilevante se si considera che il numero dei lavoratori non UE in Italia è pari a circa 2,34 milioni.</p>



<p>Infine, la <strong>questione di genere</strong>. Dei 1.017 deceduti, <strong>922 sono uomini</strong>. Di questi, 745 sono morti sul luogo di lavoro, 121 dei quali si trovavano su un mezzo di trasporto, mentre 177 sono morti per incidenti in itinere. <strong>Le donne sono invece 95</strong>; 70 sono morte sul posto di lavoro, 5 erano su un mezzo, mentre 25 sono decedute negli spostamenti da casa al lavoro o viceversa.</p>



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<p>Foto di copertina by Pixabay</p>



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Il Molise muore sul lavoro, la Lombardia non è da meno

<p>Mesi, a volte anni. Questo è quello che ci vuole prima che un <strong>processo civile per un infortunio sul lavoro</strong>, o anche una malattia professionale, arrivi fino alla sentenza di Cassazione.</p>
<p>La guerra dei ricorsi e le lungaggini colpiscono spesso anche i lavoratori che già una volta non sono stati tutelati, mentre stavano svolgendo il proprio lavoro. Anche per questo spesso e volentieri le parti decidono di <strong>accordarsi tra loro senza avere bisogno di un giudice</strong>, per non perdere troppo tempo.</p>
<p>Secondo il giurista <strong>Mirco Minardi</strong>, che assiste da anni la CGIL nelle cause di lavoro, in media i tempi per avere un giudizio alla sezione lavoro della Cassazione oscillano <strong>tra i tre e i quattro anni</strong>, ma alcune sentenze sono arrivate anche dopo <strong>quindici anni</strong> nel caso di cause che toccavano sia il lavoratore che il datore di lavoro che l&#8217;INAIL e l&#8217;assicurazione.</p>
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<h2 id="h-cause-contro-inail-quando-il-pagamento-va-restituito">Cause contro INAIL, quando il pagamento va restituito</h2>
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<p>La <strong>sezione lavoro</strong>, assieme a quella tributaria, è una delle più lente, anche perché è tra quelle con il <strong>maggior numero di processi in corso</strong>.</p>
<p>Nei <strong>ricorsi contro l&#8217;INAIL</strong>, che coprono la maggioranza dei casi, se al lavoratore viene riconosciuto il diritto a percepire un rimborso, l&#8217;ente liquida dopo la sentenza di primo grado. Il rischio è che, se c&#8217;è un ricorso e il lavoratore perde in appello o in cassazione, debba <strong>restituire quanto percepito</strong>.</p>
<p>«Sono casi rarissimi – dice l&#8217;avvocato della CGIL <strong>Marco Dagradi</strong> – ma si possono verificare. Le cause per infortuni o malattie sul lavoro nella maggior parte dei casi non arrivano in Cassazione, ma il numero è comunque in aumento». Nel 2020, stando ai report del ministero della Giustizia: «Sono cresciute in modo non marginale le pendenze davanti alla Corte di cassazione (+ 5,6%)». Nel 2017/18 i procedimenti pendenti erano 109.019, l&#8217;anno successivo 113.862 e nel 2019/20 120.186. Di questi fanno parte anche i processi che riguardano <strong>infortuni o malattie professionali</strong>, che nella maggior parte dei casi vedono il lavoratore ricorrere contro l&#8217;INAIL.</p>
<p>«Nel caso in cui si tratti dell&#8217;INAIL – spiega Dagradi – <strong>la sentenza di primo grado è esecutiva</strong> e il lavoratore può chiedere da subito la messa in pagamento. Il problema vero è che se ci sono ricorsi fino alla Cassazione non si ha la matematica certezza di non dover ridare quei soldi». Il ricorso, infatti, non blocca il pagamento in automatico, ma ci deve essere esplicita richiesta, che solitamente l&#8217;INAIL non effettua.</p>
<p>I dibattimenti che arrivano in Cassazione riguardano nella maggior parte dei casi l&#8217;entità del danno che viene causato da un incidente sul lavoro, oppure se l&#8217;origine di una malattia sia di tipo professionale oppure debba essere attribuita ad altri fattori. I lavoratori si trovano così in un <strong>limbo di indeterminatezza</strong> che popola la letteratura giurisprudenziale, ma che soprattutto intasa la sezione lavoro della Cassazione, che ogni anno tratta migliaia di cause.</p>
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<h2 id="h-dai-vigili-ai-macellai-fino-ai-portieri-d-albergo-le-cause-di-lavoro-pendenti-da-anni">Dai vigili ai macellai, fino ai portieri d&#8217;albergo: le cause di lavoro pendenti da anni</h2>
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<p>I <strong>vigili di Pomigliano d&#8217;Arco</strong> ci hanno messo cinque anni (dal 2012 al 2017) per sapere se avessero diritto al risarcimento del danno biologico, che la Corte d&#8217;Appello aveva accordato, per aver lavorato sette giorni alla settimana. Altri quattro (2017-2021) per sapere che non ne avrebbero avuto diritto, stando alla Cassazione.</p>
<p>Un <strong>banconista di Roma</strong> invece ha atteso undici anni per scoprire che l&#8217;artrite e le varici di cui soffriva non erano dovute alla professione che ha svolto per tanti anni stando in piedi dietro un bancone, per servire i clienti con la sua carne. La causa di un <strong>portiere d&#8217;albergo</strong> che era svenuto durante il lavoro invece è durata dal 2006 al 2021.</p>
<p>Ma le cause per infortuni o malattie non riguardano soltanto l&#8217;INAIL. Spesso e volentieri, i giudici si devono confrontare con <strong>contenziosi tra lavoratori e aziende</strong>. Un manutentore delle ferrovie ha atteso quattordici anni la sentenza di una causa sul risarcimento per l&#8217;amputazione di un dito. Nel caso di conteziosi tra lavoratori e aziende, il problema è stabilire se ci sia o meno responsabilità da parte del datore di lavoro nel danno arrecato al dipendente.</p>
<p>«Se viene riconosciuta una responsabilità effettiva», dice Dagradi, «oltre all’indennizzo da parte dell’INAIL, il lavoratore danneggiato ha diritto a un <strong>risarcimento del danno da parte del datore di lavoro</strong>. La si può ottenere in due modi: o costituendosi parte civile nel processo penale oppure facendo causa. Le cause con l’INAIL in generale durano molto meno; in un anno si arriva alla sentenza di primo grado e in due a quella di appello. <strong>La Cassazione è quella che allunga i tempi</strong>, ma sono poche le cause che vi arrivano. In generale si fermano prima. Nel caso delle cause con le aziende la questione è più complessa, perché l&#8217;INAIL comunque corrisponde un rimborso, mentre nel caso di privati la società paga solo se si dimostra che ha una <strong>responsabilità</strong> nell&#8217;infortunio occorso al lavoratore. Se questi è caduto da una scala, per fare un caso ricorrente, affinché ci sia un pagamento da parte del datore di lavoro, questa deve essere stata danneggiata. E per dimostrarlo ci vuole più tempo».</p>
<p>Spesso vengono infatti coinvolti dei <strong>testimoni</strong> e vengono effettuate anche delle <strong>perizie</strong>. In questo caso prima di arrivare alla sentenza può passare anche un anno e mezzo, nel quale può darsi che le parti decidano di <strong>accordarsi</strong>. Infatti questo tipo di causa raramente arriva in Cassazione: nel 50% dei casi si trova una soluzione prima dei primi dodici mesi. Stiamo sempre parlando di infortuni non gravi con danni che provocano un’inabilità del 10 o del 15%, che però rappresentano la maggioranza degli infortuni sul lavoro.</p>
<p>«Spesso, infatti», continua Dagradi, «si concludono con una <strong>transazione</strong>. Capita non di rado che si arrivi a una transazione anche quando si è ancora al processo di appello, perché quando il dibattimento verte sull&#8217;inabilità i giudici tendono a passare la parola ai periti, cioè ai medici. Si va così a discutere delle percentuali di inabilità e dei conseguenti rimborsi dovuti. Spesso le differenze tra le risultanze dei periti delle parti sono minime. La decisione del giudice così è imprevedibile, e <strong>nel dubbio ci si accorda</strong>».</p>
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<h2 id="h-in-tribunale-il-tempo-e-nemico-dei-lavoratori-le-statistiche">In tribunale il tempo è nemico dei lavoratori: le statistiche</h2>
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<p><strong>Dati statistici</strong> esaustivi sul <strong>risultato delle sentenze della Cassazione</strong> al momento non esistono. Eppure alcuni giuristi hanno provato a sviluppare un&#8217;analisi.</p>
<p>È il caso di <strong>Biagio Cartillone</strong>, giurista milanese, che nel 2019 ha preso in esame 276 sentenze della sezione lavoro della Cassazione e le analizzate. Ne è emerso che: «A proporre il ricorso principale in Cassazione in maggioranza sono i lavoratori, con il 59,05%, contro il 40,95%, dei datori di lavoro. Il ricorso incidentale è proposto nella percentuale del 5,79%. I lavoratori sono coloro che lamentano in maggioranza la erroneità delle sentenze delle Corti di Appello e confidano nella loro riforma rivolgendosi alla Corte di Cassazione, ultima istanza delle loro aspettative. <strong>I lavoratori</strong>, pur essendo coloro i quali promuovono il maggior numero di ricorsi, <strong>vincono solo nella misura del 22,69%</strong>. Meno di un quarto dei loro ricorsi. I <strong>datori di lavoro</strong>, quando agiscono in via principale, <strong>vincono invece nella misura del 31,85%</strong>.»</p>
<p>Insomma, <strong>più dura il processo e meno conviene al lavoratore</strong>, che risulta spesso meno tutelato e si trova anche a dover attendere tempi lunghi, che nel periodo del COVID-19 si sono ulteriormente dilatati. Per questo la maggior parte dei contenziosi si risolve con l&#8217;accettazione di un&#8217;offerta da parte del datore di lavoro, senza doversi trascinare in un lungo percorso giudiziario dall&#8217;esito incerto, ma dai costi comunque alti.</p>
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<p>In copertina foto by Pixabay</p>
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